il foglio del weekend
Due inni, due Italie
Destra e sinistra, amor di Patria e Resistenza. Eppure oggi la contrapposizione tra Mameli e “Bella ciao” va rivista
Mai “Fratelli d’Italia” (l’inno, non il partito) era stato così di moda come in quest’interminabile estate di trionfi azzurri. Pare ora faccia impazzire anche i giapponesi e susciti brividi nei commentatori e nei tifosi stranieri. “L’inno dell’Italia è insuperabile”, scriveva un giornalista spagnolo su Twitter durante gli europei, “è come iniziare sempre da 1-0”. Cose che in genere si dicono per la “Marsigliese” o “Star-Spangled banner” cantata al Superbowl. Mai sentito “Fratelli d’Italia” così tante volte alla tv come tra luglio e agosto, in loop, peggio che le repliche di “Carramba” su RaiUno. Gli atleti d’ogni disciplina lo sanno ormai a memoria, lo si canta a squarciagola anche sotto la mascherina, sul podio, sul pullman scoperto, nei video su Instagram, al rientro in patria all’aeroporto di Fiumicino, coi tricolori in festa e le trombette. Non più solo emblema d’una retorica ottocentesca, dannunziana, militaresca e megalomane, come tutte le retoriche della patria, l’inno di Mameli è ora anche “specchio di una nuova Italia” guidata dai figli degli immigrati. “Il momento più bello di questa Olimpiade sarà quando canterò l’inno”, diceva Eseosa Fostine Desalu, detto Fausto, nei giorni di Tokyo. “Ho iniziato ad appassionarmi allo sport guardando il judo e il nuoto e quando li vedevo cantare l’inno mi commuovevo”. Grandi speranze di una nuova Italia multicolore e più sensibile all’amor di patria o semplice fremito sportivo?
Fino a non molto tempo fa si sarebbe sorriso di tutto questo trasporto romantico per la marcetta di Michele Novaro (Mameli, si sa, è autore del testo). Ora invece questo inspiegabile desiderio di italianità ci interroga. Immaginiamo il piccolo Desalu davanti alla televisione, i lucciconi agli occhi mentre la banda suona “Fratelli d’Italia”, quindi la fatica, il sacrificio, l’integrazione difficile, la mamma nigeriana che raccoglie i pomodori per “farlo correre e vincere” e infine strega tutti con quel “scusate non vengo in tv, stasera lavoro come badante”. E’ un formidabile Great Italian Novel di seconda generazione, con l’inno di Mameli che ritorna come riferimento epico maestoso e travolgente, vibrante colonna sonora di riscatto, sogno sfrenato di libertà, come una “Born in the Usa” ma con la fanfara dei bersaglieri al posto del “Boss”.
Dopo Tokyo, “Fratelli d’Italia” è diventato anche un po’ più di sinistra. Celebrato da “Repubblica” con paginone epico e multietnico quale immagine esemplare dei nuovi patrioti, neri e italianissimi (del resto, niente è più italiano di “nato in Texas ma non parla inglese”, come titolavano i giornali presentando la storia di Marcel Jacobs). E mentre questi nuovi italiani, o sarebbe meglio dire italiani insoliti, giovani anche neri e vincenti, cantano con orgoglio e mano sul cuore “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò!”, “Bella ciao”, altro pilastro canoro della nostra identità nazionale, è sempre più evanescente, glamour, pop, globale: intonata da Anthony Hopkins ammollo in una piscina sotto il sole del Chiantishire, o fatta risuonare all’Ariake Arena di Tokyo, nell’esercizio alle clavette della ginnasta russa, Arina Averina, in una performance che è forse uno dei tanti effetti collaterali della “Casa di carta” o uno strascico di Toto Cutugno con l’Armata Rossa a Sanremo 2013.
A lungo considerato a sinistra come il “vero” inno d’Italia, “Bella ciao” racconta ormai un generico sentimento del made in Italy da esportazione. E’ pronta per essere bocellizzata, magari in uno spot della Tim che “farà molto discutere’”. Non a caso, fino a poco prima della gara di Tokyo, Vanessa Ferrari era indecisa se volteggiare sulle note di “Bella ciao” o “Con te partirò”. Alla fine l’ha spuntata Bocelli (ma agli europei di Basilea, giusto il 25 aprile scorso, vinse il bronzo con “Bella ciao”, scelta in quanto “simbolo di resilienza e resistenza”, come spiegò in quell’occasione).
