Dal Quirinale ai cinepanettoni
Personaggi e interpreti del grande presepe italiano
Il leggendario decreto “Ristori” evocava un po' il Foscolo e un po' Elisa di Rivombrosa. Oggi i virologi cantano e consigliano come stare a tavola
Natale ansioso, sgangherato, scombinato, senza Dpcm ma con i Re Magi viventi di Giorgia Meloni. I film delle feste passano dalla sala al salotto: i Ferragnez e i ricconi di “Succession”
Il primo Natale col “booster”, ai figli degli anni Ottanta evocherà soprattutto uno scooter molto ambìto da chi era adolescente dell’epoca, ma oggi invece richiama il grande Natale dell’incertezza. Cene, pranzi, veglioni e tombolate tra parenti amici e familiari, purché vaccinati e tamponati (i no-vax facciano il loro Natale alternativo), però senza nessuna garanzia governativa. S’agita lo spettro della “cena con Omicron”, come a Oslo, qualche giorno fa (150 invitati, tutti contagiati da un positivo). Si prendono precauzioni: “In casa, meglio l’impiattamento che il buffet”, spiega Pregliasco al Tg1 (già pronto per la giuria di “Masterchef” o “Cortesie per gli ospiti”). Tutti liberi, ma a nostra discrezione.
Così il Natale resiste, come sempre, ma è un Natale ansioso, sgangherato, scombinato. Anche il Grande Natale, quello della vera tradizione, quello contro cui abbiamo sventato il colpo di Stato della perfida Unione europea e della sua alleata, la Cancel culture, non porta con sé quel calore di pacificazione, al contrario, esibisce simboli vagamente sinistri, presagi e maltempo (una “tripla perturbazione fino a lunedì”, dicono gli esperti). E non ci sono solo gli apostoli diventati improvvisamente 13 secondo un editoriale della domenica di Eugenio Scalfari: colpiscono altri segnali, altre immagini. Per esempio il presepe vivente organizzato da Giorgia Meloni a piazza Risorgimento a Roma, tra banchetti e stand di prodotti regionali, un po’ come quello di Salvini a Sabaudia due anni fa (che non gli portò molto bene). Il “Natale dei conservatori” di Giorgia Meloni ha visto sfilare tutti, da Letta a Violante, da Conte a Di Maio a Cartabia, tutti Re Magi in attesa che nasca il bambinello, il prossimo presidente della Repubblica, mentre lei, Giorgia, davanti a quella grotta artigianale, con dei figuranti vestiti da pastori, piazzata nel suo doppiopetto Gucci, sembrava una strana figura partorita dalla casa fiorentina. House of Giorgia.
Natale Quirinale
Per fortuna il già ribattezzato “Romanzo Quirinale” è l’unico gioco che appassiona e unisce la nazione tutta, è il “The Crown” che tiene sul fiato sospeso un intero paese (o forse i tifosi e gli interessati saranno molti meno del previsto, ma molto “vocali”, insomma come i No Vax?). Si fanno nomi, si bruciano nomi, si avanzano ipotesi, si ventilano retroscena come e meglio di un tombolone. Immancabilmente qualcuno grida “una donna al Quirinale”, sempre buttato lì, a un certo punto, per dare una scossa al dibattito, come quello che dice “ambo” quando si va per la cinquina. Ma questo è il momento più alto di un rito collettivo forse anche di purificazione, il grande momento di ammissione in cui l’Italia si dice in faccia che, in assenza di uno show business degno di questo nome, abbiamo la politica. Che ci importa dunque che Sorrentino sia entrato in short list per gli Oscar, quando c’è da fare il toto Quirinale (infatti la notizia che “La mano di Dio” si avvicina alla statuetta finisce a pagina trenta dei quotidiani, contro un prezioso virgolettato del sottosegretario sparato in “prima”, segno della confusione che da sempre si fa tra gestione della cosa pubblica e intrattenimento nel nostro paese). Ma ecco il romanzo: da una parte Draghi sembra finalmente aver accettato la sfida (“Nonno della Nazione”); dall’altra Mattarella non sa più come fare a lanciare segnali. Spariglia i giochi il Cav. che immediatamente scodella un bisnipote. La figlia di PierSilvio produce un erede ed egli diventa Bisnonno, della nazione of course.
