Perché sempre meno matrimoni e meno figli in Italia?
Il declino del matrimonio religioso da decenni accompagna il declino demografico. Indagine sulla relazione tra questi due dati, che non è scientifica ma riguarda il nostro rapporto con quel “per sempre”
È giunta l’ora di mettere, come suol dirsi, i piedi nel piatto. Tanto si sarà capito ch’è rimasto ben poco da terremotare, in campo demografico. Demograficamente parlando il nostro è un campo diventato sempre un poco più sterile col trascorrere del tempo, la pandemia contribuisce, ma non è essenziale. Di essenziale c’è che in Italia si è smesso praticamente di nascere. Nel 2021 potremmo scendere sotto le 400 mila nascite, dopo le 570 mila dell’effimera ripresina del 2007-2008 e il fondo di 404 mila nascite toccato nel 2020. Siamo a 6,8 nascite annue ogni mille abitanti, lontanissimi dai pur bassi standard europei (9,3 nascite annue ogni mille abitanti nell’Ue): un livello difficile da comprimere ancora. Certo, la discesa si smusserà, si assesterà, si fermerà perfino, ma i giochi sono quasi, se non proprio del tutto, fatti: l’Italia arriverà alla fine del secolo con la popolazione dimezzata e più vecchia, suggeriscono autorevolissime previsioni.
Chi pensa che torneremo a crescere così, con sforzi minimi, un po’ di soldi in più per chi nasce, qualche immigrato ancora, meglio se non africano, dovrebbe andare a scuola dal presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, che commentando il dato delle nascite del 2020 in Italia ha così chiosato: “Il motore della società si sta spegnendo”. Quasi un epitaffio.
E’ dunque l’ora di mettere i piedi nel piatto e, senza tirarla per le lunghe, passare a un’affermazione che potrebbe sembrare sorprendente senza esserlo: non si nasce più da quando gli italiani hanno smesso di sposarsi in chiesa, davanti al prete e all’altare, rinunciando al tanto evocato e bistrattato, temuto e santificato “per sempre”. Rinunciare al per sempre ha significato in pratica, senza che lo si volesse davvero, inavvertitamente più ancora che inconsciamente, rinunciare ai figli. Sempre meno matrimoni in chiesa hanno accompagnato passo dopo passo l’implacabile involuzione della natalità. Un po’ quello che è successo, ma in Italia ancora più in grande, negli altri paesi mediterranei e, almeno nominalmente, cattolici: Spagna, Portogallo e Grecia. Nell’Europa continentale e del nord il declino del matrimonio con rito religioso è stato almeno in parte compensato, sul lato delle nascite, da politiche nataliste di forte impegno, ma che pure stanno ormai mostrando anch’esse la corda. In Italia e nei paesi mediterranei è mancata quasi completamente questa compensazione e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: il nostro è forse il paese con la più bassa proporzione di popolazione infantile e giovanile al mondo, un paese vecchissimo. Non bastasse, e sempre come conseguenza di una natalità che da decenni ha imboccato la traiettoria discendente, il numero di donne in età feconda non fa che ridursi e rappresentare una proporzione sempre più piccola del totale delle donne. E siccome sono loro, le donne in età feconda, che fanno i bambini ecco che la prima condizione della ripresa è bell’e compromessa.
In Italia sempre meno matrimoni e meno figli. Perché?
Potremmo lasciare il matrimonio religioso al suo destino tra declino e sparizione, non fosse che – e basta scrivere anno dopo anno dal Dopoguerra a oggi su una colonna il numero dei matrimoni religiosi e sull’altra il numero dei nati per coglierne la plastica evidenza – l’andamento dei matrimoni celebrati con rito religioso e quello delle nascite risultano pressoché sovrapponibili. Gemelli.
