La felicità mi tormenta
Il tempo pieno dei figli piccoli si assottiglia, e il soffocamento si trasforma in una specie di vuoto: non sono più la madre bersaglio di tutte le palline e di tutti i baci. Alla ricerca di una nuova identità, con molta nostalgia per il mondo perduto
Certe sere torno a casa e mia figlia non c’è: è uscita, è da un’amica, tornerà o non tornerà a dormire, e comunque l’anno prossimo andrà a scuola a Dublino, sempre che a giugno venga promossa. Le ho detto che quindi farò il mio studio nella sua stanza, e che finalmente avrò un armadio, lei ci ha pensato un attimo e ha detto che sì, è meglio, perché comunque non sa per quanto tempo tornerà a casa prima di andare via del tutto. Ma io stavo scherzando, ho pensato. Forse stai scherzando anche tu, ho sperato.
L’ho guardata ed era seria, non solenne ma seria, normale, molto presa dai suoi capelli che non stanno più gonfi da un lato e che quindi sono un grosso problema, molto scontenta di un ciuffo che è cresciuto sbagliato e che rischia di rovinarle tutta la faccia e dunque la vita. Sofi, Gaia, Giorgia, Irene, Arianna, correte a salvare quel ciuffo, correte a occuparvi delle cose importanti. Di solito il richiamo finisce con: sorè. Sorè non sono io, mi è piuttosto chiaro, anche se a volte lei chiama sorè pure il fratello. Sorè, cioè no fratè, chiudi la porta non mi scocciare non ti scrocchiare le dita, non mangiare in quel modo, ma come ti sei vestito, ma cosa guardi, cosa ascolti, dai fratè mi metti ansia.
Fino a poche sere fa le cose importanti e quelle sceme di tutto il giorno e tutti i giorni e tutti i minuti stavano addosso a me, mi travolgevano, mi soffocavano, sempre ad alta intensità, o forse io non mi ero ancora accorta che a poco a poco cominciavano a non starmi addosso più. Non mi ero accorta che avevo ricominciato a respirare, o che qualcosa di fortissimo mi stava abbandonando. Non mi ero accorta del tempo che passa e che non lascia mai le cose uguali troppo a lungo.
Se guardo indietro, vedo soltanto un tempo pienissimo in cui dicevo, anche con un po’ di compiacimento: fatemi spazio. Dicevo, anche piuttosto seria: non ne posso più. Dicevo: ma quest’anno non c’è la gita scolastica di 5 giorni? Ma perché non fate i ritiri degli scout? Perché non siamo negli scout, rispondevano loro. Ok, avete ragione, però gli scout sono una bella cosa. Dicevo: se solo potessi stare un po’ da sola. Non tanto, ma un po’. Sei mesi. Un anno. Due giorni al mese. Quante cose potrei fare, quanto tempo guadagnato, quanta comodità su questo divano. Quando smetterò di sentirmi in colpa se non resto ogni sera a casa con loro? pensavo dentro quello spazio pienissimo e traboccante di tutto moltiplicato per mille. Mai, mi rispondevo, senza rendermi conto della presunzione di quel mai. E infatti è arrivato il giorno in cui non c’è nessuna colpa, nessun dolore: c’è tutta una sterminata libertà (apparente) e non saper che farci. Sono loro a dire: mamma, mi dispiace, stasera non posso. Stasera non posso. Stasera non posso. E neanche domani posso. Forse dopodomani, ma poi tanto all’ultimo momento c’è l’emergenza del ciuffo che va piastrato per otto ore dopo sette ore di shampoo, o della versione di greco da copiare, o di Irene che ha litigato col fidanzato, o della serie bomba da farsi in vena tutta di fila fino all’alba però da sola, o dell’occupazione che bisogna andare, farsi vedere e tornare e però fratè mi metti ansia. Passare del tempo con le madri non rientra tra le faccende non rimandabili. E’ giustissimo, è tutto quello in cui credo, vai figlia mia, gettati nel mondo, manda solo un whatsapp per dire tutto ok qui nel mondo, tranne questi capelli di merda. Era tutto previsto, anche desiderato e aspettato (quando imparate a cucinarvi almeno i wurstel, almeno una pizza surgelata, quando imparate ad aprire la porta di casa con la chiave?, quando andate dal dentista da soli?).