Se gravidanza strategica è stata, va detto che c’è del genio: la dimensione da bisnonno, da antenato, potrebbe infatti garantire al Cav. quella statura allontanando finalmente il fantasma dell’amore libero e delle femmine, dei bunga bunga e delle notti infuocate. Nel frattempo Mattarella oltre a visionare personalmente immobili per il “dopo”, cogliendo stupìti inquilini che si ritrovano il capo dello stato in casa con planimetria in mano, non sa più come fare a dire che è stufo. Fa trapelare di aver fatto gli scatoloni, e inanella una “ultima occasione per farvi gli auguri”, a militari, ambasciatori, personale vario, insomma il messaggio non potrebbe essere più chiaro. E si attende l’ultimo, di messaggio, il discorso alla nazione di fine anno, da cui i più acuti quirinalisti sapranno sciogliere gli ultimi dubbi. Forse Mattarella si mostrerà con la homepage su Immobiliare.it ma comunque si seguirà il discorso col fiato sospeso e trattenuto dalle mascherine. “Cliff” alle prossime stagioni.
Dpcm blues
Intanto però qualcosa è cambiato. “Il lavoro è stato avviato”, ha detto Draghi nella conferenza stampa di fine anno mercoledì, “il mio destino non conta”, lasciando tutti un po’ con l’amaro in bocca perché è parso un addio. Dove andrà mai? Resterà? Andrà al Quirinale? E se abbiamo i bisnonni, c’è un altro padre della patria che se ne va? Siamo diventati adulti, dunque spetta a noi, senza lockdown, se scegliere, vedersi o no, se fare il molecolare o il faringeo, in farmacia o a domicilio (qui siamo grandi fan di quelli del Conad, sei euro e cinquanta, un paese di santi navigatori ecc. non dovrebbe avere grandi difficoltà a farselo). Certo poi non ti danno il certificato, e qui viene fuori la grande nostalgia del pezzo di carta, del certificato, e in questi giorni specificamente, il Dpcm blues.
Già, ve lo ricordate, era solo un anno fa, avevamo il governo non sovranista ma paternalista, col pezzo di carta che ti diceva come fare, chi potevi vedere e chi no (con grandi tormenti anche lessicali: chi erano infine davvero i congiunti?). E il leggendario decreto “Ristori” che evocava un po’ il Foscolo e un po’ Elisa di Rivombrosa. Erano i tempi della curva epidemiologica “subdola e repentina” (copyright Giuseppe Conte), ma anche del cenone alle cinque di mattina del ristoratore di Mestre perché a quell’ora il Dpcm accordava l’inizio dei bagordi. E sorge persino il dubbio che, nel paese della grande tradizione del modulo e del diploma, parte della rabbia contro il Green pass in versione normale e super dipenda dalle limitazioni non alla propria libertà ma alla propria creatività. Lo scarno qr code nella sua dimensione fredda e digitale è infatti un attentato all’estro compilatorio italiano. Tutto il contrario delle belle autocertificazioni (ve le ricordate?) da stampare e fotocopiare all’infinito, in cui si era liberi di spaziare, nella lingua lirica e ferroviaria della P.a., e il minimo era un “faceva rientro alla propria abitazione”, per dire: andava a casa.
Saltano fuori dalle tasche in questi giorni mentre si preparano i cappotti per i cenoni fatali, queste deliziose madeleine covidiche tutte stropicciate. Ci ricordano i treni presi e le finte corse al parco, quando ci si voleva podisti. Del resto, per pacificare la nazione, tra gli ultimi atti del suo mandato, Mattarella ha voluto provare in diretta la nuova anagrafe digitale, mentre la telecamera presidenziale zoomava rassicurante su una stampante, la vera macchina dei sogni italiana. Ma invece, adesso, improvvisamente, siamo così, abbandonati al libero arbitrio, senza neanche un pezzo di carta, sans papier, maledetto governo del banchiere centrale, che ci tratta da adulti.
