Timido è bello, anche sui social
Dare ascolto al proprio bisogno di solitudine nell’èra della sovraesposizione
Una coppia di amici che vediamo soprattutto in estate sono genitori di quattro figli. Il primogenito è un bel ragazzo adolescente; porta il nome di un personaggio di Tomasi di Lampedusa e nelle movenze ha un che di aristocratico, senza mai apparire snob. E’ un ragazzo silenzioso, capace di appartarsi per ore con la musica nelle orecchie, e non ama i social. Un’amica di mia figlia, musicista in erba, possiede – come la maggior parte dei suoi coetanei – un telefonino: le è stato concesso dai genitori insieme alla sua prima indipendenza da dodicenne; eppure – a differenza della maggior parte dei suoi coetanei – non è tutto il tempo attaccata allo schermo e non controlla quasi mai le notifiche di WhatsApp (con il risultato che non si è presentata a una festa di compleanno il cui invito era stato condiviso e si è dimenticata di una verifica nonostante i compagni avessero esorcizzato in chat le loro preoccupazioni).
Qualche settimana fa ho ricevuto il messaggio di una persona che non sentivo da moltissimo tempo: aveva visto su Facebook che ero stata a Roma e mi chiedeva di avvisarla quando sarei tornata. Invece di farmi piacere, mi sono sentita spiata perché quella persona non posta mai nulla e ha sempre dichiarato di odiare i social, tanto che mi ero perfino dimenticata che avesse un profilo. Fa parte di quelli che non partecipano, salvo monitorare con attenzione quello che fanno gli altri. E già qui si sarà notato un lieve fastidio. L’èra dei social non solo ha cambiato la nostra distinzione tra pubblico e privato e la nostra gestione del tempo libero, ma anche la percezione che abbiamo di chi – in un’epoca di esposizione continua, di ansia di condivisione come necessità di affermazione del proprio esserci – sceglie di non farlo. Pensiamo subito che ci sia un problema, un timore, un’insicurezza, o forse solo della malafede. Introversi contro estroversi: o almeno così qualcuno vorrebbe dividere il mondo.
Quando lavoravo in un’agenzia di pubblicità il nostro capo era un talentuoso uomo di mezza età che parlava perfettamente quattro lingue, ma non apriva quasi mai bocca. Era un introverso che aveva tramutato una qualità non-social in una strategia di successo. Quel parlare poco, quel dimostrarsi riflessivo e in grado di maneggiare a effetto le sue lunghe pause gli dava un’autorevolezza che altri non potevano vantare. Siamo proprio sicuri che chi condivide sui social, anche chi ha costruito un personaggio efficace da esibire, sia per forza un estroverso? Non è possibile a volte che si tratti di maschere dietro le quali nascondersi? La cultura di massa – dunque anche quella dei social – vorrebbe dividerci sempre tra personalità di spicco (vincenti, leader) e altre più marginali (passivi, follower). E’ una semplificazione, dunque una forma di controllo, un’imposizione, una manipolazione. Mi autorappresento di continuo sui social (con esiti talvolta maniacali) per ricevere like; per bearmi del consenso, mi mostro più estroverso che mai – a vantaggio mio, ma soprattutto del potere dei social media e delle loro strategie marketing che piegano la nostra attenzione, dunque la nostra esposizione, ai loro messaggi pubblicitari.
Non esistono categorie manichee. Siamo sempre un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Per molti anni, durante le riunioni collettive non spiccicavo parola, poi grazie all’attività di scrittrice (attività totalmente introversa) ho imparato ad apprezzare il pubblico, a discutere collettivamente. Susan Cain, autrice del best seller “Quiet”, indica i molti super poteri degli introversi: la pazienza e l’ascolto, la capacità di concentrazione e quella di andare in profondità. L’èra dei social sarà anche l’èra degli estroversi (come dimostrano gli uffici concepiti tutti come open space o le modalità didattiche che favoriscono i comunicatori di natura), ma non potremmo mai fare a meno della solitudine, della contemplazione, della lettura, della creatività per dare nutrimento al mondo e a noi stessi. Non dobbiamo mai fare a meno di prenderci cura di quella parte timida e retrattile che c’è in ognuno di noi.
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