Il Foglio del weekend
Nuovo dizionario Covid
Altro che cancel culture. Da “contatti” a “drive-in”, così la pandemia ha rovesciato il significato di molte parole
Non si può più dire niente”, dicono. E mentre lo dicono si contraddicono: se non si potesse davvero più dire niente, non si potrebbe nemmeno dire che non si può più dire niente. Semmai, si può dire tutto, e il suo contrario; con il risultato che il mondo contemporaneo si divide fra chi le cose le dice e chi dice che non si possono dire quelle cose (e a questa seconda categoria appartiene anche il sottogruppo formato da coloro che dicono che non si può dire che certe cose non si possono più dire). La cancel culture, più che mettere a tacere qualcuno, ha dato da parlare ad ancora più persone -la maggior parte delle quali non ha niente da dire, ça va sans dire; e l’esito è cacofonico.
Alla fine, l’unica vera cancel culture è proprio la pandemia: è il Covid nel giro di due anni ad aver cancellato termini un tempo consueti ma oggi ritenuti ambigui se non inappropriati, o cambiato di significato a parole che fino a poco tempo fa esprimevano tutt’altro; e trasformato gesti un tempo comuni in atti scandalosi, comportamenti proibiti, oscenità da mettere all’indice.
Ecco a voi un piccolo dizionario di parole vietate causa Covid, con un’appendice sulle azioni da non fare mai più.
Aerosol: in passato significava una delle migliori terapie farmacologiche in caso di tosse, asma, rinite o altri disturbi delle vie respiratorie. Oggi invece s’intende la nuvoletta virale, composta dal respiro di gente contagiosissima, che avvolge e infetta i malcapitati. “Fatti un aerosol” è passato da prescrizione medica o consiglio spassionato ad equivalente di augurare la morte a qualcuno.
Bravo figliuolo: espressione paternalistica oggi messa all’indice non per retrogusto patriarcale, ma perché filogovernativa.
“Ci vediamo?”: volgarità equiparabile al catcalling. Chi dice una cosa del genere è un maleducato che non sa più stare al mondo.
Contatti: un tempo averne tanti era sinonimo di successo e prestigio sociale, oggi di vita dissoluta e spericolata, destinata a morte certa oltre che di difficile tracciamento.
Drive-in: passato da essere una modalità di fruizione cinematografica particolarmente amata dai giovani americani negli anni Cinquanta a una modalità di test particolarmente odiata in Italia negli anni Venti del Duemila dal “contatto con un positivo” auto-munito.
Etciù: esclamazione sinistra e minacciosa, capace di gelare il sangue nelle vene, rizzare i capelli in testa e mettere mano alle mascherine a chi si trova nella stessa stanza, carrozza o a meno di un metro e mezzo di distanza con colui che ha pronunciato questo terribile insulto al sistema immunitario. Nell’immaginario collettivo occidentale, “Etciù!” suscita oggi lo stesso allarme di “Allah Akbar!”, “Mani in alto questa è una rapina!”, “Al fuoco! Al fuoco!, “Stiamo precipitando!”, “Cielo, mio marito!” e “Sono incinta”. Non esistono più le sfumature o attenuanti di una volta (“sono allergico...”, “è la polvere...”, il polline, le graminacee...), chi starnutisce è un terrorista, un attentatore.
Farmacista: sinonimo di parvenu.
Gel: un tempo per i capelli, oggi s’intende per le mani.
Giallo, Arancione, Rosso: un tempo colori vivaci e sgargianti, sinonimo di festa e allegria, oggi sono invece considerati il peggio della cromia mondiale. Nell’attuale sentire comune, il giallo è il colore della gravità, l’arancione del panico, il rosso del lutto. Il bianco è l’unico colore “politicamente corretto”.
Hub: passati i tempi in cui evocava lunghe vacanze e viaggi intercontinentali, oggi il termine è sinonimo di vaccinazioni, medici, siringhe.
Influencer: titolo nobiliare ormai decaduto e declassato, dopo la positività di Fedez e Chiara Ferragni, a sinonimo di “appestato”. Per intendere ciò che significava prima, invece di “influencer” oggi è meglio usare “imprenditore digitale presso se stesso”, o direttamente “disoccupato”. Un asintomatico, negativo e tri-vaccinato che si ostini a usare “influencer” nella sua accezione originaria rischia comunque l’isolamento con reclusione fino a quattordici giorni, perché può essere facilmente scambiato per “influenzato” da chi ha ancora gusto e olfatto ma non l’udito.
“Mascheriamoci”: non ha più quel significato allegro di un tempo, che presupponeva fosse Carnevale o tuttalpiù Halloween; oggi s’intende semplicemente l’uscire di casa, o l’alzarsi in piedi al ristorante.
“Non sa di niente”: commento innocente, che in passato segnalava l’assenza di sale da una pietanza o la scarsa sapidità di un piatto, oggi invece vale come attestato di sintomaticità più dell’esito di un tampone molecolare. Se dette a voce sufficientemente alta, queste quattro parole sono capaci di rovinare la cena a tutti creando il panico fra i commensali, con scene d’isteria collettiva, gente che si alza da tavola urlando, chi corre verso l’uscita, chi si getta direttamente giù dalla finestra della sala da pranzo, chi si ripara sotto il tavolo e piange gridando “pietà!”. A tavola è ancora concesso dire che un cibo fa schifo, ma non più che non abbia sapore né odore.
