Il Foglio Weekend
Quelle riunioni da incubo
Le espressioni incomprensibili, le scemenze senza freni. E poi le peggiori di tutte: quelle per fare la televisione. Dall’ospite fatta cantare per finta fino alla dittatura dei format stranieri. Ecco "La riunione" di Pietro Galeotti (Feltrinelli), manuale di sopravvivenza alla Boris
C’è riunione e riunione, e per chi col rientro soffre, dopo la versione zoom in pigiama, in interminabili incontri ora in presenza, esiste già un meme celebre, “this meeting could have been an email”, bastava spedire un’email, ma tutto è tornato chiaramente “normale”, dunque ecco le immani riunioni-fiume, verbosissime e infinite, che ognuno di noi affronta ricorrendo a ogni tipo di amuleto.
Per consolarci va detto che esistono lavori ad altissima intensità di riunioni, lavori in cui la vita è ciò che scorre tra una riunione e l’altra, e questa è la vita degli autori televisivi. Alla riunione tv come fenomeno sociologico ha dedicato un libro che si intitola appunto “La riunione” (Feltrinelli) Pietro Galeotti, autore di lungo corso (da Sanremo a Insinna a Chiambretti a Fabio Fazio). E’ addirittura sopravvissuto a centinaia, ma che diciamo, migliaia, di riunioni. E adesso è qui per raccontarcele, e raccontarci il mondo televisivo, però visto dal di dentro, dunque non lo sberluccichio ma la cialtronaggine, non la grandezza ma l’improvvisazione, insomma quel mondo crepuscolare che tra Segrate e viale Mazzini tanti di noi hanno conosciuto anche solo di sbieco.
Ecco dunque che in questo manuale di sopravvivenza ci sono regole valide un po' per qualunque tipo di riunione – “L’energia necessaria a confutare la prima cazzata sparata in Riunione è di grandezza infinitamente superiore a quella necessaria a produrla”; “Un buon modello cui ispirarsi in riunione è ‘Istruzioni alla servitù’ di Jonathan Swift. La morale è sempre quella: la condizione del subordinato aguzza l’ingegno e ribalta i destini”. Poi via via più specifiche: “Il picco d’ascolto della trasmissione cui stai lavorando coincide immancabilmente con quello che giudicavi il minuto di televisione più brutto mai visto in vita tua”; “il sabato sera è quella fascia del palinsesto in cui per 180 minuti due Conduttori si sfidano su due reti diverse ciascuno con il suo spettacolo, i suoi ospiti, le sue sorprese, e alla fine vince Maria De Filippi”.
E’ un trattato soprattutto di cialtroneria della tv, con pezzi di conversazioni tra animali televisivi di magnifica italianità: “Jeff Bezos non lo conosce nessuno”. “Scorsese non è attrattivo.”; “Quello stronzo non metterà mai piede in un mio programma.” “Che cazzo c’entra il ministro dell’Interno?” (discutendo di una trasmissione dedicata al terrorismo). C’è la “patologia del televisivo”, quella speciale malattia che colpisce chi sia schiavo della luce rossa: i sintomi: paranoia, sindrome da accerchiamento, aggressività repressa a fatica, culto della personalità; la mitomania (“A me non chiamano a lavorare perché sono scomodo”. “No” gli rispondevano tutti quelli con i quali si lamentava. “A te non ti chiamano perché sei sempre in ritardo, sempre impreciso, combini dei casini, non rispondi alla gente, esasperi le persone”).
C’è l’orrore architettonico che può testimoniare chi abbia mai passeggiato per Saxa Rubra, il brutalismo di quella costruzione druidica degna di un Paul Rudolph o Louis Kahn. Il sottoscritto qualche mese fa è andato a partecipare a un programma, non diremo quale, ovviamente minore, ma entrando per quei pertugi, nel microclima di “Saxa”, ecco che si sente subito, tra i corridoi scrostati da cui ancora sorride l’effigie di Papa Wojtyla per il “giubileo degli operatori radiotelevisivi 2000”: “je devi fa causa! Te l’ho detto mille volte: je devi fa causaaa!”, dunque l’annosa questione di come entrare nel “pool” della Rai, l’unica azienda al mondo a cui devi appunto fare causa per essere assunto. Scrive Galeotti: “Alcuni Centri di produzione sono costruiti in luoghi talmente brutti, con materiali così scadenti e architetture così disgustose da dover essere considerati i cimiteri naturali della fantasia e delle idee. Alle volte desidero finire lì dentro i miei giorni, di modo che il passaggio alla morte sia inavvertibile”.
