Lode al libero sberleffo
Come attrezzarsi contro i rischi della cancel culture e del nuovo galateo che impone censure e vieta l’appropriazione culturale. Dalla Festa dell’ottimismo, le voci di un regista, quattro comici e un vignettista per un vaccino contro le derive del politicamente corretto
A trent’anni ancora da compiere – cadranno a dicembre – Pietro Castellitto si trova nell’invidiabile situazione di aver girato un film molto bello (“I predatori”, sfortunatamente uscito tre giorni prima che i cinema chiudessero per Covid) e aver scritto un libro altrettanto bello (“Gli iperborei”, Bompiani). A trent’anni ancora da compiere, Pietro Castellitto si trova nella meno invidiabile situazione di dover pensare all’opera seconda. A due opere seconde, e già una basterebbe per aver la tremarella. “Bisogna trovare la forza e la lucidità per riconnettersi con quel che ti aveva spinto a scrivere il primo libro o il primo film. Lo spirito di anarchia e di libertà che avevano portato a quei primi risultati. La rabbia, anche. Poi è vero, l’esito non si può prevedere a tavolino. Penso però che nella carriera di un artista conti il viaggio: se Martin Scorsese avesse girato solo ‘Taxi Driver’, senza fare altro, quel film magari l’avremmo dimenticato”.
Prima un altro film o prima un altro libro? “Ero indeciso fino a qualche giorno fa, adesso ho superato la pagina 50 di una sceneggiatura, quando la mattina rileggo il lavoro del giorno prima mi sembra possa funzionare”.
Quando scrivi, senti il peso del nuovo galateo che mette censure e vieta l’appropriazione culturale? “Tra le spinte che mi portano a scrivere o a fare film c’è la voglia di smascherare l’ipocrisia. Ogni epoca ha le sue, oggi le ipocrisie si nascondono dietro i valori progressisti. Il mio romanzo ‘Gli iperborei’ era ambientato a Roma Nord, luogo che di questi tempi sta tra i soccombenti. Ma la stessa voglia di denaro si ritrova in altri ambienti, per esempio tra chi dice ‘scriviamo una commedia’. Il 99 per cento dell’arte e anche della filosofia va contro l’ipocrisia e la combatte. Non può assecondare il maccartismo di questa nostra epoca, e l’ostracismo che vediamo attorno a noi: vorrebbe dire cambiar mestiere. E’ come se ti dicessero: ‘Fai il calciatore, ma non puoi toccare la palla con i piedi’”.
Visto che hai parlato di filosofia, Nietzsche è una presenza ricorrente, dà il titolo agli “Iperborei” e fa da sfondo a una scena nei “Predatori”: il professore universitario vuole disseppellire il cadavere del filosofo, l’allievo smania per partecipare alla spedizione. “Nietzsche me lo mettono in bocca sempre, anche quando non lo cito. Su Nietzsche mi sono laureato, ho letto tutti suoi scritti, epistolario compreso. Con lui ho cominciato a leggere davvero, avevo 17 anni, prima passavo il tempo tra sport e playstation. E’ stata una passione, e poco dopo ho cominciato a buttare giù qualcosa. Diciamo che ho cominciato a leggere tardi e ho cominciato a scrivere presto. Per la mia generazione funziona così, leggere è qualcosa di intimo, non puoi imporlo. Non credo a certi ragazzini che a dodici anni dicono che il loro film preferito è ‘La dolce vita’”.
Eppure mi capita di leggere tanti romanzi, purtroppo non solo opere prime, giustificati soltanto dal fatto che chi li scrive “ama molto la lettura, e la pratica fin da piccolo”. “Penso che ci sia un fondo di ottusità nel voler scrivere solo perché si è letto molto. Anche Nietzsche ha scritto cose sbagliate, per esempio un’autobiografia quando era giovane, e come succede c’erano molte ingenuità. Ma era sincero con sé stesso, per questo ha passato quasi tutta la sua vita in completo isolamento. Era diventato professore giovanissimo, all’Università di Lipsia, aveva 26 anni. Si licenzia perché non sopporta l’ambiente, diventa amico di Richard Wagner, poi lo lascia e scrive contro di lui, finendo la sua vita in solitudine. Ma sempre sentiamo vibrare una sincerità che forse ha a che fare con il talento”.
