il natale dei conservatori
La destra "presepista" della Meloni in modalità Oswald Spengler non ha nulla di liberale
Il simbolo di Atreju è stato il presepe, in contrapposizione ai regolamenti dell'Ue inclusiva e all’influencer travestito da Madonna barbuta. Lo scontro con gli "alberisti" che rivela un'ispirazione da Rivoluzione conservatrice (e non basta Scruton per nasconderlo)
Il “pantano” parlamentare su cui drizzare il presidente patriota, il pensiero unico “dilagante”, la “melassa” globalista e la società “liquida” da cui difendersi con l’armatura di identità solide: a prestare attenzione soltanto all’ordito metaforico, il discorso di Atreju è stato una variazione su alcuni motivi classici dell’immaginario dell’estrema destra studiati da Klaus Theweleit in un libro stravagante ma profondo, Fantasie virili, pubblicato nell’anno di nascita di Giorgia Meloni, il 1977. Un intero capitolo era dedicato alle metafore della dissoluzione come la melma, la palude, la mucillagine, la poltiglia, minacce contro cui le armi possono poco, e da cui ci si protegge temprando un’interiorità inespugnabile.
Forse sto leggendo troppo in filigrana – con l’inchiostro antipatico, per così dire. Risalendo in superficie, tuttavia, e concentrandosi sulla sola lettera del discorso, non è che le cose cambino molto. Meloni ha scelto di issare la bandiera del conservatorismo, novità non irrilevante per la storia italiana su cui i politologi si stanno concentrando da giorni, ma ha anche detto che “oggi non c’è niente di più rivoluzionario di definirsi conservatori”. E quelle due parole, messe l’una accanto all’altra, dicono qualcosa di più sul tipo di conservatorismo che ha in mente Giorgia Meloni. Ma immergiamoci di nuovo oltre la lettera, senza scendere stavolta fino ai fondali elusivi dove si pescano inconsapevolmente le metafore, e fermandoci a osservare quelle creature anfibie, né tutte piantate sulla terraferma della razionalità né tutte fluttuanti nell’immaginario, che sono i simboli.
Il simbolo centrale di Atreju è stato il presepe, e precisamente il presepe vivente, “perché vogliamo dire che quelle tradizioni sono vive e vivranno con noi”, in contrapposizione ai regolamenti della burocrazia europea inclusiva e all’influencer travestito da Madonna barbuta. Non è un simbolo nuovo, per Giorgia Meloni. Il 14 dicembre 2017 aveva annunciato, in un video molto satireggiato: “Da quest’anno, da alberista divento presepista”. Diceva di voler lanciare la “rivoluzione del presepe”, una rivoluzione di pastorelli che immagino chissà perché come una marcia di hobbit verso le fucine industriali di Mordor con i suoi orchi-schiavi e contro l’impero tenebroso di Sauron-Soros. Com’è noto, la grande divisione tra alberisti e presepisti si deve a Luciano De Crescenzo e a un libro anch’esso del 1977, Così parlo Bellavista. Ecco la sua formulazione: “La suddivisione in presepisti ed alberisti è tanto importante che, secondo me, dovrebbe comparire sui documenti d’identità come il sesso ed il gruppo sanguigno”, diceva il filosofo. “Adesso sembra che io esageri, eppure è così: l’alberista si serve per vivere di una scala di valori completamente diversa da quella del presepista. Il primo tiene in gran conto la Forma, il Denaro e il Potere; il secondo invece pone ai primi posti l’Amore e la Poesia”.
Per Bellavista era una variazione sentimentale sul dualismo Milano-Napoli, ma Meloni ne ha fatta una versione casalinga, appena mascherata ma chiaramente riconoscibile, della grande dicotomia su cui si è retto tutto il pensiero conservatore tedesco dall’Ottocento in poi, quella tra i valori spirituali e tradizionali della Kultur e gli pseudovalori degradati della Zivilisation industriale, capitalistica, cosmopolitica e democratica. Una linea di faglia che dai romantici arriva a Oswald Spengler e ai teorici, appunto, della Rivoluzione conservatrice degli anni di Weimar. “Noi rischieremo quel che c’è da rischiare per salvare la nostra civiltà”, ha detto Meloni in modalità Tramonto dell’Occidente.
Se Berlusconi è stato, almeno a chiacchiere, l’esponente di una destra “alberista” – negli stessi giorni in cui Meloni lanciava la rivoluzione del presepe lui ripropose il suo Albero della Libertà, “disegnato in una notte insonne” (sic) – la nuova destra “presepista” sta tagliando gli ultimi legami simbolici con la tradizione liberale e liberalconservatrice, e non basta veder comparire a caso nel discorso qualche frase del pastorello Roger Scruton per attenuare questa impressione. Si obietterà che il presepe di Giorgia Meloni non è ancora finito. “Ma pure quand’è finito nun me piace”, diciamo qui a Natale in casa Vitiello.
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