Ci dev’essere una speciale regola del contrappasso, in effetti, per cui anche nell’organizzazione di show di massima rilevanza e dunque splendore visuale i luoghi deputati alla sua ideazione sono puntualmente sciatti come posti di polizia bulgari. Lo sa chi di noi ha preso la linea della speranza, quella metro A che da piazza Vittorio a Roma va “a” anzi “in” Prati, dunque scrittori e giornalisti che tentano il salto, verso la televisione e “’aaa Rai”, ma qui subito ecco un’altra legge della termodinamica della tv: “Il tempo impiegato per ottenere l’appuntamento e raccontare a qualcuno un progetto di programma è sempre superiore al tempo necessario perché quello stesso progetto sia realizzato da qualcun altro”.
E in questa rincorsa della tv dei poveri scriventi c’è tutto, grande topos letterario, dal “Male oscuro” di Giuseppe Berto, col narratore che sottopone al grande produttore il suo progetto, ma vede la sua sceneggiatura nel cestino della suite d’albergo, al Flaiano umiliato in classe economica con Fellini in prima. Ma anche storie di vita vissuta qui del sottoscritto, con l’autore Rai che ti chiama: ho letto una tua cosa, bellissima, non ricordo bene quale, devi venire subito. Butta lì un nome improbabile di dirigente di rete o di partito, “non parte per le vacanze se non sei a bordo”, tu vai, porti il tuo concept scritto di notte perché urgentissimo, fai due o tre riunioni, appunto in luoghi architettonicamente mostruosi, ti dicono subito che certo “il livello va abbassato” (ma come, e tu che credevi che ti avessero cercato perché il livello era alto); poi dicono che si faranno sentire loro, e invece non richiameranno mai più, semmai butteranno lì altri nomi improbabili di politici o dirigenti che si sono messi in mezzo. Non li rivedrai mai più se non dieci anni dopo a Sabaudia da Saporetti, e quelli; “aho, proprio te cercavo! Sei un gigante! Ho grandi progetti per te!”. E così via.
Se non si svolgono in ufficio le famigerate riunioni avvengono al ristorante, e se si è a Roma, ecco il tavolo accanto col vicino di tavolo “deputato di lungo corso, ex ministro, ex potente che nel tempo intercorrente tra antipasto primo contorno e caffè ha raso al suolo con i suoi insulti squarciagolati senza nessuna considerazione per gli altri innocenti astanti: tutto il cinema italiano, tre quarti dell’arco costituzionale e l’intera popolazione milanese, a suo dire colpevole da sempre del fatto gravissimo di non saper preparare le puntarelle”. Aleggia il fantasma di Boris, ovunque. C’è la scena della famosa cantante venuta dall’estero che è lì pronta, in attesa di esibirsi, ma la trasmissione va per le lunghe, gli autori non hanno il coraggio di dirle che l’esibizione salterà, anche perché la cantante famosa venuta dall’estero è accompagnata dal marito manager iracondo, allora dopo molti indugi decidono: la faranno esibire comunque, ma per finta, perché in onda c’è già il telegiornale.
Si sente anche il Paolo Villaggio di “Fantozzi”; per un ospite leggendariamente capriccioso: “Un anno, durante una cena in un ristorante tra le montagne profonde della Svizzera, gli venne voglia di un piatto di pesce; alle timide nostre obiezioni si impuntò teatralmente: voleva mangiare pesce, a tutti i costi. Qualcuno dovette farsi duecento chilometri per recuperare a Zurigo una sogliola”; “Gli incontri potevano avvenire solo in stanze d’albergo poste in un piano dispari superiore al 25 con una temperatura regolata perennemente sui 26 gradi centigradi. Tra le dotazioni richieste, anche 400 metri di filo spinato e un jukebox con tutti i 45 giri di Sylvie Vartan”.