Tranne questa piccola questione di chi sono io adesso. Avevo allora, in quel tempo pienissimo, un’identità piuttosto certa, a volte esasperata e riconoscibile anche dall’esterno, anche un cliché da combattere, ma negli stereotipi c’è sempre una verità: madre di figli piccoli che non ha voglia di stare nelle chat di classe e non ha voglia di parlare di teatro di burattini (bellissimo per carità) e che invece ha voglia di sfondare le vetrine di tutti i cinema per vedere tutti i film e poi ha voglia di sfondare tutte le porte di tutte le case e di tutti i posti in cui siano in corso conversazioni fighissime su cose fantastiche, e poi ha voglia di tornare a casa di corsa ad abbracciare questi bambini stupendi che dormono abbracciati a un cane o a un gatto o a un pupazzo e pensare: che immensità, e che sonno. E poi avere voglia di ricominciare e anche di nascondersi dietro queste guance paffute, quelle ore al parco su e giù dallo scivolo con il cervello in manette che solo adesso capisco quanto erano magiche e forti. Il problema è che io non sono più quella di quindici anni fa, quella che diceva: fatemi spazio. Non siete più quelli di vent’anni fa, nessuno lo è. Non avevo considerato che, mentre loro crescono e vanno dove devono andare, cresco anche io, cioè non cresco ma cambio ritmo, mi volto. Non vado più nella stessa direzione a testa bassa. Non ho più gli stessi desideri. Anche questa faccenda del vuoto, ma che me ne importa del vuoto? Penso alle volte in cui sono uscita la sera lasciandoli sul tappeto a giocare e a tendermi le braccia, ero sicura che fosse straziante ma giusto: adesso so soltanto che non succederà più che mi tendano le braccia dal tappeto, e a quella cena mi sono di sicuro annoiata a morte, ho mangiato male, ho bevuto troppo, ho detto rivediamoci presto pensando a mai più. Per consolarmi provo allora a pensare alle cose che non ho fatto, a tutto quello che non ho scelto, a quella pienezza che mi strozzava e mi faceva perdere pezzi di me, provo a pensare alle opportunità che non ho colto.
Non mi ricordo niente, non mi viene in mente niente, in fondo io non ho mai perso niente. Mi ricordo solo che loro avevano delle vocine di cristallo e io stavo sdraiata per terra a guardare i cartoni animati e facevamo la gara di chi riusciva a stare in piedi sulle mie ginocchia senza mani e senza cadere. Mi ricordo solo che tutto quello che importava era stare appiccicati, e tutto lo strazio per loro era nel non stare abbastanza appiccicati e per me era provocare quello strazio. Mi ricordo che accompagnavo alla scuola materna mia figlia per mano, e dentro il marsupio avevo suo fratello che cominciava a guardare il mondo e voleva guardarlo abbracciato a me: subito prima di uscire diceva una parola, credo la sua prima parola, che significava: mamma, usciamo, e io non so come ho potuto, ma mi sono dimenticata quella parola stupenda di poche lettere, l’ho perduta, ma non ho scordato il peso dolcissimo di lui dentro il marsupio, tutto felice e con la testa profumata di qualcosa di ultraterreno che hanno solo i bambini di quell’età. Camminavo veloce con lui addosso, rispondevo alla bimba buonissima che mi chiedeva il colore di tutte le automobili e il colore di tutti i piccioni e pensavo: devo fare presto, devo vivere, lasciatemi vivere, che strazio. Adesso invece dove lo metto lo strazio? Adesso cerco una parola per definire questa nuova fase della vita famigliare (ma soprattutto la fase di questa mia vita personale) in cui il pieno si assottiglia ogni giorno un altro po’ e questo paesaggio più vuoto non mi è ancora molto chiaro. Forse non c’è mai niente di chiaro mentre lo si sta vivendo. Ma quali sono i propositi adesso, che cosa si fa. Dove è meglio andare. Cosa ho sbagliato, perché di certo ho sbagliato. Qual è l’identità che devo indossare adesso, qual è il cliché a cui posso aggrapparmi. Madre di figli cresciuti che li implora di guardare un film insieme e loro però non hanno tempo, ma comunque ancora la consultano su alcune cose tipo i soldi e i brutti voti a scuola e le cose da firmare e il fatto che con dei capelli così non si può vivere. E’ così banale adesso, è tutto qui? Certo che non è tutto qui. Ma non avevo mai preso in considerazione la possibilità che qualcosa finisse e che l’oggetto d’amore e di soffocamento e il bersaglio di tutte le palline e di tutti i baci non fossi più io. E invece qualcosa è finito, ma a volte le palline me le tirano ancora addosso.
