Effetti collaterali della pandemia
Né aperta né liberale. Così il Covid ha cambiato la società
Campagna contro città, somewhere contro anywhere. Gruppi che si dichiarano contrapposti ma che sono incredibilmente simili: entrambi sono nemici della libertà. La polarizzazione del dibattito sembra l'eclissi della razionalità. E la pandemia ci ha portato un passo indietro di 250 anni
Non ricordiamo che durante la stagione influenzale 2016-2017, che si portò via circa 18 mila over 65 rispetto a quanto atteso (42 per cento in più) nel volgere di circa dieci settimane (dati Epicentro), qualcuno chiese di instaurare lo stato di emergenza. Dal primo giugno al 6 dicembre scorso Covid-19 è costato la vita a 8.159 persone (quasi tutte non vaccinate, anziane o in condizione di salute molto precarie). Mentre Sars-Cov-2 non è il virus dell’influenza, e mentre all’inizio della pandemia alcuni scienziati hanno confuso auspici e analisi, ora paragonarne l’impatto a quello di una brutta influenza, almeno in Italia, non è una cosa fuori dal mondo.
Certo, nel 2017 si vaccinarono troppo pochi anziani, ma oggi abbiamo messo in piedi una macchina da guerra di grande efficienza per vaccinare contro il Coronavirus. Di fronte a un numero di morti giornalieri che sono pari alla metà o a un terzo dei morti dello scorso anno non dovrebbe essere considerata una bestemmia chiedere la cessazione dell’emergenza e il ritorno alla normalità. Per carità, con le cautele del caso, ovvero tenendo in piedi le misure che sappiamo essere efficaci, cioè vaccinazione e mascherine nei luoghi chiusi. Ci rendiamo conto che il clima di paura che serpeggia ormai gratifica molti. Prima di tutto gli esperti, che quando torneremo alla normalità dovranno abbandonare gli studi televisivi e torneranno a essere ignorati dai media, come è sempre avvenuto in Italia per le competenze tecnico-scientifiche – del resto la pessima prova che hanno dato e la confusione e polarizzazione che hanno causato induce ad auspicare un silenzio riflessivo. Ci sono alcuni tele-scienziati che a chi suggerisce che sarebbe folle lasciarsi privare della libertà da una malattia che si sta riducendo a una media influenza replicano che i vaccinati da coronavirus si infettano e infettano altre persone. Oibò, l’esperto si è scordato nei manuali di vaccinologia si legge che la stessa cosa accade con i vaccini anti-influenzali e diversi altri vaccini (tutti quelli anti-malattia). Il vaccino è ora un totem ora un tabù nel dibattito pubblico. E non lo strumento, potentissimo ma ovviamente imperfetto come tutte le cose umane, che è.
Come nella fisica del moto anche nella fisica sociale l’inerzia è un elemento chiave per capire la dinamica dei fenomeni. Lo stiamo constatando di fronte alle informazioni messe a nostra disposizione sulla variante Omicron, che sono ancora frammentarie e incomplete, ma che non preannunciano l’Armageddon di cui abbiamo letto e ascoltato. Nel dubbio, i governi hanno scelto una qualche versione del principio di precauzione. Da noi è entrato in vigore il cosiddetto “super Green Pass”, il Portogallo ha accresciuto le restrizioni (nonostante l’altissimo tasso di vaccinati), in Austria si annuncia un obbligo vaccinale con sanzioni draconiane a partire da febbraio. Conculcare le libertà personali e punire per il mero gusto di punire deve premiare remote aree nel cervello di certi politici e purtroppo anche in quello di una parte delle élite. Ma come in fisica, anche nel mondo sociale, l’inerzia non è un concetto semplice, come possiamo vedere entrando nel merito delle dinamiche che modulano le articolate risposte alle misure adottate sul piano governativo alla pandemia.
