Il Foglio Weekend
Telekabul gira su Instagram
La serie. Tra storia e “stories”, tra televisione e social network: perché l’Afghanistan è la terra dell’eterno ritorno
La storia si ripete tre volte: la prima in tragedia, la seconda in commedia, la terza in meme. E sarà che è avvenuta a ferragosto, periodo di palinsesti fragili, sarà che Kabul è un set in cui si sono combattute talmente tante guerre e accadute talmente tante disgrazie che tutti ne hanno un qualche ricordo soprattutto telegiornalistico, ma il nuovo dramma afgano pare soprattutto un remake utile a capire dove vanno i media e come cambiano i format.
E tu dove ti trovavi quando Kabul venne presa dai (inserisci annata e armata, domestica o straniera)? Qual è la tua stagione preferita, tra dominio coloniale, paradiso hippy, invasione russa, primo regno talebano, invasione imperialistica? Plot e subplot anche complessi: da una parte le grandi fasi della storia, dall’altra il “news cycle” sempre più veloce cui siamo sottoposti. Se a coprire le lotte afgane tra l’impero britannico e quello russo ci furono il telegrafo e i giornali di carta, per l’invasione russa del ‘79 c’era già la tv ma non ancora la Cnn, che nacque solo un anno dopo
E oggi? Tomba degli imperi, Kabul è culla delle stories. La nuova stagione vede protagonista Instagram. Il remake della caduta di Kabul a ferragosto ha colto di sorpresa un po’ tutti ma non l’influencer collettivo. Dai servizi americani ai giornalisti, a Luigi Di Maio, eravamo tutti infatti spiaggiati su una grande battigia globale. Anche la suddetta Cnn ha rimediato un Fareed Zakaria stralunato, collegato dal suo bungalow estivo. Sarà che i giornalisti sul campo erano pochissimi (per l’Italia soprattutto la bravissima Francesca Mannocchi), ma il palinsesto è passato direttamente su Instagram. E lì, con dita ancora unte di protezione solare, l'influencer collettivo non si è fatto trovare impreparato, ha indossato l'elmetto ed è andato live. Con varie gradazioni: giornalisti-influencer e poi influencer-influencer, e poi influenzati che si sentono giornalisti, a scendere: tutti lì un po’ presi dalla noia estiva, un po’ vogliosi di esserci, di partecipare, di condividere (e si sa che il mezzo predilige la condivisione di fatti perniciosi, soprattutto liti e lutti; era del resto appena morto Gino Strada, tutti o quasi tutti avevamo postato una foto di Gino Strada, i più fortunati un selfie col de cuius, gli altri senza).
Professionisti impeccabili come Cecilia Sala e Francesco Costa, che si alternano tra carta e online e il mezzo instagrammatico che usano con maestria, guarderanno giù giù a cascata i surrogati, tutte le improvvise Ilaria Alpi embedded dallo scoglio e dal catamarano e dalla masseria, al lavoro in una colossale rassegnona-stampa, uno screenshot corale.
“Arrivano aggiornamenti”. “Biden sta per parlare”. “Scusate, non ho connessione”, detto non da Christiane Amanpour ma da micro e macroinfluencer che sospendevano per un attimo il pedalò o la televendita di #giftedby e #ADV, veri o presunti, sullo sfondo non di bunker afgani ma baretti greci o aiuole di Forte dei Marmi. O anche singoli, privati cittadini, disgraziati come noi in vacanza, tra foto di piedi e mani e chiappe, tutti improvvisamente ci siamo sentiti in dovere di postare dolenti l’hashtag: #Afghanistan. E “facciamo una diretta sull’Afghanistan” era l'invito che correva di telefono in telefono (altri influenzatori taggavano immediatamente onlus "sul campo" e altri influenzatori ancora, più ferrati o titolati, perché va bene tutto ma qualcosa bisogna pur taggare).