Ma vediamo un poco più scientificamente come stanno le cose. La correlazione tra matrimoni religiosi e nascite, calcolata sui dati annui dal 1948 a oggi, è di 0,921. Siccome il massimo della correlazione positiva è 1, si capisce bene che ai movimenti del numero dei matrimoni religiosi corrispondono movimenti nella stessa direzione e pressoché della stessa entità delle nascite, e viceversa. Fin qui c’è poco da discutere. Piuttosto, si tratta di capire che cosa questa mostruosamente alta correlazione positiva significa. Togliamo subito di mezzo un possibile equivoco: correlazione non è sinonimo – pur se non la esclude – di relazione causa-effetto, non si può cioè inferire che la tendenza dei matrimoni religiosi a diminuire nel tempo sia la causa dell’analoga tendenza alla diminuzione nel tempo delle nascite. Potrebbe anche essere così, ma quel valore di 0,921 testimonia “soltanto” la pressoché perfetta concordanza, la pressoché piena corrispondenza, degli andamenti dei matrimoni religiosi e delle nascite in Italia tra il 1948 e oggi. Ovvio che questa concordanza, questa corrispondenza, potrebbe essere da imputarsi ad altri fenomeni e tendenze della società italiana – una per tutti, la cosiddetta secolarizzazione – che agiscono nello stesso senso su matrimoni religiosi e nascite, ovvero che si riflettono con una forza pressoché analoga sull’andamento dei primi e delle seconde. Ma resta il fatto: matrimoni religiosi e nascite procedono assieme, avanzano o retrocedono assieme. Per la verità retrocedono e basta. Assieme.
Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la fine dei sessanta del Novecento il miracolo economico deruralizza l’Italia, la svecchia culturalmente e la proietta nel novero delle grandi potenze industriali e manifatturiere. Sono anni decisivi. Ed è allora che i tassi di nuzialità arrivano ai valori più alti (vicini agli 8 matrimoni annui ogni mille abitanti, contro i 3 di oggi, prodotti in certi anni da oltre 400 mila matrimoni), il matrimonio religioso sfiora il 100 per 100 dei matrimoni, i nati non sono mai stati così tanti: fino a più di un milione all’anno, due volte e mezzo i nati di oggi, in una popolazione di 8 milioni di abitanti inferiore a quella di oggi.
La società italiana è in pieno fermento. Col miracolo economico conosce finalmente un benessere diffuso che genera libertà, una nuova e ben più forte posizione della donna nella società viene affermandosi, sospinta anche da un mercato in espansione che mal sopporta di essere troppo legato ai consumi della quota maschile della popolazione, la piena collocazione internazionale dell’Italia nel campo occidentale e atlantico, d’altra parte, oltre ad offrire sbocchi alla sua economia ne amplia, e sprovincializza, l’orizzonte politico-culturale. Arrivano i Beatles, e arriva la contestazione studentesca e giovanile. Tutto contribuisce a fare letteralmente lievitare una sensibilità in tema di rapporti uomo-donna, di sentimenti e sesso, all’insegna di una superiore libertà e perfino spregiudicatezza. Proprio quella spregiudicatezza che la chiesa non è pronta ad affrontare – che, anzi, non sa bene come affrontare.
L’ enciclica Humanae vitae del 1968 si colloca anche temporalmente su di un crinale a tal punto sottile e impervio tra spinte emotive, ideali e socio-culturali a monte e trasformazioni politico-legislative a valle (dal divorzio al nuovo diritto di famiglia fino all’aborto), da far sorgere il dubbio che a muovere Paolo VI a quell’enciclica sia stata la preoccupazione dell’assedio, per dir così, cui cominciava a essere sottoposta tutta l’impostazione dottrinale della chiesa in materia sessuale e famigliare da parte di strati sempre più larghi della società non solo italiana ma occidentale in senso lato. Ed eccola, allora, l’Humanae vitae, gettata in campo, nell’agone, nella battaglia, con l’obiettivo non dichiarato e tuttavia evidente di fare argine alla spregiudicatezza che si profilava all’orizzonte e di moderare i tanti, troppi impulsi alla libertà sessuale così da ricondurli, o almeno da provare a farlo, entro i confini – che proprio l’enciclica riconosce come necessitanti di “sacrifici eroici” per non essere superati – di una morale che si trova a nuotare inaspettatamente controcorrente. Curioso destino, questo, che fa dell’Humanae vitae forse la sola enciclica presto accantonata e al tempo stesso sempre presente nell’animo di tanti cattolici.
Eppure in questa enciclica non c’è un accenno ai bambini, alle nascite come frutto di quell’amore che si nutre anche di “sacrifici eroici”. Intendiamoci, erano anni di molte nascite, nessuno poteva prevedere quel che sarebbe successo. Nemmeno il Papa. Ma la chiesa già da allora mostra di non avere ben chiara la forza che il matrimonio religioso esercita sulla natalità, contribuendo a sostenerla su livelli che sono funzionali alle fasi della crescita economica, sociale e culturale del paese; di non avere piena coscienza del fatto che se il matrimonio religioso accusa un colpo un colpo analogo lo accusano pure le nascite. Non ha paradossalmente presente fino in fondo come e quanto il “per sempre” pronunciato dagli sposi di fronte al prete che li unisce agisce a favore della natalità, indirizzandola verso una prole incardinata almeno attorno ai due figli che sostituiranno quando sarà il tempo i genitori.
Blangiardo (Istat): "Il motore della crescita si sta spegnendo"
Se il matrimonio è per sempre, se l’unione è per sempre come si fa a pensare di non avere figli? Quale coppia che si unisce all’insegna del per sempre esclude in partenza la possibilità di fare dei figli? L’unione per sempre ha bisogno dei figli per aspirare a realizzare il traguardo del “per sempre”. Non solo, la coppia è giustificata nel suo per sempre, altrimenti non così naturale, proprio in quanto lo giustificano e perfino lo nobilitano i figli. La coppia per sempre non è indirizzata ai figli e a quelli soltanto, c’è l’amore, c’è la condivisione di gioie e dolori e tutto il resto, ma senza figli viene meno il fondamento, la bussola che la orienta, corre rischi decuplicati di afflosciarsi e perdersi. E’ per questo che il matrimonio con rito religioso si dimostra l’“ambiente” con la maggiore propensione alle nascite e il più adatto ai bambini. La cosa – che le statistiche continuano, anche se sempre un poco più debolmente, a documentare – non deve sorprendere. La stabilità sentimentale è la prima condizione per nutrire il desiderio dei figli. E la stabilità sentimentale è a tutt’oggi più alta, e teoricamente almeno la massima, nel “per sempre” del rito religioso.
Il sentimento, e il concetto stesso, del “per sempre” è stato relativizzato – non cancellato, ma relativizzato e messo a dura prova – dal divorzio. La libertà dei coniugi, che una volta ci sbatteva contro come si sbatte contro un muro, può decidere di farne a meno e di passare oltre. Quel muro non c’è più. Ma resta un confine ideale ed esistenziale che comporta uno sforzo doppio, sul piano psicologico e nervoso, umano, per essere superato. Passare oltre è più difficile che nel matrimonio civile.
L’inabissarsi del matrimonio religioso pone alla chiesa interrogativi ineludibili. Negli anni Settanta la proporzione dei matrimoni religiosi scendeva al 92,1 per cento, dal 98,6 per cento del decennio precedente. Una flessione contenuta, ma la prima, e per questo importante. Negli anni novanta la percentuale è ancora all’81,6 per cento. La perdita è inequivocabile, ma appare misurata, accettabile. E’ con il nuovo Millennio che si trasforma in vera e propria rotta: 68,5 per cento di matrimoni religiosi nel primo decennio, 55,5 per cento nel secondo decennio, anni 2010-2019: un autentico calvario. Queste le percentuali annue di matrimoni religiosi dal 2010 al 2019: 63,5; 60,8; 59,0; 57,5; 56,9; 54,7; 53,1; 50,5; 49,9; 47,4. Se pure si esclude il 28,8 per cento del 2020, anno segnato dalla pandemia che ha senz’altro penalizzato i matrimoni religiosi piuttosto dei più agili e meno cerimoniosi matrimoni civili, il ritmo annuale che attesta la perdita di centralità del matrimonio religioso è doppiamente significativo alla luce della contrazione continua del numero annuo dei matrimoni attestati ad appena 184 mila nel 2019 e alla metà, taroccata dalla pandemia ma pur sempre la metà, del 2020. La chiesa non può non domandarsi il perché di una tale accelerazione nella caduta del matrimonio religioso che rischia di azzerarlo nei prossimi venti anni. Stondare e stemperare, almeno da un punto di vista ideale e culturale, se non proprio dottrinale, confini e distanze del “per sempre” sacramentale ha forse finito per sottrargli identità e riconoscibilità? E quel senso di orgogliosa diversità che ha sostenuto e nutrito quanti vi aderivano? Nel progressivo annacquamento di senso del matrimonio, sempre più rito di passaggio che non preclude i passi futuri, quello religioso è risultato decisamente perdente rispetto al matrimonio civile. Ristabilire diversità e distanze tra i riti sarebbe dunque cattiva politica? Insegnamento sbagliato e fuorviante della chiesa? Della cattolicità?
Intendiamoci, del matrimonio, religioso e non, ci interessa il giusto. Delle nascite, che dalla ripresa di senso, valore e numero del matrimonio religioso potrebbero attingere speranze ed energie per una qualche nuova fioritura, non può invece che interessarci moltissimo.
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