il foglio del weekend

Il ballo delle sculettanti

Fabiana Giacomotti

In casa o al mare in bikini, su TikTok e fra i reel di Instagram un’estate ritmata da una messe di cosce, seni, natiche guizzanti.  Catalogo dell’umanità ghignante e un po’ orrenda, ma pure buffa e vitale, che ama esibirsi sui social

Hai visto il mio reel? Cercalo, eh? Si scrive con due E: rEEl”. Grazie infinite, lo sappiamo da quando siamo bambine e alla scuola di inglese ci facevano ballare a coppie per imparare prima e meglio la lingua perché la pratica aiuta a fissare i concetti: un-due-tre-quattro, tendi le mani, balla con la compagna di fronte a sinistra e poi volteggiate gira gira e lascia, torna indietro, batti le mani, passeggiata e arrivata in fondo volteggia ancora. Reel questo significa, mulinello. Per noi esegeti di “Via col vento”, il reel è la danza scozzese che Rhett Butler conduce con Scarlett O’Hara alla fiera di beneficenza di Atlanta dopo aver pagato per l’onore centocinquanta dollari in oro, che è una cosa inaudita e anche un po’ losca perché tutti gli altri invitati possiedono solo cartamoneta della zecca confederata che vale già pochissimo. Ballano il “Virginia Reel”, che nonostante sia in apparenza innocentissimo, in questo momento della storia dell’umanità è musica politicamente scorretta in quanto espressione della cultura degli oppressori bianchi e dell’èra dello schiavismo americano che noi da questa parte dell’Atlantico abbiamo percepito quel tanto che basta per uniformarci (nel film la sequenza dura in realtà pochi secondi: Clark Gable non imparò mai a ballare nonostante a un certo punto gli avessero affiancato Fred Astaire come maestro). Ecco, questo è il genere di reel che non dovete menzionare mai. Ci pare però che anche i reel di Instagram, funzione lanciata qualche tempo fa per contrastare l’avanzata di TikTok presso il pubblico dei ragazzini e dunque l’interesse delle aziende di beni di consumo di lusso, deraglino molto spesso dai binari della correttezza espressiva e della politica del pensiero unico. 

 

Fra una ripetizione e l’altra del balletto dell’estate sulle note di “I like to move it”, l’avrete sicuramente visto anche se la canzone originale data la metà degli anni Novanta e i passi ricalcano quelli della tigre Alex del film “Madagascar” di dieci anni dopo, affiora infatti una congerie di scorrettezze che dimostrano prima di ogni altra cosa come il mondo reale continui a ribollire di istinti, ma anche di sovrastrutture socioculturali, che mal si coniugano con la narrazione dell’inclusività-diversità-positività a cui noi media, inserzionisti pubblicitari compresi, andiamo uniformandoci. Non manca niente: esibizione oggettificata del corpo femminile, starring Diletta Leotta, già peraltro tiepida paladina dei diritti delle donne, che trasforma le figuranti della sua festa di compleanno in lampadari mobili; esibizione e irrisione delle malattie genetiche e dei ritardi intellettivi; estrusione esplosiva, musicata e coreografata, di luoghi comuni contro donne e minoranze etniche; casi umani e psichiatrici; turpiloquio e bestemmie. 

Su TikTok, per esempio, va per la maggiore un tipo segaligno in vestaglia, parrucca bionda e voce in falsetto che mette in scena di continuo il proprio complesso di Edipo, diciamo un Norman Bates inconsapevole: non fa ridere, recita malissimo barzellette puerili e anche molto datate sulle mamme castranti e le bambine senza mutande, ha decine di migliaia di follower. Contro le figure femminili modello “madre di Karl Lagerfeld” che, citiamo dalla nuova biografia scritta dal giornalista tedesco Alfons Kaiser,  pare gli desse ogni giorno della “lesbica culona”,  si esibisce anche una coppia di ragazzi inviperiti, che si scambiano vestaglie e parrucche e le cui gag finiscono sempre con una sparatoria: non ci è chiaro perché la psichiatria freudiana non si sia ancora messa all’opera su TikTok con saggi, ricerche e convegni. Naturalmente, non c’è solo il borderline: il catalogo dell’umanità rabelaisiana, ghignante e un po’ orrenda, ma anche buffa e vitale, che esce dai social e che l’estate moltiplica per via del maggior tempo a disposizione, è talmente ricco e fitto che per produrlo tutto non basterebbe la fotocopiatrice di cui Romeo Castellucci ha provvisto Leporello nel nuovo allestimento del “Don Giovanni” alla Festspielhaus di Salisburgo che invece mette in scena, stratificate, tutte le cause della correttezza del momento e che infatti risulta indigesto, oltre che del tutto antitetico rispetto agli scopi. Su TikTok, fra i Reel di Instagram, sulle stories delle celebrità social, è però tutto un ribollire e un sovrapporsi di vecchi schemi comportamentali e scorrettezze desuete. Prendete per esempio la body positivity, cioè quel genere di filosofia estetica spiccia consustanziata nel motto “amati come sei”, a prescindere dal valore dei trigliceridi e dall’evidenza ponderale delle troppe notti passate a trangugiare spazzatura davanti al frigorifero aperto, cioè senza amarsi poi granché. Basterebbe calcolare le aggiunte mensili di filtri e funzioni che ogni app propone per allungare-assottigliare-modellare-levigare la propria immagine, e che tutti usiamo senza pudore prima di postare le nostre foto dal mare e dalla montagna, per dimostrare che alla bellezza autentica del rotolo adiposo e del culo basso non crede nessuno, e come peraltro la realtà non virtuale conferma.  