Uno scandalo? Macché. Alla fine, chi decide chi ha diritto a parlare di cosa? Servirà un bollino di qualità, un concorso, un Ordine degli Influencer, con burocrazie e sedi locali e corsi di aggiornamento, o, almeno in questo caso, avranno ragione i followers-abbonati, che hanno sempre un posto in prima fila e, meglio di Netflix, disdicono quando vogliono? Servirà una legge Mammì come per le tv private del secolo scorso? Prima di quella, era il 1990, solo la Rai poteva fare le dirette (Berlusconi si inventò le cassette da spedire in contemporanea a ogni tv locale, per simulare un gran palinsesto nazionale). Oggi ognuno di noi manda il suo Vhs (la Mammì stabiliva anche alcune regole: niente spot nei programmi per bambini, limiti massimi delle pubblicità, oggi parrebbe severissima se applicata all’Instagram).
I giornalisti-influencer, con senso di colpa novecentesco, hanno fatto autocritica. Come si faceva con l’amica meno graziosa e corteggiata (“fai ballare un po’ anche lei, per piacere”): “per favore, non leggete solo noi, leggete anche i giornali! Comprate dei libri!”. I più moralisti: eh, ma alla caduta di Kabul del ‘96 c’erano i grandi inviati, sul posto, a raccontarcela. Confronti sterili. Piuttosto, di nuovo, sarà da regolamentare il business model del giornalismo instagrammatico, che prevede pochissimi reporter sul teatro di guerra a km zero e poi noi miliardi di replicanti che ripostiamo, senza pagare diritti, “pezzi” e soprattutto foto? I più smart accostavano insieme quella “iconica” dell’aereo militare in partenza da Kabul, con la sua pancia piena di disgraziati, a quella altrettanto iconica delle carrette del mare piene di migranti (ma per gli autori di quelle foto, se va bene solo citati, di sicuro non remunerati, basterà “a visibbilità?”). Servirà una tassa globale sullo screenshot per ristorarli? Almeno per chi ne fa uso professionale e non privato? Il fotografo Danish Siddiqui della Reuters, premio Pulitzer, poraccio, è stato ammazzato il mese scorso dai Talebani, per dire.
E poi, tutto questo “traffico” e tutte queste “reaction”, serviranno? Il follower informato andrà davvero in cerca addirittura di news cartacee, diventerà un topo da biblioteca? O passerà velocemente ad altro, aspettando nuove “stories”, più che la Storia? Affaritaliani del resto certifica: su Twitter l’hashtag #afghanistan alla fine risulta solo secondo, rispetto a quello #dilettaleotta, e alla nota questione se il corpo delle donne sia o non sia etico da utilizzare in funzione illuminante.
L’Afghanistan funziona anche molto per l’effetto-nostalgia. E’ venuto fuori subito, con quelle foto di un leggendario passato. I più anziani: eh, ma non vi ricordate l’Afghanistan negli anni Sessanta. E lì, hashish epici, l’hazar, il “nero afgano”; memorie felicissime da Tamerlano a Samarcanda, con reportage fotografici che oggi varrebbero oro per i nostri Instagram banali in cui l’unico esotico è al massimo Portogallo e Filicudi. Invece, allora: Kabul e Herat a evocare allegre tappe di un grand tour fricchettone e non puntini sulla mappa dell’idrocarburo e della droga che generano autocrazie dementi. Parti di un “hippy trail” che portava a Bagdad, a Goa, in Nepal, a Katmandu, magari in moto, mandando cartoline. Effetto Roberto Vecchioni (“Samarcanda” ma anche “ridammi indietro i miei vent’anni”). “Per questa America darei un figlio che morirà in jihad”, cantava Calcutta. “Ti chiedo scusa se non è lo stesso/di tanti anni fa”. E oggi non è lo stesso, no.