Sì vax, No vax
Per fortuna ci sono i canti natalizi. Jingle Bells si era sentita in tutte le salse e le lingue. Mancava la versione sanitaria. Suona così benissimo questa “Sì-sì-vax”, con Crisanti, Pregliasco e Bassetti, un po’ Re Magi, un po’ Sinatra, Bing Crosby, Dean Martin. Tutti pronti per il karaoke in famiglia, dopo il pranzo o il cenone, mentre fuori nevica e Babbo Natale porta il “booster”. La virologia televisiva non sarà una scienza esatta ma compie l’ennesimo balzo in avanti. S’inseguono i fantasmi della vecchia tv pedagogia: Burioni fisso da Fazio come un nuovo maestro Manzi della democrazia sanitaria (non è mai troppo tardi per la terza dose). Il trio di virologi canterini come in uno sketch di “Canzonissima”, con Paolo Panelli e Walter Chiari, quando in quota “pensiero scientifico” in tv s’invitava al massimo Bernacca. La televisione si nutre dell’opposizione “sì vax/no vax”, come un nuovo bipolarismo imperfetto, la linea gotica che taglia in due la società italiana, anche se i dati parlano chiaro e gli ostili al vaccino sarebbero pochini. Ma che importa! Facciamo-finta-che. Dal “silenzio” di Mietta sul vaccino a “Ballando con le stelle” a un’edizione di “Domenica In” decimata dal Covid (“siamo rimasti in tre”, dice Mara Venier sconsolata e esausta), tutto un palinsesto sanificato.
Si vola invece con “Non è l’Arena” trasformata nella versione Cairo del bar di “Star Wars”, con mostri, freaks e creature dell’altro mondo: il medico stregone, la vicequestora senza green-pass, il dentista col braccio di silicone. Sono i nostri antieroi della Marvel, “No-Vax Infinity War”: il “lato oscuro del trattamento mediatico della pandemia” (come lo chiama Giuliano Ferrara). Personaggi incredibili e indubbio segno d’una creatività televisiva un tempo vanto esclusivo dei programmi di Barbara D’Urso e del suo carrozzone sgangherato, il “Ken umano”, l’uomo-fantasma (“Mark Caltagirone”, come dimenticarlo), o la donna con venti chili di tette e quella “barbuta” che sembrava il Mullah Baradar col rossetto. Ma i tempi cambiano.
La galassia “No vax” è il nuovo trash televisivo. Via Barbara D’Urso dentro medici santoni, omeopati, filosofi post-foucaultiani, guru dei media e vecchie glorie del cinema e del varietà (non vediamo l’ora d’un Agamben, un Cacciari, un Freccero ospiti a “Domenica Live”). Da settembre in poi, fino a questo Natale, tutto un dibattito sull’etica e la morale dei talk-show. Dubbi iperbolici sull’inclusione di un “punto di vista No vax” in trasmissione: sì, no, forse, a certe condizioni. Quali? Boh. Ma l’opzione No vax, si capisce, è l’ingrediente in più. L’effetto speciale. Il “richiamo”. Perché “più il talk è brutto, più la tv è bella” (Aldo Grasso). Perché la televisione non si fa col fact-checking (pensa che palle). La televisione si fa così, come si deve, come si può, e poi basta saperla guardare.
Ecco, per esempio, una rissa da manuale, very old-fashioned, a “Cartabianca”. Quasi una rievocazione delle sfuriate del giovane Sgarbi al Costanzo Show, ma in versione “biopolitique”. Scanzi e Alberto Contri si scambiano insulti come nel peggiore wrestling televisivo, e lo share, guarda un po’, s’impenna. Non è difficile immaginare gli autori del programma, poveretti, alle prese col solito problema: dopo anni di siparietti tra Bianca Berlinguer e Corona, “che se ‘nvetamo?”. La soluzione è sempre quella. Scanzi utilizzato in chiave “illuminista”, testimonial del pensiero scientifico e razionale (e questo è il dramma); Alberto Contri, insigne studioso di Marshall McLuhan, reinventatosi sciamano no-vax.
E poi lunghi sermoni dei nostri conduttori sul “pluralismo dell’informazione”, sulla “fetta di società italiana” ostile al vaccino di cui però tenere conto anche in tv per la dialettica dei punti di vista, eccetera. Basterebbe il sempiterno, immortale, longanesiano: “tengo famiglia”. Infine, quando i virologi sono ormai scappati dalla stalla, il monito di Mario Monti: un po’ di censura contro gli sfessati non farebbe male. Segue Mattarella, ma è appunto troppo tardi. Qualcuno ricorda sempre che ci vorrebbe un dottor Fauci italiano, uno speaker unico (già, ma poi interi canali televisivi fallirebbero. Non si interrompe un’emozione). O forse un ritorno del monopolio di Stato per la tv sanitaria. Chissà. Qualcun altro evoca una conferenza stampa quotidiana di Piero Angela, come i vespri della sera o la messa del mattino.