Anche in Svizzera, il 28 novembre il 63 per cento dei votanti si è detto favorevole, in un referendum, alla versione elvetica del pass vaccinale. La situazione vaccinale della Confederazione è complessa e partiva da un numero di esitanti molto alto. E’, per certi versi, sorprendente che un paese piccolo e così ricco non abbia saputo approvvigionarsi subito di vaccini e imbastire una campagna vaccinale più efficiente.
Vale la pena osservare che hanno votato contro due cantoni della Svizzera interna, ma convintamente a favore gli elettorati urbani. E’ una situazione ricorrente, in diversi paesi. Il cleavage politico città-campagna, le cui variazioni sul tema sono andate molto di moda per spiegare il populismo (anywhere-somewhere) viene utile anche per classificare l’atteggiamento verso i vaccini. I due gruppi, per quanto variegati e disomogenei possano essere, tendono a pensare che dalla loro parte sta la verità e dall’altra la menzogna, che essi sono nel giusto e che gli altri sono nel torto, gli uni e gli altri sono sicuri di difendere la Libertà, magari scritta con la maiuscola. Il problema è che essi si somigliano, e non solo per l’assertività.
Nella silhouette emersa negli ultimi anni, la campagna (i somewhere) sarebbero incapaci di comprendere il cambiamento sociale, tendenzialmente razzisti o xenofobi, scettici rispetto alla globalizzazione, fieramente introflessi e tradizionalisti. La città al contrario abbraccerebbe con entusiasmo il cambiamento sociale prima ancora che quello tecnologico, sarebbe cosmopolita, aperta al mondo e, oggi, fiduciosa nella scienza.
Ad ogni modo, le radici dei populisti tendono ad affondare nelle campagne, mentre gli antipopulisti respirano l’aria delle città e leggono l’Economist. Lo stesso concetto di radici appare anacronistico ai secondi, agli occhi dei primi è la prova di un progetto, per l’appunto, di sradicamento.
Negli ultimi mesi, gli stessi due gruppi si sarebbero dati battaglia sui vaccini dopo aver prima incrociato le spade sui lockdown e le altre misure di contrasto alla pandemia. Con esiti paradossali, però. Non stupisce che gli anywhere traggano un potente beneficio psicologico dal pensare di confidare “nella scienza”, e nemmeno che i somewhere arrabattino teorie pseudoscientifiche. Sorprende invece che la città (continuiamo a usare, per comodità, una categoria inevitabilmente imperfetta e sdrucciolevole) abbia trovato più conforto nelle chiusure di quanto non sia avvenuto per la campagna. Peraltro, chi vive nelle campagne, meno densamente abitate, è meno a rischio di contagio, rispetto alla città, per cui gli schieramenti traggono un certo rafforzamento empirico anche della diversa esperienza diretta del pericolo.
A dispetto del loro cosmopolitismo orgoglioso, gli anywhere hanno detto poco o nulla innanzi alle restrizioni della libertà di movimento cui tutti siamo stati sottoposti. Tipicamente insofferenti dei confini, hanno visto Schengen cadere a pezzi senza proferir parola e in Italia hanno preso atto senza problemi del fatto che le Regioni hanno confini, che se il governo lo desidera possono diventare tanto concreti quanto quelli degli Stati. In questo contesto, i somewhere hanno almeno tentato di alzare la voce ma, nel loro caso, le tessere del domino sono cadute nell’altra direzione.
In Italia, abbiamo avuto un movimento NoVax che ha messo assieme, come neanche nei giorni migliori del Sessantotto, i portuali di Trieste e alcuni dei più noti filosofi del paese. Questi ultimi, però, non si sono limitati a notare che il Green Pass, a tutti gli effetti un lasciapassare, rappresentava un meccanismo di controllo della vita degli individui e in quanto tale esigeva una vigilanza attiva da parte dei cittadini. Si sono invece inalberati in discorsi sconclusionati sull’efficacia dei vaccini (andando regolarmente a sbattere contro la statistica e l’immunologia), sul loro sviluppo in tempo eccessivamente rapido (come se un possibile snellimento delle norme che governano i trial clinici non fosse una delle più significative eredità positive del Covid), sulla loro stessa natura (il NoVax autentico parla di “siero”, le parole portano seco anche una magia nera). Come sempre, in politica, il messaggio non è qualcosa che arriva dal leader al seguace ma è l’esito di una negoziazione, più o meno aperta, fra i due. Io ti seguo perché dici qualcosa che mi convince, ma anche tu devi dire qualcosa che mi convince per farti seguire.