Prima delle dirette Instagram, “Telekabul” era la tv afgana che nel ‘96 venne chiusa dai talebani prima maniera, ma era soprattutto così chiamato il vecchio Tg3 inventato da Sandro Curzi, un vecchio signore del giornalismo italiano, fedele alla linea di ancorare il tg della terza rete al Pci e ai suoi derivati, allora uno scandalo (che tenerezza, era prima che ognuno decidesse non da che parte stare ma che realtà abitare e propagandare). Nel ‘96, anno della rivolta, faceva 3 milioni di ascolti. Oggi, la metà.
L’ira funesta dei profughi afgani? Le dervisce tourneur di Diletta Leotta? Però, in generale, su questo Afghanistan da mito, ognuno progetta una sua nostalgia. Ecco le leggendarie ragazze in minigonna del tempo che fu: in bianco e nero o nei colori pastello, classico iconografico del tipo “strano ma vero” e “prima e dopo” (ma forse sono iraniane, non si capisce). Che importa? Perché interrompere la nostalgia con la verità? Scatterà un effetto-Cuba o Venezuela? A quando un vaccino afgano, più a sinistra di quello cubano, più esotico di quello venezuelano? C’è solo da attendere.
Nostalgia di tutto, tranne che degli americani. E lì, tutti compatti: prima, contro l’occupazione imperialista. Poi, per l’irresponsabile abbandono. Luciana Castellina sul “Manifesto”: “se si è arrivati a questo è perché si è scelto di dar peso alla Nato a – i nostri “amici” – (e alla loro guerra) e di non tentare neppure di dialogare con chi in Afghanistan stava dalla parte dei Talebani”. Giuliana Sgrena: “almeno i russi lasciarono i carri armati” (ma pare che stavolta gli americani abbiano lasciato armamenti all'ultima moda). E poi: “se fosse stato Trump a fare una cosa del genere, l’avrebbero massacrato”, il giorno dopo, Biden è massacrato.
Tutto torna, tutto pare vecchio, come in un vecchio blob ripescato nell’etere, ecco i politici italiani alle prese col moderatismo talebano, ennesima “novità” della bétise. “Dobbiamo provarci” dice l’ex Cinquestelle Lorenzo Fioramonti. “mi dicono che tira un'aria diversa, che forse questa volta si può trovare un punto di equilibrio. E noi dobbiamo fare la nostra parte lasciando aperta ogni porta a chi vuole trovare un compromesso”. Anche Giuseppe Conte: “Necessità di un serrato dialogo con il nuovo regime talebano, che si è dimostrato abbastanza distensivo". Giornali d’area (talebana): sul “Fatto” Massimo Fini insorge contro la brutta abitudine di considerare i talebani “brutti sporchi e cattivi”. Poi, gran titolo: “i talebani fanno i democristiani”.
Certo, un polo talebano moderato scompaginerebbe le carte in tavola, si capisce: tutti i destri polacchi e ungheresi rischiano di perdere la leadership e cessano d’essere il faro per aspiranti autocrati italiani. Dopo i liberali per Salvini, i Taliban lib-lab sarebbero una novità politica in grado di portare freschezza nel dibattito. Si attende Renzi: “pronto ad approvare la Sharia in cinque minuti, basta togliere le parole “donne” e “gay” che sono divisive”. E a quando l'intervista ad Alessandra Mussolini, “sono sempre stata talebana ma non potevo dirlo”. Si prospettano regime change anche editoriali (Giorgia Meloni cosa potrà nelle classifiche dei bestseller contro tutta una narrativa e saggistica talebana moderata, con biografie e autobiografie di questi nuovi autocrati con l’occhio nero e il sapor mediorientale?).
Perché nel frattempo, i talebani, anzi i nuovi talebani, si sono presentati in pubblico con la loro nuova faccia. Nella conferenza stampa dal palazzo presidenziale di Kabul ci sono più iPhone che fucili. Annunciano una conferenza di pace internazionale e assicurano che ci sarà l’amnistia, e “chi ha collaborato con il passato governo non subirà ritorsioni”, e dunque stai sereno Occidente. Funziona: siamo tutti così sollevati. La conferenza è pazzesca, c’è anche il momento in cui rispondendo a una domanda sulla libertà di stampa un capo talebano dice: chiedete a Facebook cosa sia la libertà di stampa, e insomma manca pochissimo al momento in cui il narco-regime protesterà contro la dittatura del politicamente corretto (o del green pass, o di qualche altra cosa).