Le docu-serie, i nuovi cinepanettoni
Prima a Natale c’erano i cinepanettoni. Poi Checco Zalone. Boldi, De Sica, “Natale a”, i pop-corn da sgranocchiare al buio dopo un’abbuffata di tortellini in brodo. Ma il salotto è ormai il nuovo cinema, e il film di Natale una “docu-serie”. Tanti piccoli cinepanettoni domestici: “The Ferragnez”; “Vita da Carlo”; “Get Back” sull’estenuante estasi creativa dei Beatles, o ancora l’animazione esistenzialista di ZeroCalcare. Da vedere o rivedere sbracati sul divano, facendo zapping tra Amazon, Disney Plus, Netflix. La sala offre Gucci, Spider-Man, Diabolik, la strana coppia Spielberg-Bernstein. C’è stata una settimana di Sorrentino (ormai scaduta), persino un “Harry Potter” rimesso in circolazione vent’anni dopo e ancora primo al box-office. Sarà l’effetto-Rowling? Una chiamata alle armi per resistere al politicamente corretto e alla cancel culture? Se il populismo è un nuovo “sessantotto di destra”, Harry Potter è ormai il nostro Marcuse.
Come “cinepanettoni nell’epoca dello streaming”, “The Ferragnez” e Zerocalcare si assomigliano in effetti parecchio. Perfetti nella loro specularità: La Milano glamour e la Roma centrosocializzata; Citylife e Rebibbia; lo slang superlativo e instagrammabile e il romanesco zoppicante, intimista, biascicato. E poi il culto dei soldi e del successo, e la coscienza inquieta dell’anticapitalismo a fumetti. Fedez, ostaggio del matriarcato milanese, starebbe anche meglio seduto sul divano di Zerocalcare (maschi bianchi, privilegiati, con la felpa col cappuccio, che parlano con l’Armadillo). Sono del resto l’ennesima reprise delle nostre “maschere” più ancestrali, il romano e il milanese; Fedez e Zerocalcare come Busacca e Iacovacci ne “La grande guerra” (che magnifico remake!). Ma questa seria e questa docu-serie stanno bene insieme soprattutto per il medesimo, euforico annientamento della lingua italiana. Un’aggressione quasi gaddiana, sperimentale, violenta: l’idioma coatto e fancazzista dell’atarassia romana; il “presobenismo” dopato di marketing e “eventi” della neolingua dei Ferragnez. Due serie sul trionfo delle nostre piccole “bolle linguistiche”. Sul disfacimento dell’italiano (ammesso sia mai esistito). Sull’idea che fuori dalle nostre comfort-zone, neanche ci capiamo più.
Il cielo di Lombardia
Il milanenglish insubre dei Ferragnez è già leggenda: “super”, “cute” (anche insieme, “supercute”), “sono preso bene”, “sono preso male”, anche “superbene” o “supermale”; plus letto “plas”, “questa sorellanza è un grande plas!”. Che cute questa Milano! I Ferragnez sono il più grande spot al capoluogo lombardo che si sia mai visto. Ci sono cieli limpidi, droni svettanti che inquadrano senza sosta i grattacieli di Porta Nuova, tram lucidissimi che passano accarezzando le rotaie. Ci sono opportunità che a Roma mancano; come organizzare un “baby shower” con esperti organizzatori di questo tipo di eventi. O ville con neve finta sul lago di Como.
La serie è interessante anche e soprattutto per quello che lascia intravedere come cambiamento del gusto e del costume, l’interno delle case, gli alberghi, le macchine, insomma le quinte teatrali che, al netto dell’ovvio e necessario staging, accolgono la vita di questa nuova classe borghese degli influencer. Dunque, le auto sono sempre Suv o furgoncini, la berlina è definitivamente andata in pensione, è antica, loro si muovono su un colossale Bmw oppure quando la famiglia si allarga su pulmini Mercedes tipo delegazione di capi di Stato. Le case sono abbastanza anonime, riccanza sparsa (plaid di Hermès monogrammati, grandi schermi televisivi), cosparse di giochi dei bambini come sono ormai quasi sempre le case delle famiglie contemporanee: nessun segno di un “gusto” preciso (ci si chiede anche se queste residenze siano consegnate già arredate o ci sia alcunché affidato all’estro dei proprietari). Si vede finalmente la tata dei bambini. Si vede lo staff di Chiara, tutti giovani e volonterosi.
