il dibattito
Caro Barbero, quali donne hanno successo in una società maschilista?
L’ipotesi dello storico è nel senso letterale discutibile, cioè degna di essere discussa. Una critica soggettiva alle presunte “differenze strutturali”
E così anche Alessandro Barbero, dopo essersi chiesto in un’intervista se non ci siano per caso “differenze strutturali” tra uomini e donne che rendono alle donne più difficile il successo in certi campi, è stato travolto dall’intero spettro di reazioni che caratterizza i dibattiti in tempo reale sul web: spettro che va dal più grossolano degli insulti alla più sottile delle difese, dalle accuse di biologismo a ricostruzioni filologiche così scrupolose da far sembrare due righe di quotidiano un frammento presocratico. In realtà, chi non si è occupato del tema come economista o psicologo sociale non può che tenere il tono di una discussione a tavola – poco importa se cordiale o agitata – da semplice “cittadino”, per dirla alla Barbero. Se poi è maschio, potrebbe prudentemente limitarsi a porre qualche domanda partendo da esperienze personali.
L’ipotesi di Barbero è nel senso letterale discutibile, cioè degna di essere discussa; ma l’idea che la differenza delle carriere si debba a una minore aggressività delle donne mi lascia perplesso. Dipenderà dal fatto che ho un rapporto irrisolto con il femminile, e che lo percepisco a volte come minaccioso, manipolatorio o insondabile (sono un lettore empatico di Tozzi, Moravia, Pavese), ma non mi sembra vero. Bisogna vedere cosa si intende per aggressività. Non è detto che quella più chiassosa sia la più intensa ed efficace. In ogni caso mi stupisco quando proprio da parte femminista si accetta una simile distinzione (escludendo come pervertite le donne di piglio “thatcheriano”).
Nel 1999, appena uscito dal liceo, fui invitato da un insegnante a un’assemblea di suoi colleghi, riuniti in un movimento per l’“autoriforma gentile” (minuscolo) della scuola. Quando parlai della violenza nei gruppi di adolescenti, una pedagogista m’interruppe dicendo che “sono dinamiche esclusivamente maschili”. Rimasi così stupefatto da ammutolire. La mia storia scolastica mi dimostrava cosa possono fare alle compagne e ai compagni più deboli delle studentesse che oggi si chiamerebbero inadeguatamente bulle; e proprio allora, da libraio e aspirante scrittore, iniziavo a conoscere i meccanismi vessatori che governano l’editoria per ragazzi, a gestione prevalentemente femminile.
Barbero però non parla solo di aggressività, ma anche di “spavalderia” e “sicurezza di sé”. E qui, per ciò che riguarda la mia esperienza, il bilancio è diverso. Penso ad esempio a quel che capita nella redazione dell’Età del ferro, la rivista diretta da Siti, Manacorda e Berardinelli a cui collaboro. Negli incontri e negli interventi, la maggioranza maschile è schiacciante. Ne abbiamo discusso spesso. C’è tra noi una complicità che inavvertitamente emargina altre voci? Mi chiedo se questa disparità non abbia oscuramente a che fare col taglio militante della rivista, con la sua vocazione alla critica appunto “spavalda”, alla stroncatura, e a un saggismo che collega con un’induzione un po’ spericolata i propri fatti personali all’interpretazione del mondo. Sono tratti poco femminili? So che alcune amiche letterate vedono in quello stile i segni di un’hybris infantile. Diffidano dei vaghi giudizi sintetici a priori: preferiscono un registro da impeccabili studiose o un’ironia magari spietata ma tutta matter of fact. Può darsi che un’educazione più rigorosa o, ehm, castrante, le trattenga dal tracciare un ponte tra il vissuto e un sapere tendenzialmente oggettivo? Non saprei. Certo parecchie volte mi è capitato di assistere a riunioni dove una donna taceva tesa e perplessa, oppure, con un eloquio talmente forbito da rasentare il formalismo, cercava di fissare qualche punto fermo in un dibattito altrimenti tutto fatto di suggestioni che svanivano l’una nell’altra come bolle di sapone.
Ma le dichiarazioni di Barbero mi hanno ricordato anche un altro tipo di riunioni e di presenza femminile in minoranza. Anni fa partecipai a un’assemblea organizzata da un partito in una casa privata. C’erano economisti, avvocati, giornalisti, storici dell’arte: doveva essere un laboratorio programmatico, ma divenne presto un dialogo da “brevi cenni sull’universo”. Al tavolo sedeva un’unica donna: sui trent’anni, di una bellezza e di un’eleganza convenzionali e vistose. Tra gli epigrammi lanciati dai vecchioni ai suoi fianchi, la sua voce si alzava ogni tanto tremando. Tendeva a fare un po’ la lezione, e diceva continuamente “appunto”, come a un esame. Metteva ansia e imbarazzo. Appena taceva, i suoi vicini le sussurravano parole galanti. Capii che incarnava la donna come la immaginavano gli organizzatori del convegno, anziani e benestanti. Ecco un altro tema a cui un uomo può alludere solo camminando sulle uova: se è vero, manzonianamente, che i sopraffattori hanno anche la colpa di corrompere le vittime, ci si può chiedere quali donne hanno successo in una società maschilista – quella società in cui media e partiti, editori e festival le usano come testimonial.
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