Scrivere romanzi è un mestiere solitario, il regista dirige e coordina tante persone, cosa preferisci? “Il lavoro del regista è un lavoro superficiale, nel senso nobile del termine. La sceneggiatura viene scritta e cambiata sul set, bisogna scegliere gli attori. Quello che si vede sullo schermo è l’ultimo anello di una lunga catena. Lavorare a un libro ha qualcosa di inquietante: chi va in libreria legge esattamente le stesse parole che io avevo scritto in solitudine nella mia stanza.
Sono due fatiche diverse. Anche la promozione è diversa, quella di un libro dura di più, per un film te la cavi con poco. Per ‘I predatori’, uscito in un momento poco favorevole, ho fatto video di presentazione destinati all’Indonesia, alla Russia, alla Cina. Non ho potuto accompagnare il film, peccato”.
Quanto è stato divertente entrare nei panni di Cencio, il tuo personaggio in “Freaks Out” di Gabriele Mainetti: il ragazzo albino del circo capace di comandare gli insetti? “Era un set magico, sembrava Walt Disney. Abbiamo costruito il personaggio insieme, con i suoi lati oscuri. Gabriele Mainetti è stato molto generoso con me, anche per quanto riguarda la regia. Ho girato le scene di quel film (che ha avuto una complicata vita produttiva) prima di girare ‘I predatori’, imparando tante cose utili”.
Pietro Castellitto aveva la parte del Secco, nel film tratto dalla “Profezia dell’armadillo” di Zerocalcare. Cosa pensi di tutte le polemiche sul romanesco, parlato anche dalla famiglia proletaria nei “Predatori”‘ “Non era possibile fare altro, Zero parla con sé stesso in romanesco. L’hanno rimproverato anche a me, ma anche se qualche parola sfugge, il sentimento e il senso della scena restano”.
Mariarosa Mancuso
L’Italia non ha mai avuto il politicamente scorretto
Tempi di cancel culture e furia cieca del politicamente corretto (che in America non risparmia neanche la statua di Thomas Jefferson, considerato uno “schiavista” ex post, dopo duecento anni). Ma anche tempi in cui ai Grammy vengono nominati artisti considerati “cancellabili” dalla polizia del pensiero, come Louis CK e Marilyn Manson. Per un comico che cosa comporta questo clima? “In realtà, dal punto di vista del comico, a mio avviso non cambia nulla, anzi: qualcosa cambia in meglio”, dice Saverio Raimondo, stand up comedian e autore televisivo. “Il problema del ‘non si può più dire niente’ se lo pone chi è in malafede o chi si è svegliato ora da un lungo letargo, nel senso che ogni epoca ha il suo dibattito e i suoi temi sensibili, e fare il comico ha sempre voluto dire confrontarsi sui temi sensibili”. E poi, dice Raimondo, “l’Italia non ha mai davvero avuto il politicamente scorretto, quindi è difficile che qui si ponga davvero il tema della cancel culture. Si può dire però che le nuove sensibilità rispetto ad alcuni temi creano nuovi tabù, ma la comicità per sua natura va contro i tabù, e il fatto che ora esistano in qualche modo dei confini da non oltrepassare dovrebbe spingere il comico ad andare proprio contro quei limiti e quei tabù. Ma io parlo da privilegiato. So che nei paesi anglosassoni c’è una ipersensibilità paranoide che rende a volte difficile lavorare. Quel che è peggio, molti l’hanno introiettata, anche perché fa cassetta”.
E’ mai capitato a Raimondo di trovare sulla sua strada qualche ostacolo per eccesso di politicamente corretto? “Ci sono stati casi – ma devo dire che questo avveniva anche prima che emergesse il fenomeno cancel culture – in cui si è dovuto contrattare in parte sulle cose da dire. E insomma, per un comico già avere a che fare con la Rai è una prova, in questo senso: in Rai sono più avanti rispetto a qualsiasi ostruzionismo ‘cancel’”. Recentemente, ricorda Raimondo, “in pieno lockdown, nei primi mesi di pandemia, ho fatto un servizio ironico sulle mascherine e una persona, in Viale Mazzini, ha manifestato una certa contrarietà alla messa in onda per paura che il servizio stesso apparisse come una sorta di vilipendio a un presidio medico-sanitario. Spesso, diciamolo, prevale la stupidità”. Negli Stati Uniti però il problema, per chi lavora con le parole, va oltre la stupidità, virando spesso verso l’ottusità e la foga proibizionista rispetto a film, libri, opere d’arte. “Sia in Inghilterra sia negli Stati Uniti, paesi dove esisteva, in alcuni ambienti, una forte attitudine al politicamente scorretto, l’urto della cancel culture è stato forte. Al contrario, c’è poi chi si è appropriato della facciata politicamente corretta e ha perso mordente, come Jon Stewart, comico e conduttore che presentava lo show satirico-politico ‘The Daily Show’, ora arrivato su Apple tv con un programma non troppo innovativo. E’ come se gli mancasse la forza di fare una battuta fulminante delle sue”. In Italia, dice Raimondo, “la situazione è diversa: noi siamo sempre stati un paese permaloso, da noi non è mai stato possibile dire ‘è solo una battuta’”.