E’ andata invece assai male a Elsedi Hysaj, giocatore albanese acquistato quest’estate dalla Lazio. E’ una vicenda che sarebbe perfetta in un episodio dei “Nuovi Mostri”, ambientato nell’Italia di oggi. Succede che per festeggiare la nuova maglia, Hysaj si mette a cantare “Bella ciao” sui tavoli, convinto sia il modo migliore, più simpatico, travolgente, sincero, per farsi subito apprezzare dai tifosi. Non sa che gli ultrà della Lazio preferiscono “Faccetta nera” o “Giovinezza” (sotto al video postato su Instagram qualcuno gli scrive: “Se cantavi l’inno della Roma era meglio”). Parte un gran casino. Si mobilitano la dirigenza della Lazio e anche l’Anpi. Lui, poveretto, è smarrito. Dice che “Bella ciao” era “riferito alla Casa di carta su Netflix”, che non sa nulla di Resistenza. C’è da credergli, ovvio. Magari l’ha sentita nelle innumerevoli versioni remix da discoteca. E poi quel ritornello tutto giocato su due tra le parole italiane più note nel mondo, “Bella” e “ciao” spiegano meglio di ogni esegesi sociopolitica la sua rapida circolazione globale, la trasformazione in brand dell’italianità più solare, spensierata e felicemente irresponsabile.
Del resto, lo ha spiegato bene anche Javier Santander, sceneggiatore della “Casa di carta”, motivando il suo uso nella serie: “Mi ricordo la prima volta in cui ho cantato “Bella ciao”. E’ stato all’Università, con Gianluca, uno studente italiano in Erasmus. Gianluca aveva una chitarra e a volte cantavamo tutti insieme. Cantare “Bella ciao” era il punto più alto di tutte le feste. Da allora, la uso per darmi coraggio”). E’ “Bella ciao” all’epoca dell’Erasmus. Non più copyright esclusivo dell’Anpi e delle feste dell’Unità. La Resistenza c’è. Ma diventa una casella vuota pronta a essere riscritta per ogni buona causa. “Con il suo tono, insieme malinconico e gioioso, ‘Bella ciao’ si è mostrata in grado di toccare corde e sentimenti universali, andando a incrociare le tante Resistenze di ieri e di oggi”, scrive Ruggiero Giacomini, “dai movimenti di indipendenza e liberazione dei paesi e popoli oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo, ai movimenti sociali anticapitalisti come Occupy Wall Street nel cuore dell’impero, dagli insorti antifascisti del Donbass al movimento mondiale per il clima di Greta Thunberg. Negli incontri di ognuno di questi movimenti si sono sentire risuonare le note di Bella ciao”.
C’è anche un testo riadattato in versione ecologica, (“We’re on a planet / that has a problem”) e c’è la versione di Manu Chao per il mercato latinoamericano, come con le hit della Carrà. Ruggero Giacomini è solo l’ultimo di una serie assai nutrita di esegeti del canto partigiano, tra cui Gianpaolo Pansa, oltre che vari storici del folklore e etnomusicologi che da decenni provano a risolvere il mistero delle sue origini. Una storia intricata e piena di lacune, peggio che il Codice da Vinci: “Bella ciao” riciclata da un canto militare della Prima guerra mondiale, anzi nata come coro dalmata, anzi dal repertorio delle mondine del vercellese, ma con musica di origini probabilmente tzigane (che rivivono nelle tante versioni balcaniche di “Bella ciao” inflitteci a ogni concertone del Primo maggio).
Cantata per la prima volta dai partigiani del Nord, forse da quelli dell’Emilia o dell’alto Lazio o da una brigata abruzzese, quando ancora il testo diceva, “e se io muoio da patriota”, poi portata in trionfo da mille delegati italiani invitati al “Festival della Gioventù” di Praga, nel 1947, che la intonano in coro mandando in visibilio il pubblico; forse mai cantata prima degli anni Cinquanta, dunque leggenda postuma e apocrifa, costruita in uno storico spettacolo di Spoleto, al Festival dei due Mondi del 1964, col gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano (Giovanna Marini, Caterina Bueno, Michele Straniero).
Da qui prenderà il via tutto il revival degli anni Sessanta con le letture marxiste di “Bella ciao”, canto non più resistenziale ma “politico”, e che ora inneggia alla lotta di classe contro tutti i fascismi, incluso ovviamente quello della borghesia. Poi, a partire dagli anni Novanta, a suon di Primo maggio, global music e crollo delle ideologie, la sua trasformazione in inno contro l’oppressione, la dittatura, i tiranni, non importa di dove e di quando, è completa. Pronta per tutti i remix e le serie televisive. Nel suo ultimo libro (“Bella ciao. La storia definitiva della canzone che dalle Marche ha conquistato il mondo”, uscito da poco per Castelvecchi), Ruggero Giacomini sfodera una serie di lettere e documenti per dimostrare le origini marchigiane del canto. L’epicentro di “Bella ciao” è senza dubbio nella zona di Jesi, nella “bellezza sconfinata delle Marche”. E tutto si riconnette agli europei e alla città natale del Vate allenatore, Roberto Mancini, come un cerchio magico e perfetto.
