Lezioni di diversity per Barbero
Lo storico idolo dei podcast dice una fesseria sulle donne e il Wsj spiega perché la dittatura della diversità ha ucciso la libertà d’espressione. Storia di una dittatura culturale (ci cade anche Netflix, con Chappelle)
Fino a quando si tratta di parlare di storia, e dunque del passato, mettere in discussione il talento di Alessandro Barbero è difficile e molti di voi almeno una volta nella vita avranno avuto il piacere di ascoltare un podcast con una lezione del professor Barbero. Quando però si tratta di parlare non di storia ma di attualità, e dunque di presente, il talento del professor Barbero tende a presentarsi di fronte agli occhi dell’osservatore dando una sensazione simile a quella che ha chi si prepara a bere un buon bicchiere di Barbera e poi si ritrova a fare i conti con un vino miscelato con un po’ di acqua frizzante. Il professor Barbero, ieri in un’intervista alla Stampa, ha sparato una scemenza grande come una casa, l’ultima di una serie preoccupante, dopo la firma dell’appello di alcuni docenti contro il green pass all’università e dopo aver avallato alcune teorie sulla falsificazione storica delle foibe, e ha sostenuto una tesi di questo tipo, affrontando in modo un po’ rozzo il tema del gender gap: “Vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che in media le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?”.
Nello stesso giorno in cui il professor Barbero ha scelto di offrire il suo prezioso contributo sul tema del gender gap, il Wall Street Journal ha pubblicato un commento interessante su un tema speculare, che non riguarda il gender gap ma riguarda più in particolare la diversity, che ci permette di affrontare la questione sfiorata dal professor Barbero con un taglio forse meno superficiale. La tesi del Wall Street Journal è potente: la diversity negli ultimi anni è diventata tirannica. Lo svolgimento è altrettanto suggestivo: l’ossessione delle università per “la diversità, l’equità e l’inclusione minaccia di far fallire la missione principale delle stesse università: la produzione e la diffusione della conoscenza”.
Scrive l’autore dell’articolo del Wall Street Journal, il professor Lawrence Krauss: “Molte discipline scientifiche, inclusa la mia area della fisica, negli anni 70 e negli anni 80 avevano troppo poche donne e troppo poche minoranze. Nel corso del tempo, nelle università sono nati degli uffici per la diversità che hanno sviluppato procedure per contrastare la possibilità che i problemi sottostanti al lavoro negli atenei possano interferire con l’assicurazione dell’eccellenza e della diversità. E il risultato è che oggi i comitati di selezione dell’università vincolano l’assunzione di alcuni colleghi alla firma di un impegno esplicito e attivo nei confronti delle politiche finalizzate alla promozione della diversità. L’Università di Berkeley, tra il 2018 e il 2019, ha affermato di aver respinto il 76 per cento dei candidati per alcuni posti di lavoro per questioni legate alle loro dichiarazioni sulla diversità, senza aver guardato neppure i documenti di ricerca”.
Il Wall Street Journal, nell’articolo scandaloso del professor Krauss, riporta anche una notizia ulteriore che è quella che riguarda l’Howard Hughes Medical Institute, un ente di beneficenza per la ricerca biomedica che qualche giorno fa ha annunciato un’iniziativa da 2,2 miliardi di dollari “volta a ridurre la disparità razziale, resa possibile da una contrazione del finanziamento di una ricerca significativa per gli investigatori senior”. L’iniziativa include 1,2 miliardi di dollari in sovvenzioni per ricercatori all’inizio della carriera ma poiché, scrive Science, “la legge antidiscriminazione proibisce l’esclusione dei candidati sulla base della razza e del sesso, i destinatari saranno scelti in base al loro impegno per la diversità, l’equità e l’inclusione”.
Ci si potrà chiedere cosa c’entri tutto questo con il caso del professor Barbero ma la risposta è fin troppo semplice: sui temi che riguardano la diversity non esiste la libertà di espressione, e non esiste neppure il diritto di dire una semplice fesseria, e chiunque si azzardi a sfidare il pensiero unico dell’inclusione dogmatica rischia di essere condannato a vita dalla polizia del pensiero. Vale per le università, anche quelle in cui lavora il professor Barbero (e sarebbe stato bello se il prof. Barbero avesse esposto un concetto più interessante di quello offerto alla Stampa, ovverosia che la libertà di ricerca ci sarà quando una donna, per fare carriera nelle scienze umane non sarà costretta a occuparsi di gender studies per essere presa sul serio).
Ma vale anche nel mondo del cinema, dove il pensiero unico dell’inclusione dogmatica ha avuto l’effetto di scatenare una rivolta trans contro il comico Dave Chappelle. Mercoledì scorso i dipendenti di Netflix hanno organizzato uno sciopero negli uffici della compagnia di Los Angeles per protestare contro una battuta contenuta nello show del comico su Netflix: “Si viene al mondo tra le gambe di una donna e questo nessun trans lo potrà cambiare”. Panico. Scioperi. Lettere di protesta. Chappelle costretto a chiedere scusa. Netflix costretta a chiedere perdono. La diversità, scrive il Wall Street Journal, è diventata una tirannia che ha ucciso la libertà di espressione e che, aggiungiamo noi, ha cancellato anche il diritto di dire ogni tanto una scemenza. Vale la pena pensarci su, prima della prossima fatwa.
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