 

Makena Yee con un video divertente ha ottenuto 15 offerte di lavoro

 

Proprio nell’ultimo anno, mentre le aziende di cosmetici si affannavano a cercare modelli inclusivi-e-rappresentativi dell’arco estetico-etnico-culturale mondiale e finendo sempre per escludere qualcuno (avrete seguito di certo la feroce polemica per la serie delle cinque Barbie olimpiche lanciate dopo i Giochi di Tokyo e del modello asiatico mancante), il ricorso alla liposuzione è aumentato fra il 15 e il 25 per cento in tutto il mondo. “The zoom surgery boom”, titolava l’Economist un paio di mesi fa, inanellando le dichiarazioni di chirurghi plastici dalla Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, Hong Kong, tutti oberati di richieste non solo per rino e blefaroplastiche come la bella allitterazione lascerebbe supporre, ma anche di liposuzione, per eliminare i cinque chili in più lasciati in media dai due-tre lockdown a cui tutti ci siamo sottoposti negli ultimi diciotto mesi. Eppure, dagli imbarazzi e le ansie generate dall’uso delle funzioni Zoom e Google Meet, c’è da credere che la gente non abbia fatto una chiamata video con lo smartphone fino al febbraio del 2020, data dopo la quale si è trasformata in una massa petulante di annunciatrici televisive anni Sessanta, che ai rotocalchi dichiaravano compunte come “il video allarghi”: prima, non se ne erano mai accorti. Insomma, valeva proprio la pena di prendersela con gli angeli di Victoria’s Secret che non avrebbero rappresentato il “mondo reale” quando, come scrive l’amica Elvira in uno dei suoi post illuminanti su Facebook, “il mondo reale è pieno di portatrici sane di rotoloni regina che siamo costretti a definire curvy”. 

I social delle stories mordi-e-fuggi, poche ore o anche pochi minuti ed è tutto sparito, non si fanno di questi problemi anche perché lasceranno ben poche tracce del sé dell’oggi e domani si ricomincia a soggetto. Sul doppio binario della inclusione estetica dichiarata e dell’esclusione praticata con costanza sui social, viaggia non a caso e infatti anche il ricchissimo treno delle filles en fleur estive, un classico dai tempi delle prime pin up e che oggi ha trovato infinite valvole di sfogo; prima fra tutti, appunto, TikTok, dove il balletto in costume (cosplay o bikini, vale tutto) è pratica obbligatoria e la coscia tornita un prerequisito per acchiappare like, insieme con un girovita che enfatizzi movimenti ondulatori sensuali, cioè adeguatamente sottile. Zero rotoloni regina, se non fra le spiritosissime/i e quelli provvisti di un’autostima granitica, cioè e in genere adulti, e cioè tendenzialmente scarsi frequentatori di TikTok se non per motivi professionali e/o di brand da sostenere. La faticosa prima estate del green pass è ritmata, esattamente come le settanta dall’introduzione del bikini che l’hanno preceduta, da una messe di cosce, seni, natiche guizzanti come un peplum hollywoodiano degli anni Cinquanta starring Victor Mature condottiero romano e danzatrici del ventre bionde con lo chignon Madison Avenue. Nessuno di questi balletti e queste mossette, ancorché abborracciati, è frutto di allegra spontaneità estivale, e lo sappiamo perché l’altra mattina, su una spiaggia pugliese, ci siamo lasciate intenerire da una ragazzina che rischiava di far cadere il cellulare fra le onde nel tentativo di emulare Bo Derek accovacciata a prendere la risacca in “Ten”, ovviamente senza sapere chi sia stata. Ci siamo improvvisate registe, era tutta contenta. L’abbiamo vista allontanarsi per “l’editing”, che immaginiamo le abbia occupato un’altra mezz’ora di tempo, prima del post e dell’attesa spasmodica dei cuori e dei pollici alzati. Una tipa a imitazione di Donatella Versace sdraiata a pochi metri, ben oltre la trentina, godeva invece dell’assistenza di due ragazzini con unghie verde acqua preposti alle riprese e alla rassicurazione: “Amooore, mettiti di tre quarti, adesso di profilo, oddìo che noia questa sabbia che si alza”. Insomma, non una vacanza ma un lavoro, che ci va benissimo, si intende: per tutti gli anni berlusconiani abbiamo difeso il diritto delle poverecriste delle cene eleganti di frequentarle travestite da suora sexy o da infermierina porcella. Postate, screenshottate, modellate, falsate come più vi aggrada. Poi, però, non veniteci a scocciare perché nei nostri articoli non parliamo delle “donne vere”, qualunque cosa significhi e come se le fanciulle nate belle au naturel, cioè postabili senza dover ricorrere alla funzione “cancella”, al filtro “perpetua” e al mignon isterico al seguito, meritassero l’esclusione.