Nessuna notazione particolare, non saranno stati necessari insomma quei “wealth consultant” che sono serviti per “Succession”, la serie in onda su Sky. Pare infatti che per scrivere la serie ambientata tra i favolosamente ricchi e infami Roy – dinastia ispirata ai Murdoch – la produzione abbia dovuto assoldare dei consulenti, perché a questi livelli di ricchezza pochissimi sanno cosa fanno davvero queste famiglie. E cioè: cosa mangiano? Che macchine usano? Come fanno vestire il personale? Dunque sono ambitissimi appunto dei professionisti che abbiano accesso a questi magnati (si scopre infatti che lo staff di casa non usa pesanti uniformi come si penserebbe ma magliette polo e pantaloni kaki. L’attore che fa Roman Roy, Kieran Culkin, ha rivelato che la Hbo ha assunto qualcuno per consigliare su come i Roy avrebbero speso i loro soldi). Perché a certi livelli di ricchezza improvvisamente mancano le fonti: sono ricchi che non fanno entrare Vogue o Capital in casa loro, tantomeno instagrammano le loro case, perché a certi livelli di ricchezza non bramano legittimazioni della Sora Maria ma sono soprattutto preoccupati per la sicurezza, e soprattutto se ne fregano che qualcuno li possa invidiare e ammirare in foto. Così gli autori sono costretti a rivolgersi a dei professionisti. Da come si sale su un elicottero a come ci si veste, ecco dunque l’un per cento dell’un per cento, non siamo insomma sulla soglia dei quattromila euro al mese, la soglia psicologica della ricchezza italiana, non siamo neanche in zona Sonia Bruganelli. E’ proprio un altro mondo: però qui non si tratta solo di voyeurismo né di “wealth porn”, perché, come scrisse il New York Times, a differenza di grandi telefilm a tema riccanza del passato (Dallas o il nostro amato Dynasty), qui la ricchezza (le case, le auto, gli elicotteri) non sono aspirazionali, sono mostrate piuttosto con l’occhio dell’entomologo, perfette fin nei dettagli più insignificanti, e la macchina da presa li scruta e li elenca diventando strumento critico. Così per esempio l’appartamento del patriarca Logan Roy è enorme nelle dimensioni ma anonimo nell’arredo, come se fosse la sede di un ministero. Il servizio da tavola è anonimo (chissà cosa ne penserebbe Pregliasco), le sculture pure anonime, perché si capisce che poi questi Roy sono un po’ delle bestie (ma la serie è stata criticata perché un aereo privato mostrato era inferiore allo standard per quel genere di ricchi; “non mi infilerei mai in una scatola di sardine del genere”, ha criticato un grande ricco che aveva visionato la puntata pilota).
Il libro-strenna
In ogni caso, che siano di milionari o bilionari o solo leggermente abbienti, in queste case non ci sta mai, rigorosamente, neanche un libro (ed è già celebre la battuta di Fedez: “ma quelli non sanno cos’è”, rivolta ai cognati, quando un cameriere annuncia: “la cena sarà servita in biblioteca”). Del resto il libro si sa che non lo vuol più nessuno neanche come fondale, oggi se Berlusconi rifacesse il messaggio alla nazione metterebbe dietro un’operina di arte contemporanea di quelle tipo “Dream-Merda”, il libro è totalmente inutilizzabile anche come interior design e legittimazione sociale. Chi li compra dovrà dunque nasconderli, perché se il cinepanettone si adatta ai tempi che cambiano, venendo addomesticato, il libro-strenna resiste abbastanza. Bruno Vespa ha fatto trenta promozioni televisive in un mese ed è saldamente in testa alla classifica della saggistica. Battuto però da Ibrahimovic con la sua autobiografia. Nessuno di loro però può competere con Xi Jimping, il caro leader cinese, che col suo libro “Governare la Cina”, ha raggiunto l’accordo che tutti sognano; ha ottenuto infatti con Amazon che soltanto le recensioni a cinque stelle vengano pubblicate sul sito. Le altre niente.
Uno che faceva vasto uso di aerei ed elicotteri era poi Sergio Marchionne, protagonista dell’ottimo documentario appena rilasciato dalla Rai (celebri il “ferie da cosa?”, quando piombò in una Torino agostana con la Fiat praticamente fallita, e il personale appunto in vacanza). Commuove la sua storia di emigrato in Canada e poi condottiero globale alle prese come tutti quelli che son stati fuori un po’ e tornano e vengono considerati un po’ dei marziani. Fa specie ricordarsi che nessuno del governo, all’epoca, ritenne decoroso presenziare al suo funerale. Per lui, un posticino, nel presepe italiano, andrebbe riservato, almeno in memoria. Buon Natale!