Un paese di giovani responsabili: la sfida è dargli un futuro
Sono 79,2 su cento i ragazzi tra i 18 e i 24 anni che si sono vaccinati in Italia: il numero più alto tra i grandi paesi europei. Hanno dimostrato capacità di adattamento e fiducia nella scienza: poche lagne, molti fatti. La politica se ne ricordi
Più della Francia, più della Spagna, più della Danimarca, più dell’Austria, più del Belgio, più della Finlandia, più della Svezia e superata solo dall’Islanda, dal Portogallo, dall’Irlanda, da Malta e dalla Norvegia. C’è un dettaglio interessante che emerge dai numeri infiniti che riguardano le campagne vaccinali che ogni giorno finiscono di fronte agli occhi dei cronisti. E quel dettaglio riguarda un numero speciale e una classifica straordinaria che mette di fronte allo sguardo degli osservatori più pigri e più svogliati una verità importante, difficile da negare e necessaria da valorizzare.
Una realtà che fotografa bene un tema cruciale e purtroppo sottovalutato della stagione che sta vivendo oggi l’Italia: l’incredibile responsabilità mostrata durante la pandemia dai nostri giovani. E’ solo un numero, certo, ma dietro quel numero c’è un mondo fatto di scelte, fatto di rinunce, fatto di sacrifici che nascono in buona parte da un approccio antiretorico alla vita pandemica. Poche lagne e molti fatti. Quel numero è 79,2. Sono 79,2 su cento i ragazzi tra i 18 e i 24 anni che si sono vaccinati in Italia, un numero altissimo (i dati sono dell’European Centre for Disease Prevention and Control).
E’il più alto tra i grandi paesi europei (tra i 20 e i 29 anni gli italiani vaccinati, pur avendo iniziato a vaccinarsi quasi per ultimi, sono l’82,93 per cento, una percentuale superiore a quella registrata nella fascia 30-39, che è del 78,43 per cento, e superiore anche a quella registrata nella fascia 40-49, al 79 per cento). Ed è un numero che è lì a testimoniare un fenomeno spesso ignorato nelle discussioni pubbliche sui giovani, ripetutamente raffigurati durante i mesi più duri della pandemia come degli irresponsabili che a colpi di aperitivi e di movida erano lì pronti a contagiare gli italiani più anziani. E invece no. I più giovani, in questi mesi, hanno dimostrato una flessibilità fuori dal comune (alcune settimane fa il New York Times, pubblicando uno studio interessante di Personal Capital e Harris Poll, ha scoperto che due terzi degli americani intervistati erano desiderosi di cambiare lavoro e che tra i più giovani, la percentuale arrivava addirittura al 91 per cento, più di qualsiasi altra generazione, e non ci sarebbe da stupirsi nel leggere qualche percentuale simile per quanto riguarda l’Italia). Hanno messo in campo un’incredibile capacità di adattamento, hanno scaricato il green pass senza fare storie, hanno accettato di ascoltare lo stato senza farsi troppi problemi a ricevere ogni genere possibile di mix di vaccini e hanno mostrato una fiducia razionale nella scienza che li ha portati a diffidare non dei vaccini (più Free vax uguale più pandemia) ma di tutti i cialtroni che negli ultimi tempi hanno cercato di trasformare la battaglia contro le regole della pandemia in una battaglia a difesa della libertà.
Eppure, i giovani italiani ne avrebbero di ragioni per essere indignati. Sono quelli che hanno pagato le maggiori conseguenze economiche del Covid per proteggere i più anziani, economicamente più garantiti di loro (al tempo del Covid, la “mortalità” dei posti di lavoro diminuisce con l’aumentare dell’età). Sono quelli, come ha già ricordato Luciano Capone sulle nostre pagine, che avendo perso formazione e capitale a causa della chiusura delle scuole più prolungata al mondo hanno perso qualcosa in più rispetto ai propri coetanei in termine di formazione e capitale umano (nel 2019, l’incidenza della povertà assoluta tra i più giovani era pari al 12 per cento, il triplo di quella degli anziani).
Sono quelli che, di fatto, si stanno caricando sulle spalle il sostanzioso aumento di debito pubblico maturato durante la pandemia (oltre il 160 per cento del pil) che dovrà essere sostenuto in futuro da chi già in questi mesi ha patito più di altri i costi della recessione. Sono quelli che in questi mesi hanno vissuto sulla propria pelle la disintegrazione del lavoro generato dalla pandemia: i posti andati in fumo tra il 2020 e il 2021 hanno riguardato in particolar modo i contratti a termine, che sono i contratti più diffusi tra i giovani. Sono quelli che sono arrivati a dover fare i conti con la pandemia in condizioni difficili, ignorati dalla politica, snobbati dai sindacati, caricaturizzati dai media e presi in giro dai partiti, che per anni hanno truffaldinamente spacciato misure come Quota 100 come misure a sostegno dei giovani (la famosa staffetta generazionale “esce un anziano entrano tre giovani” non si è verificata).
E invece no. Le cronache di questi giorni, al netto di qualche piccola o grande notizia che non mancherà di suscitare qualche rissa serale, di qualche bravata tra giovani, di qualche scazzottata tra teenager, ci dicono che i volti dell’irresponsabilità pandemica oggi non coincidono con i volti dei più giovani e la sfida per la politica del futuro, e forse anche del presente, sarà quella di ricordarsi dei giovani non solo quando bisogna chiedergli qualcosa nel presente ma anche quando bisogna progettare qualcosa per il loro futuro. Come ha scritto bene la professoressa Veronica De Romanis sul nostro giornale, il punto d’ora in poi è questo: sarà capace la politica di trovare le risorse necessarie per dare un orizzonte ai giovani senza cadere nella tentazione di dare di più a chi è più “vocal”, ossia a chi si fa sentire attraverso le organizzazioni sindacali e attraverso il proprio voto? Incrociamo le dita.
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