 

Instagram: cos'è il reel

 

Quando TikTok venne lanciato anche in Italia, per prima cosa ci procurammo un libro di marketing per studiarne le possibilità e gli effetti: “video virali e hashtag challenge. Come fare business con la generazione Z” (informazione di servizio: il testo è acquistabile anche con il bonus cultura). Scaricammo la app: ci parve una cosa da adolescenti alle prese con i classici problemi di identità e lasciammo perdere. Naturalmente sbagliavamo, perché su questa infinita sequenza di saltelli e coreografie da scuola media (per l’ultimo giorno di scuola, anzi, pare che quasi tutte le classi italiane ne abbiano postata una; nessuna che valga la pena di vedere due volte perché l’altro dramma di questi balletti, in genere, è che non vengono provati e coreografati abbastanza), metà delle aziende che non investono più nella comunicazione sulla stampa stanno destinando ricchi budget e produzioni ad hoc. Ci è piaciuta molto, per esempio, Rossy DePalma che, affiancata dalla figlia, annunciava lo sbarco di Valentino su TikTok: puro teatro, pause perfette, abiti meravigliosi e ci mancherebbe, ovunque un’aura di correttezza politica che dai brand, si sa, è richiesta. Terminati i ventagli e la broderie anglaise, sul nostro thread seguiva però a un’incollatura una qualche smandrappata: a prescindere da Valentino, o da Gucci, o dai grandi chef che postano le proprie prodezze, dobbiamo aver comunque segmentato troppo la ricerca per questo articolo, perché da giorni vediamo solo culi. In barca, nella cameretta della casa al mare, in giardino. Comunque, culi, e un senso di noia infinita, come quando vai alla recita di danza di fine anno e ti tocca assistere anche all’esibizione delle figlie e delle nipoti degli altri che, va da sé, sono sempre goffe. 

Dopo qualche tentennamento, perché Instagram permette una valorizzazione del contenuto, cioè della merce, che su TikTok non ha gran senso, da qualche tempo ha ceduto anche Chiara Ferragni, santa patrona del marketing digitale. Al memento posta balletti con i suoi bambini al ritmo della hit dell’estate, “Mille”, prodotto di famiglia, usando tutte le funzioni più divertenti, senza mai una sbavatura o un’esagerazione, tranne l’altro giorno, quando ha lanciato un insulto scherzoso ma molto solido al marito Fedez che non voleva buttarsi in mare da uno scivolo gonfiabile ed è stata redarguita con borghesissimo appunto: “Amore, ci sono i bambini”. Poi, visto che in giro c’è anche una quantità di giovanissimi intelligenti come Khabane-Khaby Lame, torinese, che ha raggiunto 53 milioni di follower grazie ai video in cui irride con il solo sguardo le sciocche esibizioni altrui, una di loro ha capito che postando il proprio video di presentazione curriculare in maniera divertente avrebbe potuto attrarre l’attenzione di una delle aziende che frequentano TikTok per vendere oggetti e servizi. Si chiama Makena Yee, ha ventuno anni, è nata a Seattle, e col suo video, dichiaratamente ispirato al filmino che la “Bionda in carriera” Reese Witherspoon inviava alla commissione selezionatrice di Harvard in un blockbuster hollywoodiano di una ventina di anni fa (era una videocassetta, che nostalgia), ha ottenuto quindici offerte di lavoro, centottantaduemila views e un articolo sul New York Times, al quale ha dichiarato che, dopo una internship estiva, sceglierà su quale azienda orientarsi. Balletti, per carità.

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