Tanto un gruppo quanto l’altro, insomma, rifiuta le regole della società aperta e finisce per vederla come un impedimento alla gestione di una situazione di crisi, non come una risorsa. Gli argomenti non sono nuovi. Da una parte c’è l’idea che la libertà sia “ingestibile” perché, in questo caso specifico, vettore di contagio. Gli individui lasciati a se stessi sono palline da flipper impazzite e non sanno lavorare per il bene comune. Dall’altra c’è l’idea che la società aperta sia organizzata attraverso una serie di protocolli truffaldini. Dietro i vaccini c’è il movente del profitto delle industrie farmaceutiche, dietro le autorità di regolazione i loro manutengoli, pronti a brigare per inoculare un “siero” malefico a intere popolazioni.
Entrambi i gruppi rifiutano, pur con parole e sfumature diverse, quella che è stata la grande scoperta di Adam Smith: che, cioè, il motivo dell’autointeresse è uno strumento di cooperazione, non di disgregazione sociale. Che esso non esalta l’egoismo del singolo: al contrario, lo disinnesca. Col macellaio e col birraio parliamo del loro interesse, gli offriamo dei quattrini in cambio delle loro merci. A loro volta, essi ci forniscono i loro servizi. In un caso e nell’altro, non ci derubiamo a vicenda ma diamo l’uno all’altro ciò che rispettivamente desideriamo. Invece i somewhere vedono nel motivo del profitto il filo rosso che lega tutti i complotti della società, gli anywhere nell’autointeresse del singolo la dinamite che innesca le deflagrazioni pandemiche.
Stiamo osservando l’eclissi della razionalità. Vediamo ogni giorno riemergere nei pensieri e nelle scelte o ragionamenti di politici ed esperti quegli aspetti della psicologia umana che traggono linfa dal pregiudizio intuitivo secondo cui le società chiuse sarebbero più sicure. E’ uno scenario che spaventa, e dovrebbe spaventare chiunque pensi che la libertà individuale andrebbe protetta quanto più possibile da derive autoritarie.
L’International Institute for Democracy and Electoral Assistance ha pubblicato in questi giorni uno studio da cui si evince che il mondo sta diventando più autoritario, con i regimi non democratici che sono sempre più sfacciati nella loro repressione e parallelamente governi democratici che regrediscono adottando tattiche di restrizione della libertà di parola e di indebolimento dello stato di diritto, esacerbate dall’idea che in presenza di Covid-19 le restrizioni della libertà individuale siano “normali”. Un certo numero di paesi democratici ha attuato misure anti-Covid che, scrive il rapporto, “erano sproporzionate, illegali, indefinite o non collegate alla natura dell’emergenza”. Queste includono restrizioni di viaggio e l’uso di “poteri di emergenza che a volte hanno messo in disparte i parlamenti”.
L’unica arma che funziona, contro il nuovo Coronavirus, sono e restano i vaccini. Questi ultimi sono un prodotto della società aperta. Sono frutto dell’articolata e complessa architettura della ricerca, basata su collaborazioni fra università, enti pubblici e imprese private. Sono l’esito di ricerche applicate che si sono svolte in seno a imprese private, o a spin off di università pubbliche destinati a diventarlo. Sono state “finanziate” dal principale Stato del mondo libero, gli Stati Uniti, che non ha fatto “politica industriale” sui vaccini ma si è contentato di fare il banchiere, con un sostegno ex ante alla ricerca di circa 10 miliardi, che è una goccia nel mare (e quella che meglio ha fatto) dell’enorme spesa pubblica pandemica.
