Ma quale schiena dritta?
Roncone e Montanari, mostri che parlano
Uno bastona il cane che affoga. L'altro fa l’insultatore accademico, tra un tweet e l'altro
Roncone, Fabrizio. “Decido io a quali colleghi dare del tu”. Se sei Philip Roth puoi decidere come sbozzare i tuoi personaggi. Se porti a casa la mesata nel giornale caposcuola nell’arte di bastonare il cane che affoga ma di tenersi abbottonato con i potenti di turno; se il tu nelle interviste, come spesso capita, lungi dall’essere maschio pronome fascista è un ammicco, quando non è direttamente l’intervistato a concederlo, meglio evitare di dire “decido io”. Si fa una figura barbina. Soprattutto, è molto vigliacco sfoggiare forza di status (ma che cazzo di status) con un interlocutore che ha già perso la sua partita, e certo non per la schiena diritta del cronista del Corriere. (Sia detto: speriamo l’ultima partita. Renato Farina farebbe meglio a soprassedere su certe ambiziose rentrée: ancora non ha capito in che mondo siamo? E non l’ha capito Brunetta?).
Quella di Roncone è vigliaccheria, una scivolata di stile come una macchia d’olio sulla cravatta. Altro che “untuoso” Farina. “Sono io che faccio le domande”. Roncone ritiene di sfoggiare deontologia. Invece nella schifiltosa schizzata di fango a Farina sul caso della consulenza al ministro espone una miseranda presunzione. Forse da giovane ha sentito parlare della Fallaci con Khomeini. Fa lo stesso mestiere di Farina: spie a parte, sui giornali non è detto che lo abbia fatto meglio. Sarebbe bello vederlo, lui o tanti colleghi suoi, dire “sono io che faccio le domande” a Mario Draghi. Nemmeno ad Arcuri, quando faceva Mr. Covid, avevano il coraggio.
Il giornalismo, a volte, è la caricatura della schiena dritta. Farina accenna a una collana di libri che aveva curato con “Renato” (Brunetta: ma Roncone è scrittore e fa il fico). “Mi sfugge il nome della collana”, scrive. È una villania non necessaria, una bravata manzoniana. Del resto nessuno si ricorda un titolo di Roncone. Se Farina fosse stato più in forma di quanto potesse essere, avrebbe reagito. Ma era stato coperto di merda per giorni dal giornale di uno che fa il cabarettista alle feste di Articolo1 e che tra i suoi collaboratori – quelli che hanno diritto a campare sulle spalle dei media – annovera uno che negava che ha fatto il saltafile per vaccinarsi. Roncone è arrivato ultimo e Maramaldo a bastonare un collega (ex) che era stato già mezzo ammazzato: dal giornale che fa scrivere Scanzi, quello che va in tv pagato dallo stesso editore di Roncone. Bruto era un uomo d’onore.
Montanari, Tomaso. Lui invece picchia alla cieca: “È un segnale infallibile, da anni: #pontesullostretto è lo stigma di mafiosi, corrotti, mestatori, politici finiti, venditori di fumo, berlusconiani nativi e di ritorno, telepredicatori del progresso de noantri, servi dei padroni, sviluppisti d’antan, sauditi e pennivendoli”. Funambolo dell’espettorazione, l’insultatore seriale testé approdato al pubblico rettorato, in un solo tweet ha elencato ben undici categorie di persone secondo lui riassumibili sotto la dizione: delinquenti. Sono invece semplicemente cittadini autorizzati quanto lui a esprimere una opinione sul ponte. Gerarca minore, direbbe il grande Bordin. Teresa Bellanova, con tono pacato, ha annotato: “Trovo incredibile e grave, molto grave, che il neo rettore dell’Università degli stranieri di Siena si esprima con queste modalità su un’opera infrastrutturale centrale per il rilancio della Sicilia e di tutto il Mezzogiorno”.
È stata coperta di insulti, perché i manganellatori su Twitter si muovono in branco, come i lupi. Se rappresenti una pubblica istituzione, usi un linguaggio acconcio. Questa sarebbe la decenza. Ma Montanari dice che su Twitter rappresenta “a malapena me stesso: solo opinioni personali”. Tranne quando gli fa comodo (spesso) e allora si nasconde dietro la carica: “Io trovo molto grave che una ex ministra della Repubblica decida quando dovrebbe essere frenata la lingua di un professore, o di un qualunque cittadino. Non siamo più, e spero non ancora, al 1931”. È lo stesso Montanari che esultava: “Perfino la #Luiss ogni tanto ne azzecca una!”, quando cacciarono il professor Gervasoni: il 1931 è una data variabile, evidentemente. E la libertà accademica è una merce marcia, nelle mani di chi la usa per insultare.