C’è il gusto dell’epigramma alla Flaiano o alla Marchesi: “Non sono quasi mai d’accordo con il pubblico dei programmi che scrivo”; “cedesi inattività”; “non ho mai visto soffrire nessuno come soffre un comico di fronte alla risata del pubblico per la battuta di un altro comico”; “uno collezionava scalette di programmi. Ma essendo l’unico non poteva mai scambiare i doppioni con nessuno”; “stiamo facendo un programma talmente brutto che sin da ora attendo con grande entusiasmo il momento in cui sarà rivalutato”; “va bene, se volete io lo invito, ma sappiate che poi quello viene”; “in ogni redazione c’è l’autore espiatorio”; fino alla definitiva: “per cambiare la televisione, bisogna andare al negozio” (copyright Corrado Guzzanti).
Poi c’è il format, creatura mitologica a tante teste, stele di Rosetta da declinare, secondo gusti generalmente cattivi e lingue non parlate: “restano a oggi sconosciute le ragioni per cui un brutto format straniero di 50 minuti deve diventare un orrendo programma di tre ore da noi”. La dittatura del format ha portato dalla tirannide dei Capistruttura, “che ancora alla metà degli anni Ottanta erano divinità potentissime con diritto di vita e di morte sugli autori sui conduttori e sui registi”, alla tirannide dei Produttori Esterni, i proprietari dei format.
C’è il “format orrendo, quello da rifilare a un conduttore in chiara parabola discendente ma da rivitalizzare, per fare una prima serata da costruire in fretta, che costi poco”. O quello “clamoroso e originalissimo coreano, sicuro campione d’ascolti. Ma gli autori lo guardano, e scoprono che è identico a ‘Pranzo in tv’ di Luciano Rispoli del 1983. C’è il format salvadoregno che va velocemente convertito in italiano, e viene presentato in una riunione: “in un ufficio grande come il Salone delle Feste di Versailles decine di sherpa entusiasti della nota Casa di produzione ci spiegano con dovizia di immagini ed effetti speciali le prove pensate per i Vip concorrenti, divise in quattro fasi. 1. Il concorrente viene purgato a sua insaputa. 2. Prima che la purga faccia il suo dovere, lo si colloca in un set fatto di tante porte che simulano altrettanti ingressi di un bagno. 3. Mentre iniziano le contrazioni viscerali lo si informa che una porta si aprirà e lui potrà correre ai ripari, ma solo indovinando la parola d’ordine. 4. Il pubblico da casa potrà aiutare il concorrente ad aprire la porta giusta, ma se lo detesta si divertirà a farlo cagare addosso”.
Però qui siamo evidentemente nella puntata 6 della terza stagione di Boris, quando Nando Martellone già protagonista della “Casa senza bagno”, reality coprolalico di grande successo, in cui è protagonista di una confessione che ha tenuto gli italiani col fiato sospeso tra movimenti intestinali, torna sul set di “Medical dimension” deciso a far dimenticare il claim che l’ha reso celebre, “bucio de culo”. C’è il “Presto e male” boncompagnesco (“Siamo alle prese con uno snodo delicato della scrittura di una sitcom alla quale stiamo lavorando da qualche settimana. Scopro improvvisamente, da una telefonata casuale che aveva tutt’altro oggetto, che il protagonista della serie – sulle cui caratteristiche fisiche e professionali abbiamo già scritto interi copioni – è cambiato, senza che nessuno abbia considerato la possibilità di comunicarcelo. Non si tratta più del famoso artista romano, da oggi è diventato l’emergente comico milanese. Poco male. Cambiando l’ordine dei protagonisti, il disastro non cambia”.
