Saverio ma giusto
Se prosegue lo smart working, tanto vale trasferirsi in ufficio
Una soluzione per risolvere il problema dei quartieri già destinati al terziario: per la stragrande maggioranza di noi, i colleghi di lavoro sono più famigliari dei suddetti tali. E anche la sfera sessuale potrebbe beneficiarne
Inutile scappare (tanto avete visto, vi fermano all’aeroporto di Fiumicino prima che riusciate a imbarcarvi per le Canarie): anche se siete di quelli che sono andati in vacanza tardi, a fine agosto, ormai è settembre inoltrato e tocca a tutti tornare sul posto di lavoro. Ma qual è il posto di lavoro? Se ne dibatte: Google ha deciso di prorogare lo smart working fino al 2022 (tanto se i dipendenti a casa dovessero distrarsi dal lavoro comunque andrebbero su Google, quindi, come dire); Brunetta ha proposto un graduale ritorno in ufficio per i dipendenti della pubblica amministrazione. Il tempo ci dirà chi dei due abbia ragione; per il momento possiamo soltanto dire che il ministro, ai risultati del motore di ricerca, ha preferito affidarsi al tasto “mi sento fortunato”. Auguri. Tutte le altre aziende, dalle multinazionali a quelle più piccole, fra l’esempio del colosso di Mountain View e quello di Mountain Citorio, preferiscono prendere a modello il primo: in molti continuano a pensare che dal lavoro da remoto non si tornerà più indietro (non per ragioni pandemiche ma economiche), al massimo un po’ e un po’ – dove però saranno più i giorni da casa che quelli in ufficio, e di questi ultimi saranno più le ore nel traffico fra casa e ufficio e viceversa che quelle effettive dietro la scrivania. Si sta dunque concretizzando lo scenario nel quale lo smart working da soluzione d’emergenza e surrogato passa a essere normalità e consuetudine.
Dunque non si possono più rimandare certe questioni aperte e rimaste in sospeso, bisogna affrontare gli effetti collaterali del lavoro agile: la solitudine, la mancanza di contatto umano, la condivisione/conversione forzata degli spazi casalinghi, la perdita di un bilanciamento equilibrato fra vita e lavoro, i costi privati, la sedentarietà, il passaggio dal mobbing alla violenza domestica e la confusione che si viene a creare fra incidente sul lavoro e incidente domestico. Per non parlare dell’annosa questione di cosa farsene di tutti quegli uffici: interi quartieri destinati al terziario e i suoi derivati rischiano di diventare terra di nessuno, lande desolate dove i cinghiali andranno a grufolare in cerca di forniture per uffici e articoli da cancelleria – ne vanno ghiotti, specie per le graffette.
La soluzione a tutto questo c’è, ed è concreta e attuabile: se la casa diventa il nostro luogo di lavoro, allora spostiamoci a vivere in ufficio. Esattamente come la pandemia non ci ha colto del tutto impreparati nel lavorare da casa (esperienza che in molti già facevano seppur eccezionalmente), così trasferire le proprie vite in quei corridoi, fra fotocopiatrici e distributori di snack, non sarebbe così traumatico: in fondo non ci vivevamo già, in ufficio? In molti sono già abituati a dormire alla propria scrivania; a svegliarsi bevendo il liquame che esce dalla macchinetta chiamandolo “caffè”; a espletare le proprie funzioni fisiologiche nel cubicolo col wc. Inoltre per la stragrande maggioranza di noi i colleghi di lavoro sono più famigliari dei suddetti tali: i nostri dipendenti o sottoposti sono come dei figli, il capoufficio e l’ad sono i nostri genitori, certi colleghi il fratello scemo o il “cugggino”.
Così facendo, anche la vita domestica riprenderà vigore: una volta che la casa sarà decontaminata dalla nostra vita ed esclusivamente consacrata al lavoro, cominceremo a ridere e scherzare con gli altri membri del nostro nucleo famigliare come un tempo con i vicini di scrivania; e visto che (dato pre pandemico) un italiano su tre fa sesso sul posto di lavoro, prevedo che un matrimonio su tre riscoprirà la propria sfera sessuale con rinnovato orgasmo.
generazione ansiosa