Positivo: un tempo il termine aveva esclusivamente un’accezione – come dice la parola stessa – positiva. Bisognava essere positivi; la positività era necessaria in società e per andare avanti nella vita, ed era richiesta sul lavoro come nei rapporti umani. Ci voleva il prefisso “siero-” per dargli una connotazione negativa; ma era l’unico caso, eccezione che confermava la regola. Oggi, è il contrario. I negativi sono diventati l’anima della festa, anzi: gli unici invitati. “Come sei negativo” è diventato un complimento, un attestato di stima, il massimo dell’onorificenza: Cavaliere della Negatività. Mentre essere positivi è diventato uno stigma socio-sanitario che nessuno si scolla più di dosso: dopo esser stati positivi, al massimo si può sperare di “negativizzarsi”, ma non si sarà mai più dei negativi puri. Conseguentemente, tutto ciò che ha a che fare con la positività è messo al bando, a partire dalla canzone “Io penso positivo”, oggi considerata un irresponsabile inno al contagio – specie dopo la positività di Lorenzo Jovanotti, che non serviva un test per dirlo, bastavano i testi delle sue canzoni.
“Sei un bambino”: non s’intende più tacciare una persona d’immaturità, ma di alta contagiosità, pericolosità virale, scarsa o nulla copertura vaccinale.
“Sono stato tamponato”: un tempo una simile dichiarazione avrebbe destato un interesse altruistico e disinteressato (“Ti sei fatto male? La macchina ha riportato grossi danni? L’altro automobilista era assicurato?”); oggi invece l’interesse che ne conseguirebbe, tradito dal fiato sospeso in attesa che aggiungiate l’esito, sarebbe del tutto interessato ed egoistico, specie se vi trovate l’uno di fronte all’altro.
Virale: un tempo in voga nell’ambiente del marketing digitale, oggi il termine è bandito, anzi bannato, per essere sostituito da giri di parole come “migliaia di visualizzazioni”, “è stato molto condiviso”, “è rimbalzato sui social”, “l’hanno visto tutti”. La beffa maggiore è che il termine suona particolarmente offensivo e irrispettoso proprio a Milano, la città dove maggiormente si corre il rischio di pronunciare la v-word in qualche riunione.
Lettere dell’alfabeto greco: impronunciabili e volgari appellativi che discriminano e connotano in base a pregiudizi virali. Chi le sa tutte non è più ritenuto colto come un tempo, ma menagramo e iettatore -forse anche un po’ untore.
Numeri sopra l’1: fino allo zero, zero virgola qualcosa, c’è tolleranza – dipende dal contesto. Ma dall’uno in su i numeri sono oggi quanto di più traumatico e divisivo si possa pronunciare. Provare a interpretarli non farebbe altro che creare ulteriori divisioni, scontri, lacerazioni, fra chi li interpreta in un modo e chi in un altro. I numeri mettono ansia, meglio non pronunciarne nessuno e mantenersi su unità di misura vaghe e approssimative.
Qualsiasi malattia o sintomo non sia il Covid: al di fuori della positività al virus, non si può stare male, avere altre patologie; o se si hanno non se ne può parlare, altrimenti si manca di rispetto alle vittime del Covid, ai medici in prima linea, alle infermiere, alle terapie intensive.
Tutte le parole con al F e con la P: si tratta di termini proibiti, il cui uso viene ritenuto causa della ripresa dei contagi e dell’affaticamento degli ospedali; se pronunciate in società, specie ad alta voce e a una distanza non sufficiente, queste parole possono suscitare sdegno e provocare un allontanamento coatto, oltre che un’ulteriore impennata nei contagi.
Appendice: oltre alle parole che non si possono più dire, ci sono azioni e comportamenti che non si possono più tenere. Stringere la mano a qualcuno è equiparabile a una pacca sul culo: roba da pervertiti o gran maleducati. Baciarsi o abbracciarsi, per carità. Toccarsi occhi naso e bocca all’aperto o in presenza di estranei è atto osceno in luogo pubblico. Toccare una cosa, qualsiasi cosa, e poi non correre al bagno a lavarsi le mani è da luridi sudicioni. Per tossire, o anche solo schiarirsi la voce, è necessario il consenso degli altri presenti. Essere in tanti, stare in gruppo, fare assembramento è logica del branco anche se non si sta stuprando nessuna o picchiando alcuno. Tirare fuori un fazzoletto per soffiarsi il naso è quantomeno scandaloso. Non si possono più sputare nemmeno i semini del mandarino o del cocomero, né i noccioli delle olive. Durante la respirazione, espellere l’aria dal naso o dalla bocca è considerato molesto. Avere un temperatura corporea superiore ai trentasette e mezzo è da confino. Non solo: il furore censoreo causa Covid si è abbattuto anche sull’arte. Busti in marmo o sculture di visi non possono più mostrare naso e bocca, altrimenti vengono tacciati di essere monumenti No mask; idem ritratti, come la Gioconda che sorride senza ritegno quando dentro al Louvre bisognerebbe indossare tutti una Ffp2. Queste statue vanno abbattute, i quadri messi al rogo; oppure vanno scolpite e dipinte mascherine apposite, di modo da correggere queste opere sanitariamente scorrette. Non solo arte figurativa: anche molti versi di canzoni un tempo popolari non possono più essere cantati senza destare sgomento e alzate di scudi. Vasco Rossi si salva dalla nuova inquisizione (“Respiri piano per non far rumore” in Albachiara è ritenuto un consiglio corretto per diminuire la trasmissibilità del virus), mentre Nilla Pizza è stata messa all’indice (“Respiro il tuo respir” cantava in Edera, incitando ad un comportamento individuale del tutto scorretto). No ai cotton-fioc: ricordano troppo i sinistri tamponi nasali, le code disumane fuori dalle farmacie al freddo o sotto la pioggia, lo stress post-traumatico da referto; per pulirsi le orecchie senza incupire nessuno ora si suggerisce di usare direttamente il mignolo.
I guardiani del bene presunto