Giovani senza frontiere
La globalizzazione ha reso le nuove generazioni dei novelli vagantes. Con un rischio, quello del relativismo
Spesso i ragazzi partivano verso l'estero in cerca di opportunità che in Italia mancano. Oggi, a farlo sono i "ragazzi della terza cultura", che viaggiano da un paese all’altro con grande disinvoltura, quasi non esistessero più confini, come fanno ogni giorno grazie ai social network
La globalizzazione ha profondamente trasformato le regole del mondo economico e commerciale, obbligando i governi nazionali a confrontarsi con questo nuovo assetto internazionale. Ma anche i comportamenti quotidiani ne sono stati influenzati, in primo luogo quelli dei giovani che hanno imparato a vivere in un mondo senza frontiere, viaggiando e adattandosi a nuovi paesi con culture, lingue e costumi diversi. Allo stesso tempo la globalizzazione ha anche suscitato critiche e opposizioni in molti cittadini che sono spinti a riaffermare le loro radici nazionali per paura di perdere la propria identità. Questa apertura al mondo globale riguarda soprattutto i giovani delle classi più colte o più agiate che partono per studiare nelle università estere e iscriversi a master col maggior appeal spesso di “management”, animati dal desiderio di scovare i corsi e gli stage più qualificanti che vengono frequentati anche in paesi diversi senza mai mettere radici. Non è una novità nel mondo occidentale, anche nel Medioevo i clerici vagantes viaggiavano da un’università a una corte o a un monastero per ascoltare la parola dei grandi eruditi e dei maestri.
Ma vi sono anche altre forme di emigrazione che riguardano i giovani che non trovando possibilità di guadagno nel proprio paese partono verso nazioni lontane dalla propria famiglia, adattandosi a fare il cameriere o l’aiuto cuoco, prima tappa di un percorso che passo dopo passo li porterà spesso a realizzare attività e imprese più remunerative. Anche questi giovani rinnovano una tradizione migratoria che ha caratterizzato negli ultimi due secoli le aree più povere del nostro paese, da cui i migranti partivano sperando in un futuro migliore. Pur avendo questi giovani percorsi diversi rispetto a quelli più privilegiati, ne condividono un destino simile, lontananza dalla propria famiglia e dal proprio ambiente originario e un duro sforzo quotidiano per adattarsi e inserirsi in un ambiente nuovo estremamente competitivo.
In passato erano soprattutto i figli di diplomatici, di funzionari o di manager impegnati a livello internazionale, coloro che erano obbligati a trasferirsi coi genitori da un paese all’altro, dovendo lasciare ogni volta gli amici e le scuole che frequentavano, sentendo ogni volta il senso di sradicamento e di perdita per quello che si lasciavano alle spalle. Oggi la situazione è molto diversa, gli adolescenti sono abituati a viaggiare d’estate, spesso in gruppo coi coetanei salendo su aerei oppure su treni con destinazioni europee e non solo. Incontrano ragazzi e ragazze di altre nazioni con cui intrecciano amicizie e storie sentimentali, anche se a volte questi incontri finiscono in contrapposizioni e addirittura in risse. Queste esperienze nuove e inattese costituiscono un’iniziazione necessaria per entrare in una dimensione di vita che va ben al di là della propria famiglia, un training necessario per acquisire un’identità personale più fluida e più malleabile che meglio si adatta alle regole della globalizzazione. La tappa successiva di questi giovani è quella di preparare l’application per le università straniere più prestigiose, cercando durante gli anni del liceo di raggiungere nel profitto scolastico e nelle conoscenze delle lingue straniere i punteggi necessari per essere finalmente accettati e partire per queste nuove destinazioni.
Ci troviamo di fronte a questi grandi cambiamenti nelle nuove generazioni, anche se è un fenomeno ancora non troppo esteso, quantunque abbia un’influenza crescente fra i giovani. Nel mondo americano questi giovani vengono definiti “Third Culture Kids”, ossia ragazzi della terza cultura, come sono stati battezzati dai due sociologi americani Ruth e John Hill Useem. Questi ragazzi della Terza Cultura si trovano a vivere in una posizione interstiziale, che si colloca fra la propria famiglia di origine e la cultura dei nuovi ambienti in cui si sono trasferiti, spesso non in modo definitivo. Più che inserirsi nel nuovo paese dove si trovano mettendo radici, frequentano coetanei con la loro stessa storia, una specie di “enclave” che mantiene una distanza autosufficiente.
Cambiano colore della pelle come i camaleonti, si adattano a qualsiasi ambiente, dove trovano nuovi amici, ma sempre pronti a lasciarli, parlando un idioma in cui si mescolano parole di lingue diverse, non avendone più uno proprio. Anche la loro identità è fluida, a volte sfuggente, abituati a non radicarsi in abitudini tradizionali, a volte ricordano i personaggi delle pitture di Marc Chagall, che si allontanano da terra veleggiando in cielo. Ci si può chiedere se la mancanza del senso di appartenenza non provochi a volte in loro un senso di disorientamento e di sradicamento, proprio perché la propria casa è dovunque e da nessuna parte.
Chi ha raccontato il mondo dei giovani della terza cultura è stato il presidente americano Barack Obama nel suo libro “I sogni di mio padre”: nella sua vita si è trasferito da Giacarta a Seattle, dal Kenya alle Hawaii, appartenendo a un mondo multiculturale ricco di esperienze stimolanti, ma col rischio, come lui stesso ammette, di sentirsi perso. In questo spazio interstiziale a volte ci si sente ai margini, non trovando un ambiente in cui rispecchiarsi, come anche un gruppo sociale in cui riconoscersi. Forse l’unico modo di ritrovare il senso di sé è quello di far riferimento solo ai propri pensieri e ai propri sentimenti. Nel cinema le esperienze dei giovani che fluttuano fra identità diverse e cangianti sono state raccontate dal regista Luca Guadagnino nel film “Chiamami col tuo nome”, in cui viene messo in scena nel languore estivo di una villa del nord Italia l’amore ambivalente fra Elio, un diciassettenne italo-franco-americano, e Oliver uno studente ebreo americano di 24 anni. Successivamente lo stesso Guadagnino in una serie televisiva “We are who we are” (Noi siamo chi siamo) ha affrontato i rapporti quotidiani di un ragazzo e una ragazza americani che vivono vicino Vicenza e i cui genitori lavorano nella base militare americana.
Con l’accelerazione degli incontri e degli scambi internazionali i giovani si spostano e viaggiano da un paese all’altro con grande disinvoltura, quasi non esistessero più confini, come fanno ogni giorno grazie ai social network con cui si collegano coi coetanei di tutto il mondo. E’ inevitabile che verifichino continue ibridazioni di culture, comportamenti e linguaggi che mettono in discussione la tradizionale essenza della personalità. Tuttavia il pericolo che possono correre i giovani in un mondo globalizzato è l’affermazione di un relativismo che potrebbe giustificare la legittimità di ogni punto di vista personale, per cui verrebbe meno la capacità di discernere, differenziare e avere un proprio codice etico. Potrebbe comportare, questo, un fraintendimento e un fallimento che tradirebbero il significato innovativo delle esperienze odierne dei giovani, che sperimentano una molteplicità e una complessità di prospettive personali che possono aiutarli a raggiungere un’identità meno rigida e più articolata, più in grado di identificarsi con alterità diverse.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio