L'Italia e i tabù da affrontare per essere un paese per giovani
La narrativa #giovaniuntori è falsa, inutile e pericolosa. Lezioni dalla pandemia per una svolta di sistema
Da noi le pensioni sono egemoniche. A tal punto che, per incentivare lo studio, per aiutare i giovani, il presidente dell’Inps ha proposto il riscatto gratuito della laurea ai fini previdenziali. Forse perché siamo un paese di anziani? Dati da studiare, con ripasso su Invalsi
In Italia si parla sempre di pensioni. E quasi mai di istruzione. Negli ultimi quattro mesi, i giornali italiani hanno dedicato 2.240 titoli a “Quota 100” o “Quota 102” e solo 245 titoli ai “test Invalsi”. Eppure il sistema scolastico italiano meriterebbe approfondite discussioni. Soprattutto in questo periodo. A luglio 2021, i risultati dei test Invalsi ci hanno mostrato i disastrosi effetti della didattica a distanza. Abbiamo scoperto che tra gli studenti delle scuole medie, il 45 per cento ha una preparazione inadeguata in matematica e il 39 per cento in italiano – con una crescita di 5 punti percentuali rispetto ai test Invalsi del 2019. Peggio ancora alle superiori, tenute in Dad per lunghi mesi. Uno studente su due non raggiunge i livelli minimi in matematica e il 44 per cento in italiano. In entrambe i casi con un incremento di ben 9 punti percentuali rispetto al 2019. Un incubo. In cui l’Italia ha scelta di entrare affidandosi quasi completamente alla Dad anche dopo l’estate del 2020, quando le evidenze empiriche mostravano che non erano le scuole e le università i luoghi del contagio. Si è scelto di lasciare a casa milioni di studenti italiani – dagli asili nido alle università. E quando sono arrivate le prime evidenze sul disastro scolastico, se ne è parlato pochissimo. Nel Regno Unito si discute di estendere l’anno scolastico per recuperare l’apprendimento perso con la Dad. In Italia i timidi tentativi di modificare il calendario scolastico sono caduti nel vuoto.
Grande spazio invece a Quota 100 e ai suoi possibili successori: Quota 102 o 104. Malgrado Quota 100 abbia interessato solo 250 mila italiani. Per lo più uomini, nel settore pubblico e con pensioni medio-alte. Per Quota 100, a fine agosto 2021, l’Inps dichiarava di aver speso 11,6 miliardi di euro. Eppure oggi i sindacati minacciano scioperi per difendere il futuro di pochi sessantenni, non mostrando alcun interesse verso quello dei sedicenni. Modificare continuamente il sistema previdenziale attraverso astrusi sistemi di quote e eccezioni rischia di scardinare il sistema contributivo, che ne garantisce invece l’equilibrio finanziario di lungo periodo. A tutto discapito dei giovani e delle generazioni future.
In Italia sembrano esistere solo le pensioni. A tal punto che, per incentivare lo studio, per aiutare i giovani, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha proposto il riscatto gratuito della laurea ai fini previdenziali. Forse perché l’Italia è un paese di anziani: gli ultrasessantenni sono 14 milioni, solo poco più di 10 milioni i giovani adulti (tra i 18 e i 34 anni) e meno di 10 milioni i minorenni. Che adotta soprattutto politiche per gli anziani: le prestazioni pensionistiche previdenziali erogate nel 2020 sono quasi 17 milioni, mentre sono solo 4 milioni i lavoratori dipendenti con meno di 35 anni, di cui un terzo a tempo determinato.
L’Italia è un paese vecchio nell’età media dei suoi insegnanti, degli impiegati pubblici, dei medici che sono stati eroicamente in prima linea a combattere il coronavirus – spesso diventandone vittime. E persino nell’età media dei componenti delle infinite commissioni di esperti create durante tutta la pandemia e che continuano a emergere riuscendo a dar spazio anche a molti ultraottantenni e persino ad alcuni ultranovantenni!
L’Italia è un paese contro i giovani, ormai da tempo. Prima del Covid, l’Italia era tristemente in testa alla classifica europea dei giovani Neet (non lavoratori, non studenti e neanche impegnati nella formazione professionale). Nel 2019, il 18,1 per cento dei giovani italiani in età compresa tra i 15 e i 24 anni era un Neet, contro una media del 10,1 per cento tra i paesi dell’Unione Europea. Il 25,3 per cento per i giovani tra 20 e 34 anni, l’età in cui si costruisce la propria vita futura. Prima del Covid, il 6,4 per cento delle famiglie e il 7,7 per cento delle persone erano in condizioni di povertà assoluta. Una povertà molto più diffusa tra i giovani che tra gli anziani – grazie a un generoso sistema pensionistico, ma a non altrettanto generosi aiuti alle famiglie con figli. Il tasso di povertà assoluto era decrescente con l’età: molto elevato tra i minori d’età (11,4 per cento) e i giovani adulti (18-34 anni: 9,1); più contenuto tra gli adulti (la fascia di età 35-64: 7,2) e soprattutto tra gli anziani, gli ultrasessantacinquenni (4,8 per cento). Povertà più diffusa tra le famiglie monoreddito con più figli che tra gli anziani. Prima del Covid, nel 2019, 68 mila persone in età compresa tra i 18 e i 39 anni, giovani nel pieno delle loro forze, hanno scelto di emigrare all’estero. Come se una città di soli giovani – una città delle dimensioni di Potenza, Cosenza o Pavia – decidesse di staccarsi dallo Stivale.