Ma dove nasce questa smania di “cancellare”? “Una certa cultura del piagnisteo”, dice Raimondo, “ha attecchito da tempo nei campus americani. Ma i social network hanno avuto un ruolo importante nell’amplificare alcune ottusità del politicamente corretto, cose che si risolverebbero da sole, forse, se non gli si desse tutto quel seguito. Ignorando si ottengono più risultati, in alcuni casi, che sottolineando”. C’è poi un tema di vittimismo: “Il comico non può e non deve atteggiarsi a martire. E’ ovvio che le tue battute diventino oggetto del contendere. La comicità maneggia materiale abrasivo su oggetto contundente. Sei nell’agone e se qualcuno si offende devi essere pronto. Se anche i comici si mettono a piagnucolare siamo finiti”.
Marianna Rizzini
La paura di offendere una sensibilità uccide l’arte
Che effetto ha la “cancel culture” sulla comicità? Il clima furiosamente pol. corr. ha portato comici e scrittori a esercitare su sé stessi una forma di autocensura, sotto la scure delle critiche e delle campagne di ostracismo sui social network. Edoardo Ferrario, giovane comico e imitatore, pensa che il tema sia fondamentalmente questo: “Se fai bene il tuo lavoro non devi temere nulla o vergognarti di nulla. E se tu non sei omofobo o razzista, il tuo lavoro rispecchierà la tua natura, qualsiasi cosa si dica pretestuosamente. Detto questo, se faccio battute su un tema controverso penso sempre a che cosa sto maneggiando mentre scrivo. Non mi interessa stuzzicare le platee di Facebook tanto per ottenere commenti incazzati degli internauti e far ridere sfruttando il tema sensibile. Insomma: la battuta è un modo per confrontarsi con un’altra cultura e con altri modi di pensare; non deve esserci per forza dentro un attacco o un giudizio. La comicità è fatta, a mio avviso, per instaurare un dialogo. Come si può pensare, come fanno gli alfieri della cancel culture, che mettendo una pecetta sul passato si prevengano storture nel futuro?”.
Ferrario non crede possibile “che davvero qualcuno oggi si possa offendere vedendo ‘Via col vento’. E non ha molto senso che ‘Via col vento’ vada in onda con il disclaimer di film ‘razzista’. Ma siamo pazzi? Un film del 1939! Ma davvero si crede che il bifolco con il fucile che vive isolato nell’entroterra americano veda ‘Via col vento’ e si senta corroborato nelle sue convinzioni razziste? E’ follia, ed è inutile. Come pure mi pare inutile la lotta cieca e l’anatema contro i comici che fanno battute su soggetti considerati sensibili. Vogliamo finire per parlare soltanto di noi stessi? Vogliamo chiuderci in una bolla? Quando subentra la paura di offendere una sensibilità finisce l’arte”.
L’Italia, dice Ferrario, “è molto arretrata, per così dire, a livello di sensibilità nei confronti dei soggetti a rischio. Per anni nei film abbiamo sentito battute omofobe o maschiliste, ma non credo nessuno si offenda vedendo i film dei fratelli Vanzina usciti negli anni Ottanta. Non dico che si possa sempre scherzare su tutto, ma se interpreti il tuo lavoro come un confronto attraverso il registro comico non corri il rischio di offendere, secondo me”. In questo paese, comunque, siamo lontani dalla cancel culture, dice Ferrario: “Basta vedere una prima serata o uno show di metà mattina che ha come target ideale casalinghe e pensionati: ruoli minoritari per le donne, allusioni maschiliste. In Italia si può dire tutto, altro che lamentarsi perché ‘non si può più dire niente’”.
