L'eco-ansia dei ventenni per un mondo di plastica
I giovani sono depressi per le sorti del pianeta, dice uno studio di lancet ripreso da Libération. E scendere in piazza a protestare contro l'inerzia dei governi sul tema funziona da antistress
"Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. La frase di Paul Nizan è migrata su migliaia di diari scolastici e personali (roba chiusa con lucchetto, chi non c’è passato non può capire), poi sui blog e gli account social. L’inno della gioventù inquieta e insoddisfatta. Circola dal 1931, e ancora non si è consumato. Ogni generazione è convinta che i propri vent’anni siano peggio di tutti, quanto a sofferenze. Lavoro, soldi, malattie: per la generazione dai 16 ai 25 non sono nulla di fronte alla Grande Minaccia che li tiene svegli la notte e alimenta l’ansia.
Secondo una ricerca uscita su Lancet Planetary Health (ripresa l’altroieri da Libération) il grande spauracchio sono i cambiamenti climatici. L’eco-ansia, che può generare malesseri e attacchi di panico, minando la salute mentale. D’altra parte però gli psicologi (eco-psicologi?), in accordo con i nove ricercatori che hanno lavorato all’indagine, certificano che “l’angoscia per i cambiamenti climatici poggia su valide ragioni, quindi non possiamo parlare di disturbo mentale”.
Il dramma sono le ricadute sulla vita di tutti i giorni, che generano preoccupazioni più gravi del “non userò mai più forchettine di plastica”, “comprerò solo roba sfusa”, “non viaggerò più in aereo”. Avrete notato che da qualche anno sono spariti piatti e posate di plastica, anche nelle cene estive e campagnole, con gran vantaggio di cibi e bevande. La furia ha fatto sparire anche i tovaglioli di carta: capitò di vederli sostituiti da quadretti di sottile garza, durante una festicciola in onore dello scrittore che voleva salvare il mondo prima di cena.
La ricerca è stata condotta a maggio e a giugno su diecimila giovani tra i 16 e i 25 anni. Problemi da primo mondo, che ha da mangiare, e splendidi cellulari difficili da smaltire, dopo che sono stati fabbricati con metalli rari? Niente affatto, la ricerca ha coinvolto giovani che vivono in Australia, Brasile, Francia, Finlandia, India, Nigeria. Filippine, Portogallo, Stati Uniti e Gran Bretagna. Il 60 per cento degli intervistati si è dichiarato molto o moltissimo preoccupato per il cambiamento climatico. Più della metà esprime tristezza, rabbia, senso di colpa e di impotenza. Mesi fa Wired aveva fatto un’inchiestina sul tema, i sintomi sono gli stessi.
Più della metà degli interrogati – parliamo sempre della generazione dai 16 ai 25 anni – pensa che il mondo sia condannato e non ci sia speranza per l’umanità (pensiero che tradizionalmente coglieva gli individui in età più avanzate, seccati perché il mondo lo stavano per lasciare, mentre gli altri se lo sarebbero goduti un altro po’). Pensa che vivrà peggio dei genitori, che le cose importanti saranno distrutte, e la tranquillità familiare minacciata – qui, più che il clima, spunta la nostalgia e il pensiero conservatore (delle simpatie tra destra estrema e verdi d’assalto già sapevamo).
Non ne resteranno tante, di famiglie da minacciare. Il 39 per cento dichiara che non farà figli, i mocciosi aggravano l’impronta carbonica con tutti quei pannolini da smaltire. Sotto accusa i governi, che non si impegnano abbastanza sul fronte climatico, assieme a Greta e ai cittadini sensibili alle foreste. Da qui il senso di abbandono e di alto tradimento. I ricercatori sostengono che i disturbi d’ansia e la salute mentale dei giovani peggioreranno con l’avanzare delle catastrofi naturali. Quindi il mondo va salvato, se non prima di cena, almeno prima dell’ora di andare a dormire. Andare in piazza a protestare, spiegò un quattordicenne intervistato da Wired, funziona da antistress.