“Fratelli d’Italia” e “Bella ciao” raccontano da sempre due paesi inconciliabili: la destra e la sinistra, l’amor di Patria e la Resistenza, il Risorgimento e il 25 aprile, con vari tentativi di sintesi e mediazioni musicali bipartisan: “Va’ Pensiero”, ciclicamente riproposto per sostituire Mameli, “Nessun dorma”, o magari “Viva l’Italia” di De Gregori, “Povera Patria” di Battiato (come dimenticare poi l’Ulivo di Veltroni che all’inno di Forza Italia cantato col karaoke contrapponeva “La canzone popolare” di Ivano Fossati).
Eppure questa rigida contrapposizione va oggi rivista. E’ tutta da rileggere nel gran rimescolamento in corso delle nuove italianità possibili nell’èra globale, che si sommano a quella risorgimentale e patriottica, resistenziale, repubblicana, partigiana. Questa fiammata di passione e foga per Mameli è del resto assai recente. Come si ricorderà, almeno fino ai Mondiali del 2006 gran parte degli azzurri schierati in campo restava sempre in silenzio durante l’inno. Ci si domandava se fossero molto concentrati, tesi o forse solo ignari del testo. Qualcuno cantava o bisbigliava qualcosa (si ricorda, ad esempio, il patriota Walter Zenga a “Italia 90”). Ma per lo più si fingeva. Come da bambini a messa con l’Atto di dolore, quando preti e suore ci guardavano di sottecchi. Il canto dell’inno era tutto sommato cosa di cui vergognarsi.
Il dibattito su “Fratelli d’Italia“, così poco sentito dagli atleti (e dagli italiani), e in generale il tema dell’“amor di patria”, appassionava molto all’alba degli anni Duemila. E Carlo Azeglio Ciampi, in particolare, lo prese assai a cuore. Così come c’è una “Bella ciao” dopo “La casa di carta”, c’è un “Fratelli d’Italia” dopo Ciampi. L’allora Presidente della Repubblica non perdeva mai occasione per spronare gli azzurri a scaldarsi un po’, a identificarsi, a sentirsi parte di un “tutto” più grande di loro, a fremere d’orgoglio per le note del “Canto degli italiani”, che è il titolo originale dell’inno: “Questo simbolo ci vede tutti uniti”, diceva alla vigilia delle Olimpiadi di Sydney (estate 2000), “e voi entrerete nello stadio dietro di esso e troverete un grande calore che vi stupirà. Vi accorgerete della forza del sentimento di italianità. Spero che sia suonato frequentemente a Sydney e spero anche che nel cantarlo abbiate maggiore consapevolezza di quei valori che nelle prime due strofe sono già sottolineati: unità e libertà”.
Ciampi, che terminava i suoi discorsi con “Viva il tricolore, viva la nostra bandiera, viva l’Italia”, fu il primo promotore della riscoperta di Mameli, ma non ha fatto in tempo a vedere gli azzurri di Tokyo che lo cantano a squarciagola abbracciati, o Bonucci che a Wembley ha giocato con un carico di rabbia in più, perché “i fischi all’inno mi hanno fatto salire la cattiveria”.
Siamo così passati da un eccesso all’altro. Dalla vergogna o indifferenza all’inno come performance “emozionale” e grintosa, intonato in modo fiero, sentito, partecipato con spirito. Non si sa se per merito di Ciampi o conseguenza di dodici anni di “X Factor”. Un ruolo chiave, di sicuro, ce l’ha il monologo di Benigni a Sanremo 2011. Una lezione sull’inno di Mameli, in linea con quelle su Dante e la Divina Commedia, dunque anche “politica” (“L’Italia ha 150 anni, e che sono per una nazione? Niente. E’ una bambina. Una minorenne”, diceva Benigni in quell’occasione, giocando con il caso Ruby e le vicende giudiziarie di Berlusconi, iniziando quella manovra di riappropriazione da sinistra di “Fratelli d’Italia” che può dirsi completata o quasi con le Olimpiadi di Tokyo).
Adesso, nell’estate dei trionfi azzurri, mentre “l’Italia esplode” e essere italiani va molto di moda, “Bella ciao” e “Fratelli d’Italia” si rimescolano tra loro nel solco di un’italianità allargata, inclusiva, globale. Una percezione dell’Italia che sembra fare straordinariamente delle indignazioni dell’Anpi e delle rivendicazioni fascistoidi della patria cantata da Mameli. Certo, si apre la strada ad altre insidie, nuovi problemi di lettura e rilettura dei significati del testo. Se “Schiava di Roma” dava assai fastidio alla Lega di Bossi, “Bella ciao” oggi potrebbe anche essere catcalling.
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