Il problema riguarda però seriamente il mondo anglosassone: “So di tanti artisti e scrittori americani o inglesi che hanno dovuto ricalibrare i canoni del proprio lavoro, perché davvero vengono viste con sospetto alcune cose e questo comporta infinite campagne di demonizzazione. Tanto per dirne una: non si può neanche nominare Kevin Spacey. E’ tutto lapidario, esagerato, e questo rende faticoso fare una riflessione sulla vera violenza. La caccia alle streghe, le condanne preventive impediscono di affrontare problemi urgenti nel dibattito pubblico”. Ferrario racconta di un suo amico comico bianco inglese che “non può più nominare la parola islam sul palco: viene immediatamente visto male. E allora si capisce che possa essere una tentazione il rifugiarsi in un territorio sicuro, quello che riguarda la tua cerchia. Certo, sta tutto anche nell’intelligenza di chi guarda, di chi ascolta. Ma è un rapporto biunivoco: a forza di considerare gli spettatori degli imbecilli che si offendono a ogni battuta non politicamente corretta si finisce per sedersi, per non sfidarsi, per omologarsi. Io devo pensare invece che il mio pubblico sa riconoscere se e quando una battuta è davvero razzista o davvero omofoba. L’isteria del politicamente corretto porta al silenzio, e io non credo che il comico possa mai desiderare la riduzione della sua comicità al silenzio”.
Marianna Rizzini
Come disegnare sul crinale pericoloso dell’offesa
"Da noi c’è e non c’è la cancel culture all’americana”, ci dice Makkox, Marco Dambrosio, col tono di chi vorrebbe soprattutto tenersene alla larga, di chi vede, in quegli appelli, in quelle pressioni, in quelle ossessioni, soprattutto un esercito di potenziali, micidiali, rompiscatole. Oscilla, come tutti noi, tra l’osservazione del tentativo di combinare anche in Italia qualcosa di simile a ciò che avviene nelle università americane o britanniche, e il temperamento di quel timore con l’indole italiana e con l’esiguità della nostra bolla social. “Da noi – ci dice un po’ speranzoso e un po’ fiducioso – non saprei nominare casi, come dire, portati a termine, certificati, di persone fatte fuori lavorativamente o dalla sfera pubblica, per pressioni arrivate dal basso, cioè dalla rete, però, certo, il tentativo lo vedo. Dopo qualche espressione, qualche uscita, magari davvero infelice, sbagliata, criticabile, arrivano ondate minacciose, con richieste di proscrizione, di licenziamento, post o tweet furiosi al grido di cacciatelo e non fatelo più lavorare, ma qui cascano nel nulla”.
Però anche i post e i tweet, pur senza conseguenze pratiche e pur senza quella tribunalizzazione, un po’ tetra, visibile soprattutto nelle società e nella cultura anglosassoni, fanno male, insomma, almeno un po’ spaventano, disturbano, e Makkox ne sa qualcosa, perché far ridere e pensare con le vignette obbliga a tenersi sul crinale pericoloso dell’offesa. “L’effetto su di me – ci dice – è che mi faccio sempre più i cazzi miei, non che mi autocensuro, ma tendo a tenere certe valutazioni, certe battute, certi disegni, un po’ più per me che per il grande pubblico. Sento che alcune cose che mi viene voglia di descrivere, di disegnare, di rappresentare in modo ironico avrebbero bisogno, per essere capite senza equivoci, di un pubblico che mi conoscesse meglio. Per farla più semplice dovresti sapere chi sono per divertirti senza lasciare spazio a una generica offesa, io lo so che in certi casi potrei permettermi di scherzare su tante cose giudicate spesso super delicate o quasi intoccabili, perché conosco la mia storia personale e la mia sensibilità, ma poi evito perché sarebbe una fatica enorme di fronte a reazioni spropositate. E poi – aggiunge ridendo, ma rideva un po’ anche prima – sarebbe una fatica fatta gratis, e chi me lo fa fare questo sforzo enorme di analisi e di spiegazione e, pure, gratuito?”.
Insomma, e questa è una strada interessante, la cura per l’indignazione da web, la soluzione per uscire dalla trappola dell’offesa e della denuncia che annichilisce il denunciato e il denunciante, purtroppo, non la passa gratis il servizio sanitario, ma costa fatica, e Makkox, comprensibilmente, si chiama fuori da questa forma di volontariato. “Perché poi, questi che si indignano, prendono le vignette, purtroppo riproducibili in un solo scatto, e le diffondono gratis in rete. Ti espongono all’odio e manco pagano la copia. Ai tempi del Male la gente magari si incazzava però almeno il giornale lo comprava. Qui partono tutti all’attacco senza fare sforzi, copiano e incollano, e finisci in un’interrogazione parlamentare”.
