Saverio ma giusto
Maledetto passaparola, che ammazza la curiosità e riduce tutto a meme
Squid Game è metafora e critica al capitalismo. Freaks Out è il primo vero blockbuster italiano. Lol è il programma di "So' Lillo". Sappiamo tutto questo senza aver visto niente. Perché esce troppa roba a una velocità supersonica e il passaparola satura la voglia, grazie al peggior testimonial di sempre: la gente
"Squid Game" è una metafora e una critica al capitalismo. La violenza scioccante di cui tanto si parla è niente rispetto alla violenza intrinseca alle dinamiche che la serie narra; e il vero shock è nel riconoscere che sono dinamiche alle quali anche noi nelle nostre vite occidentali siamo assoggettati – per non parlare della violenza psicologica, specie nella sesta puntata. I giochi infantili ai quali i protagonisti della serie si sfidano letteralmente a morte sono una trovata efficace e inquietante, ma non così nuova: gli horror attingono da sempre all’immaginario infantile, tanto ingenuo quanto sottilmente macabro e destabilizzante. Il suo successo si deve al fatto che si tratta di un’opera complessa, a più livelli: si può goderne anche solo come semplice intrattenimento. È avvincente, ben congegnata, ennesima riprova della golden age coreana.
E dico tutte queste cose senza aver mai visto nemmeno un minuto di “Squid Game”. Anche “Freaks Out” non l’ho visto; ma piaccia o meno è il primo vero blockbuster italiano, può competere con i grandi film americani, nessuno in Italia gira film così, genuinamente post-tarantiniano, effetti speciali pazzeschi, sicuramente troppo lungo di almeno mezz’ora/venti minuti. Non ho mai visto nemmeno la prima stagione di “Lol – Chi ride è fuori”, al massimo qualche meme; ma conosco perfettamente tutti i tormentoni, da “So’ Lillo” a “Mignottone pazzo” fino a “Hai cagato?”.
Non mi sento in difetto a non averli visti: del resto, nessuno vede più niente. Ne parlavamo proprio qualche sera sera fa a cena, fra componenti del ceto medio riflessivo: esce troppa roba – film, serie, libri, podcast, giornali, riviste, canzoni, spettacoli – e a una velocità supersonica; chi ha il tempo per vedere, ascoltare, leggere tutto? Non certo noi – noi tutti, intendo – che abbiamo ciascuno almeno un film da girare, o un libro da scrivere, o un pezzo da consegnare, o un podcast da registrare. Di lockdown ce n’è stato uno, e anche lì al massimo abbiamo finito un paio di serie, tre o quattro film in più della nostra media, ma non esageriamo.
Inoltre – ed è questo il punto – la voglia di vedere, leggere, ascoltare, è ammazzata dal passaparola. Un tempo suscitava curiosità, destava attenzione, faceva conoscere cose nuove; oggi il passaparola invece appiattisce tutto, satura, elimina qualunque curiosità. Il punto non è lo spoiler; il punto è che quando la gente (la gente: non esattamente il miglior testimonial) parla di un film o una serie, ti passa la voglia di vederlo. Saranno i social, che hanno trasformato il passaparola da suadente suono di un ruscello di montagna a rumore di un fiume che esonda e devasta. Ma ora il passaparola si sostituisce ai film o alle serie di cui parlano; e basta, come nel mio caso, leggere qualche tweet, sbirciare qualche post, o stare ad ascoltare una 14enne che in quindici minuti mi ha raccontato tutto “Squid Game”, per essere aggiornato, eventualmente emozionato, tanto quanto chi ha visto ciò di cui io ho sentito solo il passaparola – ma con un risparmio di tempo non indifferente, speso poi a vedere cose di cui nessuno parla mai e che quindi destano tutta la mia curiosità.
La mia proposta, per rilanciare il cinema, il teatro, l’editoria, per non ammazzare sul nascere le floride industrie dello streaming e del podcasting, è la seguente: se vedete, leggete o ascoltate qualcosa di bello, tenetevelo per voi. Non ditelo a nessuno. Lasciate che le opere – o contenuti che dir si voglia – si facciano strada da sole, senza il vostro consiglio non richiesto che rende tutto letteralmente già visto, già sentito, già digerito.