il libro
L'autobiografia di Asia Argento stilla dolorismo neanche fosse Cioran
In "Anatomia di un cuore selvaggio" l'attrice e regista enumera una sfilza di bocconi indigesti. Se solo tagliasse i ponti coi pianti in tv e riuscisse finalmente a rituffarsi nel mare dell'arte
Parlare di Asia Argento spesso equivale a parlarne male, facendosi forte ai danni di un soggetto fiaccato dalla vita. Un atteggiamento piuttosto inelegante. Gli ambasciatori del volgo direbbero “bullismo”. Non basta una perfidia di stampo metafisico per criticarla evitando di comareggiare. Se poi sei colpevole di superstizione, cominci a pensare possa fiondarti il malocchio. E sì che Suspiria è un bel film, ma qui non crediamo alle streghe: abbiamo semmai il timore, parlando di lei, di assomigliare a qualche giornalista linguacciuta.
Sfogliare la sua autobiografia, “Anatomia di un cuore selvaggio” (Piemme, 2021), vuol dire assaggiare una sfilza di bocconi indigesti: dall’angelo manesco di sua madre, l’ipnotica Daria Nicolodi, ai tartufi del cinema, passando per i ben noti maschi pestiferi. Anche di questi ultimi è meglio non parlare più e dare a tutte le ragazzine appassionate di femminismo lo stesso consiglio che Camille Paglia ha dato a noi ciniche realiste: se non vuoi essere sbranata, è bene tu stia lontana dalla tana del lupo. Oppure devi farti lupo anche tu. Magari con lo spray peperino da spruzzare agli occhi o con la faccia tosta di chi si impunta e, come un pesce piccolo davanti al grande ricattatore, fulmina con lo sguardo di un secco “no”. Asia Argento, gironzolando attorno ai pescioni, non ha avuto la forza di convertire il libertinaggio in libertà di dire no. E alla fine ti domandi cosa dovresti dire, non vuoi infierire, appiccando fuoco a una casa bruciata. A proposito di libertinaggio, il suo libro stilla dolorismo, saprebbe di pena eterna se non fosse per lo stufato di carne che l’ha resa “campionessa del materasso”: un florilegio di maschi fritti nei suoi letti che, come tutto ciò ch’è troppo, dopo qualche pagina stroppia. Allora si torna al dolore, sfiancante ma con qualche accenno di letteratura: “Una come me che va in giro senza pelle, con i nervi, i muscoli, i tendini scoperti, preda delle intemperie, preda di tutto, prima di tutto di me stessa, ferita sanguinante…” Alla faccia di Emil Cioran.
Ad ogni modo, tanto è difficile trovare una vita che non abbia almeno un giorno degno di nota tanto è impegnativo scovare un libro – scritto da alfabeta – senza neppure un mezzo rigo da sottolineare. Quanto alla sua biografia, ci sono i primi anni a raccontare il bello di una Roma stregata. È la storia di una famiglia, infelice sì, ma a modo suo: due genitori snob e tre figlie di stanza al quartiere Prati, con la musica sparata sino alle quattro del mattino. Una notte la madre porta le ragazzine a visitare la città nel buio. Prendono un taxi fino a Piazza del Popolo: un deserto di tenebre e marmo con le sorelle che si arrampicano sui leoni della fontana. Sarà che l’infanzia è bella anche se malinconica ma è un peccato che il passato remoto non possa tornare. E poi c’è il passato prossimo, un capitolo bellissimo, un libro a parte dove si snoda il racconto di un’estate trascorsa su un’isoletta senza nome. Qui impara a pescare il sarago con l’esca di patella levata allo scoglio, coglie la differenza tra riccio maschio e riccio femmina e l’importanza di mangiarne le uova senza limone, per capire il sapore del mare. Un’insolita Asia isolana, pescatrice tenace, che forse non interessa a nessuno, ma che potrebbe serbare racconti buoni per un nuovo film. Non sarebbe male una Argento nereide che tagliasse i ponti coi pianti in tv, che smettesse di agitare femmine insipide, riuscendo finalmente a rituffarsi nel mare dell’arte. E se anche davvero non interessasse a nessuno, sarebbe comunque un “Addio comari”.
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