Una baraonda che, poi, non produce granché. La vacuità sembra un corollario della gratuità, anche perché, osserva Makkox, in Italia tutto questo processo vagamente simile alla micidiale cultura del cancelletto (e della cancellazione) è ristretto, ridotto a un mondo asfittico. “Una piccola bolla, che scoccia ma non terrorizza, Twitter non è l’inquisizione, ma un luogo dove trovi pure un sacco di roba divertente, da noi le redazioni forse sono troppo boomer o forse meno impaurite, le pressioni social arrivano ma poi non fanno saltare posti di lavoro né linee editoriali. Poi si rivolve tutto in declamazioni, polemiche chiuse nella microbolla, con effetti anche un po’ stranianti, come la destra che, in Italia, sembra diventata la paladina della libertà di espressione, perché si scaglia contro la nostra cancel culture un po’ stracciona. Alla fine resta un effetto comico, e meno male, perché tutte le parti in commedia sono recitate al ribasso”.
Giuseppe De Filippi
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Esiste anche il buffo slegato dalla critica sociale
Valerio Lundini è già al riparo da qualunque forma di indagine poliziesca con mire di cancellazione del pensiero grazie a una solida cortina di nonsense. Scava tra i significati per trovare quelli dimenticati, fa slalom tra le espressioni per schivare quelle più dense, le parole sembrano sorprenderlo. “Do titoli non inerenti ai temi trattati nei miei spettacoli, poi, se entrano, una volta pagato il biglietto è fatta”, ci dice con il suo tipico spirito e citando lo spettacolo ora in produzione, “Il mansplaining spiegato a mia figlia”, lui che non ha una figlia e neppure intende parlare di mansplaining. Sembra un modo per tutelarsi dalle orde internettiane del purismo etico, dalle quali, constatiamo, sembra risparmiato, ma lui la vede più semplice. “Qui in Italia quella roba non c’è tanto, a me comunque non me ne importa, credo che sia una questione limitata a un piccolissimo ambito ristretto in internet. Nell’arte, in Italia, non ci sono davvero pressioni o intimidazioni, aldilà dei casi personali, perché uno smetta di esprimersi. Io ho sempre detto quello che mi pareva, senza il timore di finire in galera”. Insomma non vedi un clima simile a quello americano o britannico? “Sì, e forse non dovremmo neanche parlarne troppo, così non diamo strane idee. Rischiamo di far partire una specie di cancel culture per imitazione, una parodia che finirebbe per essere pesante, invadente e anche ridicola. Perché poi siamo lenti o incapaci di importare le cose migliori dagli Stati Uniti, il primo film come si deve con gli effetti speciali all’americana lo abbiamo fatto ora, ma siamo specialisti nel prendere in uso il peggio. Quindi meglio starsene buoni, non parlare troppo di queste questioni, fare un po’ i vaghi, perché a noi piace l’esotico, ma l’esotico brutto”.
Un esito meno deludente di questa battaglia ancora non combattuta? “Prendiamo un possibile effetto positivo, proviamo a esercitare un po’ di ottimismo. In fondo se c’è un po’ più di rispetto per gli altri io ne sono contento. Perché la preoccupazione contro il buonismo regolatorio e disciplinante non deve neppure trasformarsi in una, un po’ patetica, battaglia opposta, con la ricerca della cattiveria sregolata e dell’offesa gratuita”. Ma per una comicità o una satira che siano efficaci non è necessario che almeno qualcuno ci resti un po’ male? “Non è detto – ci risponde, senza però voler affettare buoni sentimenti – perché a volte esiste anche il buffo slegato, come dire, dalla critica sociale, esiste ciò che diverte semplicemente o meravigliosamente perché stupisce, esistono i tabù inventati e usati per riderne, anche proprio per ridicolizzare l’idea stessa di tabù. E sono tutti casi in cui non saprei proprio trovare un gruppo sociale autorizzato a sentirsi offeso. Io poi, ripeto, non mi sono mai posto questo problema, non ho mai studiato il modo in cui scrivo le cose, certo, lo so se un tema è controverso, ma non vado a cercare, al suo interno, gli spunti che lo rendano ancora più problematico, le parole che lo rendono più offensivo. Me la prendo con comportamenti, modi di fare o di pensare, che so essere anche miei. E allora se rido di me cosa volete? Un’autodenuncia?”. Ma ti diverte, in altri, l’umorismo offensivo, aggressivo? “Non proprio, semmai mi diverte, come guilty pleasure, tornare a seguire certi pezzi demenziali o magari roba piena di parolacce. Ma mi sembra più umorismo quasi ingenuo, una cosa un po’ bambinesca, e non certo l’apertura del nuovo conflitto sociale e culturale”.
Giuseppe De Filippi
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