I vaccini inducono una difesa automatica rispetto alla malattia che può causare l’incontro con Sars-Cov-2. Il bello è precisamente che è automatica e inconsapevole, cioè che non si tratta di un “sacrificio”: non influenza lo stile di vita del singolo e non necessita l’adesione a precetti circa comportamenti ammissibili e no.
Proprio per questo, i vaccini risultano inconcepibili, sia ai somewhere che agli anywhere. Per questi ultimi la campagna di vaccinazione è diventata una faccenda morale. E’ stato chiesto alle persone di “vaccinarsi per gli altri”.
Gli agenti patogeni sono stati a lungo un ostacolo alla possibilità di aprirsi delle società umane. I nostri antenati si sono evoluti in gruppi o bande di individui largamente imparentati, che non avevano una simpatia spontanea verso gli stranieri. Gli scambi commerciali erano l’unico mezzo attraverso il quale si trasferivano un po’ di esperienze tra estranei, ma con prudenza perché gli stranieri erano pericolosi o in quanto predatori a caccia di donne e altri bottini o perché portatori di nuove malattie. Le ricerche su scala storico-globale mostrano che il livello di presenza di parassiti nelle società è correlato con la presenza di religioni integraliste, con politiche collettiviste e autoritarie. Ovvero con assetti sociali nei quali qualcuno dà degli ordini a tutti gli altri. Per contro quelle società nelle quali le persone obbediscono a norme astratte e uniformemente applicabili, ma non ad ordini arbitrari e continuamente cangianti del potere politico, tendono ad avere scarso o nullo indice parassitario. Una correlazione ingannevole, cioè senza relazioni causali? Forse no. Siccome servono molte generazioni alla selezione naturale per trovare una resistenza genetica contro un patogeno, è ragionevole pensare che sull’impianto della nostra psicologia innata si siano selezionate disposizioni comportamentali e tratti culturali che in presenza dei patogeni favoriscono la chiusura delle società. Queste disposizioni sono state chiamate “sistema immunitario comportamentale” e servono appunto a ridurre la circolazione e l’impatto dei patogeni, rendendoci avversi ad alcune forme di libertà.
La progressiva scomparsa, grazie alle scienze e al progresso economico e medico, dei parassiti dai nostri ecosistemi moderni – basta dare un occhio al declino esponenziale della mortalità infantile o del carico sanitario dovuto alle malattie infettive nel mondo occidentale per capire cosa è accaduto – ha consentito il fiorire della libertà individuale. Ed è stato in ragione della diffusione e del potenziamento cognitivo e morale della libertà individuale consentito dalla riduzione delle minacce parassitarie – nel contesto dell’economia di mercato e dello stato di diritto – che le nostre società si sono decisamente aperte, nel senso che ci ha spiegato Karl Popper, e hanno vissuto una stagione di progresso anche materiale senza precedenti.
Chi dice che la libertà non è una priorità in questo frangente, che le democrazie possono limitare qualche libertà come quella di movimento o di espressione o che a lui “non importa niente della libertà” (così un noto opinion maker pandemico, in un illuminante inciso televisivo), parla senza pensare. Non ha capito che se sono disponibili piattaforme avanzate per fare i vaccini lo si deve a società aperte dove possiamo studiare l’efficacia e la sicurezza dei vaccini che ci stanno salvando la vita in modo trasparente. Fregarsene della libertà implica fregarsene del fatto che la produttività scientifica nel corso dei due anni di pandemia è drammaticamente crollata. Un recente studio pubblicato su Nature rileva che la chiusura dei laboratori e la ridotta circolazione degli scienziati ha rallentato la macchina della ricerca.