Quando è arrivato il Covid, la situazione per i giovani italiani è ulteriormente peggiorata. Di fronte alla pandemia, la politica ha scelto di scaricarsi dalle sue responsabilità, di invertire l’onere della prova, di responsabilizzare le persone per i loro comportamenti individuali. Se le cose andranno male, sarà stato per colpa vostra, perché siete stati voi a non essere sufficientemente ligi nel seguire le regole. Una nuova narrativa intergenerazionale si è imposta sin dalla prima apparizione pubblica dell’allora premier Giuseppe Conte: giovani untori e anziani vittime.
Ma la narrativa #giovaniuntori è falsa, inutile e pericolosa. Falsa, perché non sono stati i giovani a fungere da untori: i contagi non sono avvenuti nelle scuole, nelle palestre, nei bar, bensì negli ospedali, negli ambulatori, nelle residenze per gli anziani. Eppure le immagini della movida giovanile hanno bucato lo schermo.
Sicuramente ci sono stati comportamenti non idonei da parte di alcuni giovani. Ma solo da parte loro. Adulti e anziani seduti ai bar o sulle panchine senza mascherina non sono stati mostrati in tv perché non fanno audience, ma c’erano anche loro. Una narrativa inutile, perché i giovani hanno reagito molto bene alle restrizioni: sono stati ligi nell’uso delle mascherine, nel mantenere le distanze, nel rimanere in casa. E sono stati anche molto disponibili a vaccinarsi – anche più degli adulti! Ad oggi, l’86,8 per oggi dei giovani in età compresa tra i 18 e 24 anni ha ricevuto almeno una dose, malgrado per loro le vaccinazioni si siano aperte solo a giugno, contro solo l’81,4 per cento degli adulti (25-49 anni). Eppure, anche in questo caso, sono state messe sotto esame le motivazioni che hanno spinto i giovani a vaccinarsi: “Lo fanno solo per poter viaggiare, per poter far sport, per poter andare in discoteca”. Lo fanno per poter riprendersi la vita! #giovaniuntori è anche una narrativa pericolosa.
Perché i giovani hanno sofferto molto durante la pandemia: isolamento, solitudine, smarrimento, depressione, autolesionismo. Non era proprio il caso di colpevolizzare un’intera generazione per il contagio. La pandemia ha privato i giovani di momenti importanti in un periodo cruciale della loro vita: gli impressionable years. Niente feste dei diciotto anni, niente gite scolastiche, niente feste di laurea. Maturità “light”, senza dizionari e prove scritte da vivere tutti insieme come un rito di passaggio alla vita adulta. Niente notte prima degli esami. Mesi di università fatti da casa, in Dad, senza lezioni in presenza, anche per chi aveva aspettato l’università per uscire dalla casa dei genitori. Un virus per loro poco letale li ha privati di momenti di crescita importanti. Eppure i giovani sono stati molto ligi a seguire le regole di lockdown imposte in quei mesi, pur rendendosi conto che il virus non li minacciava personalmente. Che per loro non sarebbe stato letale. Più che untori sono stati altruisti, verso i loro genitori e nonni.
La pandemia ha imposto anche costi ben più tangibili sui giovani. Costi che rischiano di aver un impatto duraturo. L’Italia è stata campione d’Europa nella chiusura delle scuole e nell’uso della didattica a distanza. Se comparata a scuole chiuse e compiti a casa, la Dad rappresenta un’ottima alternativa, soprattutto per gli studenti più grandi, quelli delle scuole superiori e dell’università. Ma rispetto alla scuola in presenza, che altri paesi europei hanno scelto di usare molto più di noi, la Dad ha evidenziato tutti i suoi limiti, in termini di minor crescita dell’apprendimento degli studenti, di aumento delle disuguaglianze educazionali, di abbandono scolastico, di alienazione degli studenti – e molto probabilmente anche dei docenti, nonché dei genitori.
Gli effetti negativi del coronavirus non hanno risparmiato i giovani adulti. Quelli che si sono affacciati sul mercato del lavoro durante questo periodo rischiano di portarne i segni, le cicatrici. Nella letteratura economica, si parla proprio di effetto cicatrice, per indicare gli esiti negativi che entrare nel mercato del lavoro in una recessione produce durante l’intera vita lavorativa delle persone. Dunque non solo la difficoltà di trovare il primo lavoro, ma anche le conseguenze avverse sulla successiva progressione di carriera. Alcuni studi mostrano che le conseguenze negative sui salari possono durare fino a 15 anni dopo l’entrata sul mondo del lavoro.
Non meno traumatica è stata l’esperienza dei giovani che avevano già un lavoro, ma a tempo determinato, quando è stato istituito il lockdown. Il blocco dei licenziamenti imposto sin dall’inizio, e mantenuto fino all’estate del 2021, non ha bloccato le lancette dell’orologio dei contratti a tempo determinato, che sono inevitabilmente arrivati a scadenza. E non sono stati rinnovati. Con il blocco dei licenziamenti in atto gli unici lavoratori congedati in automatico sono stati quelli con contratti a tempo determinato. La nota dualità del mercato del lavoro italiano è stata esacerbata dalla pandemia. A sfavore dei giovani.
Qualcosa per questa generazione smarrita va fatto. Da subito. L’Europa ha scelto di reagire con un piano dal nome promettente: Next Generation Europe. All’interno di un quadro di riferimento europeo, la scelta degli investimenti per il futuro e l’implementazione delle riforme necessarie è demandata ai singoli paesi. Per l’Italia, che accede all’ammontare di risorse più ingente, ma contemporaneamente accende il mutuo più ragguardevole, la sfida è epocale: restituire il futuro a una generazione incolpevole. Per una volta proviamo a pensare a loro: ai giovani, all’istruzione, al capitale umano. E non solo alle pensioni.
*L’autore, professore ordinario di Economia all'Università Bocconi, ha appena pubblicato il saggio “Gioventù smarrita. Restituire il futuro a una generazione incolpevole” (Bocconi Editore)
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