Quanti anni ha tua figlia? Due anni e mezzo. Ah ma che cosa pazzesca, stupenda, chissà che fatica, che bello, ma come fai, wow. Quanti anni ha tua figlia? Quindici. Ah ok, ciao, non è interessante. Al massimo qualcuno dice: ti farà vedere i sorci verdi. Per la verità, no, non li ho mai visti i sorci verdi, neanche per altri motivi, però da bambina avevo un gatto verde. Mi chiedo anche che cosa desiderassi tanto, allora, nello spazio tutto pieno, che mi sembrava di non avere? Non mi accorgevo della forza sprigionata da quelle giornate, del privilegio della salute e della giovinezza nelle sere passate a lanciare duecento volte la stessa balena azzurra, e tutti i pranzi e le cene in cui per mangiare bisognava riguardare Nemo fino allo stremo delle forze, cioè fino a notte perché comunque lei teneva tutto in bocca e le si gonfiavano le guance e a me sembrava un gigantesco disastro ma non lo era. Niente era un disastro, in effetti. E poi raccontare una favola, darsi mille buonenotti con una filastrocca speciale in cui si scacciavano gli incubi: buonanotte, sogni d’oro, sogni belli tutti in coro, sogni brutti tutti giù, andate via non tornate più. Adesso lei parla con me di cose importanti, e anche questo è un grande privilegio, mi spiega quello che non ho capito del mondo che si muove e non si lascia sfuggire neanche un mio errore. Di disattenzione, di egoismo, di nervosismo, di superficialità, di permalosità. Mi ha detto anche che si vede molto quando qualcuno mi sta antipatico, e che non dovrei fare quelle facce. Ma quali facce? Lei dice che sorrido, ma mentre sorrido mi si stringe un occhio, uno solo, che significa: diomio però. Ho detto che non è assolutamente vero, ma mio figlio si rotolava per terra dal ridere urlando è vero, e tutti si rotolavano urlando è vero. Forse è questa, la nuova identità: imparare qualcosa, fare più attenzione, non barare perché barare non si può più.
E se penso a quello che ho guadagnato dal cambiamento, dal passaggio del tempo, una cosa importante c’è: non vomitano più in macchina. E’ una grande liberazione, non doversi fermare nelle piazzole di emergenza, non dover portare le magliette di ricambio, i pantaloni, le salviette umide, le bottiglie d’acqua. Purtroppo ora, evidentemente per una maledizione, c’è il cane che vomita in macchina. Anche a digiuno. Ma un altro guadagno del tempo che passa è che mia figlia gli ha insegnato a usare il sacchetto. Lui fa una faccia e lei gli mette davanti il sacchetto. E’ una cosa stupenda, che mi rende molto orgogliosa di tutti loro. Vorrei pensare che è un po’ anche merito mio, ma già mi si stringe un occhio. Perché se lei va a Dublino, chi lo terrà il sacchetto al cane?
I guardiani del bene presunto