C’è la gestione degli ospiti, che, specialmente quando stranieri, rappresentano un fantastico punto di vista sulla Rai: “Viene ufficialmente comunicato che George Clooney non ci sarà. Pare che anche Bob Dylan sia in forse, anche se è stata inoltrata una mail dall’Ufficio Scritture (“Pregiatissimo dott. Dylan, facendo seguito agli accordi telefonici...”). Con Madonna ci sarebbe la possibilità di fare un collegamento ma il fuso orario con gli Stati Uniti non è favorevole (a chi? a cosa?). Qualcuno ha un altro contatto per Michelle Obama? (a Michelle Obama viene offerto in via straordinaria anche un hotel 4 stelle “non convenzionato”. Per la prima serata è confermato Silvan”).
C’è la mitomania, filo conduttore di tutto il libro (ecco il cantante che prima dell’esibizione si lascia andare a una serie di commenti politici di quarta, strappando ripetutamente l’applauso al pubblico ma “lasciando un certo senso di fastidio per il pressapochismo dei giudizi e la pigrizia delle opinioni”. Disagio che qualcuno traduce con “Ahò, ma che stai a di’? Sei cantante, canta. Il resto nun te compete” (e siamo in Alberto Sordi).
C’è Sanremo, di cui Galeotti pare abbia fatto addirittura sette edizioni, e lì, in un’edizione blindata, alla presenza di Michail Gorbaciov e di sua moglie Raissa e quella concomitante di Roger Clinton, fratello di Bill, dunque alla presenza di servizi segreti sovietici e americani oltre a quelli domestici, “un vecchio imitatore che si pensava defunto riesce a entrare inopinatamente in teatro, “Sono appena arrivato dalla Germania, ora tocca a me entrare in scena, vero?”.
C’è lo slang che varia come e più delle appartenenze politiche (“briffare gli ospiti”; “distopico”; “tanta roba!”). Ci sono “i Complessi”, ecco sempre Albertone e un soggetto oggi valido per un Dino Risi redivivo: l’Artista recentemente convertito all’ebraismo che fa sapere a poche ore dalla messa in onda che non può partecipare allo show, essendo questo di sabato sera, e dunque proibito in quanto cade nello shabbat. Vengono interrogati i più alti luminari talmudici, alla fine uno stagista ha la soluzione: farlo cantare appena scocca la mezzanotte; subito promosso a Autore (anche se tecnicamente Shabbat cadrebbe al tramonto).
C’è il residence, altro tòpos concentrazionario dei televisivi, il residence dei milanesi a Roma, il residence angoscioso, che fosse il Mazzini dove alloggiava Carlo Verdelli, o l’Adrovandi dove stava Campo dall’Orto, ma soprattutto, prima, Risi même: e dunque, pastasciutte tragiche, in un momento storico in cui “gli autori fuori sede del programma quotidiano decisero di cucinare in casa, o meglio in residence”. Dunque, ricette di una amatriciana disperata con avanzi di frigo (e qui siamo in zona “Grande Bouffe” di Tognazzi, sceneggiatura-memoir con uso di cucina): “Pasta di bassa o nulla qualità nella proporzione 1=250 gr. – Al posto del guanciale, affettato trovato in frigo nella sua confezione di plastica (vale tutto, anche la bresaola e, nelle occasioni più disgraziate, persino la fesa di tacchino, alla disperata anche solo la plastica)”.
Infine c’è addirittura l’11 settembre. La Storia irrompe in una fondamentale riunione per decidere un nuovo importantissimo talk show, che naturalmente non si farà. Galeotti non cita qui però la famosa miss Italia che ebbe la sventura d’essere eletta proprio l’11 settembre 2001, Daniela Ferolla. Incoronata da Fabrizio Frizzi e Sophia Loren in diretta su Rai 1, “Passai dal sogno all’incubo”, raccontò. “Era il primo servizio fotografico a Salsomaggiore e all’improvviso tutti i giornalisti, gli addetti ai lavori, le persone che erano intorno a me corsero a vedere la televisione”, raccontò, non dandosi pace perché la notizia, normalmente destinata a essere la prima nei “rulli” del giorno, finì completamente dimenticata.
I guardiani del bene presunto