Momento talebani femministi: Beheshta Arghand è una giornalista di Tolo News, la tv indipendente fondata dal figlio di un diplomatico afgano emigrato e poi rientrato, Saad Mohseni, oggi simbolo dell’Afghanistan moderno. Mawlawi Abdulhaq Hemad, “membro del team di comunicazione dei talebani”, si stupisce che la gente abbia paura dei talebani, che non capisca che tutto è cambiato. Lo dimostra il fatto che si stia facendo intervistare da una donna. Che bellezza. Alla fine quasi quasi ci caschiamo. Del resto son quasi finite le ferie, ognuno ha i suoi problemi, si sa che il rientro è duro. Abbiamo una disperata voglia che non ci sia, oltre alle terze ondate, alle scuole che non riapriranno, alla botta di inflazione in arrivo, pure un ennesimo dramma di cui capiamo poco ma per il quale ci tocca indignarci, almeno sui social (per far vedere che non siamo bestie).
Certo come sono cambiati: non più Vhs di decapitazioni in bassa qualità, ma belle foto hd su Instagram che mettono in risalto l’occhio verde (si sono anche imbelliti, negli ultimi vent’anni, come tutti). “Li sottovalutiamo. Sono piuttosto sofisticati”, dice il patron della tv, Mohseni, alla radio americana Npr. “Anche se vai in uno sperduto villaggio nel mezzo del nulla, e c’è un posto di blocco, e ti fermano, la prima cosa che ti controllano non sono le armi ma il tuo iPhone, e ai tuoi social e al tuo WhatsApp. Hanno software per farlo”. E siccome sono così avanti, i nuovi talebani dal volto umano, quelli in cui riponiamo speranze di moderatismo, sanno che il terzo giorno bisogna diventare meme, e allora loro vengono già memizzati, per distrarci, e tranquillizzarci. Ecco le immagini bizzarre dei nuovi talebani teneri.
Ecco i talebani sugli autoscontri. Poi in palestra. Mark Simpson, giornalista britannico di costume già inventore del termine “metrosexual”, commenta uno dei video più virali, quello dei nuovi talebani che goffamente si buttano su cyclette e step come adolescenti bamboccioni refrattari al fitness (“il problema delle palestre aperte 24 ore su 24 è che non hanno mai personale per aiutare i nuovi arrivati”). Altri leader talebani postano “nuova foto profilo”. L’effetto è di un colossale depotenziamento. Siamo tra “Borat” e una serie su adolescenti disfunzionali e freak buoni di quelli che oggi piacciono molto alla moda.
Intanto le televisioni arrancano. Siamo ancora settati sull’agosto infinito, uno accende per informarsi ma ci sono le repliche di vecchi film. Come in uno scherzo, la sera della presa di Kabul Rai Movie manda in onda “Il figlio dello sceicco”, sgangherata pellicola del ‘77 in cui Tomas Milian fa Luigi Abdulio Panacchioni, disoccupato romano che non ha mai conosciuto il padre. Si scoprirà figlio di una dinastia petrolifera mediorientale (da lì deserto, cammelli, petrodollari). A “In Onda Estate” Emanuele Trevi dice, smontando la narrazione dei nuovi talebani hipster, che “la presa di Kabul da parte di un gruppo criminale come i talebani è come se la ‘ndrangheta si prendesse Reggio Calabria, occupando un pezzo di Stato”. Improvvisa la verità piomba nello studio televisivo (però Reggio Calabria su Instagram funziona meno. E si sa poi che la televisione non la guarda più nessuno: non siamo mica nel ’96).
generazione ansiosa