Le società aperte non solo non obbediscono agli ordini. Non si reggono neppure sui sacrifici e non è con la retorica dei sacrifici che sono diventate le società più prospere che noi conosciamo. La divisione del lavoro così articolata e complessa che osserviamo nel mondo di oggi non è frutto di un piano, bensì di interazioni fra esseri umani che non necessariamente perseguono un progetto comune. Ciascuno prova a migliorare la propria situazione ma, per farlo, è messo dalla società nella condizione di scambiare/commerciare e comunicare senza timori di sanzioni e censure. Un sistema di regole astratte e generalmente applicabili (che, nel caso più auspicabile, non guardano in faccia a nessuno e considerano tutti alla stessa maniera) non “governa” questi processi ma li rende possibili.
I risultati non sono mancati. La maggior parte della riduzione della mortalità è stata sperimentata solo dalle ultime quattro delle circa 10-12.000 generazioni di Homo sapiens. L’aspettativa di vita media nel mondo era di trentuno anni nel 1900. Oggi è di settantuno anni.
All’inizio del Diciannovesimo secolo, i tassi di povertà anche nei paesi più ricchi erano più alti di quelli che si osservano oggi nei Paesi poveri. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia, circa il 40-50 per cento della popolazione viveva in quella che oggi chiamiamo povertà estrema, cioè con un reddito pro capite paragonabile a quello dell’Africa subsahariana.
Se adottiamo la soglia di 2 dollari al giorno per la povertà estrema, aggiustata per il potere d’acquisto nel 1985, il 94 per cento della popolazione mondiale viveva in estrema povertà nel 1820, l’82 per cento nel 1910 e il 72 per cento nel 1950. Oggi è meno del 10 per cento e la popolazione mondiale è circa sette volte quella che era nel 1820 e due volte e mezza quella che era nel 1950.
I cambiamenti che sono sopravvenuti negli ultimi 250 anni sono in buona sostanza l’esito dell’evoluzione verso società più aperte: quell’evoluzione che poi viene concettualizzata (e raffinata a livello intellettuale) nelle dottrine liberali. Il problema è che la velocità di questo cambiamento ha spiazzato le nostre intuizioni e aspettative innate, che rimangono legate a modelli autoritari, quali quelli che abbiamo conosciuto per la più parte del nostro passato evolutivo: sia quando eravamo cacciatori-raccoglitori, e l’esito della caccia e del raccolto veniva fatto in parti uguali ma sotto la direzione di un capo, sia nelle prime società agricole, che hanno stimolato un forte consolidamento del potere politico. I biologi evoluzionisti parlano di mismatch.
L’idea che una società possa vivere senza che ci sia un centro di potere che dirige il traffico (che è poi il succo della scommessa liberale) ci riesce incomprensibile, indipendentemente dai benefici di cui godiamo. Adam Smith aveva capito che la divisione del lavoro dipende da una nostra “propensione” a scambiare. Società fondate su forme più complesse di divisione del lavoro dipendono quindi dall’autointeresse che porta a cercare di migliorare la propria situazione e non da un progetto consapevole. Questa è la forza e la debolezza delle società libere assieme. Non serve un libretto di istruzioni, ma nello stesso tempo non c’è una comprensione chiara e autentica di cosa abbia prodotto il nostro benessere.
Negli anni Novanta, in Italia un certo numero di intellettuali e politici provenienti dal Pci si convertirono, all’apparenza con entusiasmo, alle idee liberali e al libero mercato. Con la crisi del 2007-2008, però, essi tornarono repentinamente alle posizioni della loro gioventù, riverniciate all’uso corrente, per esempio invocando lo “Stato imprenditore”. La loro condizione è un po’ quella di noi tutti. Accettiamo le istituzioni liberali solo quando è tremendamente evidente la loro superiorità nel produrre ricchezza, ma alla prima minaccia le abbandoniamo, sulla base di un istinto che ci fa identificare sicurezza e leadership, a vantaggio degli imprenditori politici più spregiudicati. Purtroppo questo ci porta a non capire che forse proprio le pur imperfette società liberali possono cavarsela meglio di altre anche nelle crisi; che esse ci hanno portato a fare evolvere una serie di strumenti e istituzioni che non perdono senso sotto scacco della minaccia pandemica, per esempio.
generazione ansiosa