Il FantaSanremo delle polemiche. Tra Zalone e Cesarini, ogni pretesto è buono per litigare
Il monologo sul razzismo e l'imitazione della trans. Non ci basta più ridere o piangere: dobbiamo subito cercare il consenso e creare le squadre
Serve subito un diagramma di Venn tra quelli che ieri sera hanno amato tanto il monologo della Cesarini che li ha resi persone migliori e quelli che non trovano mai divertente Checco Zalone ma soprattutto hanno detestato il tema di ieri sera: delle battaglie che ci stanno a cuore è vietato ridere, si può e deve solo piangere. Questione di schieramenti, identità, paranoie nel festival dove i più froci sono tutti etero, come sempre. Sarà più probabilmente che ogni pretesto è buono per litigare. Sarà anche che non ci basta più ridere o piangere ma dobbiamo subito cercare il consenso e creare le squadre.
Ieri sera a farci sentire dei mostri perché non piangevamo erano i sostenitori di Lorena Cesarini. È nata a Dakar ma si è trasferita a Roma (e uno già pensa che piove sempre sul bagnato), e per 34 anni non s’è mai accorta d’essere diversa fino a che non è stata invitata a dividere il palco di Sanremo con Amadeus. Il giorno peggiore della sua vita (e pensi “in quanto romana?”, o per trovarsi in una regione deprimente come la Liguria?). Ci confessa che ha sofferto perché ha scoperto che, lo so non ci crederete, c’è gente che scrive cattiverie sui social, e l’accusa d’esser stata scelta solo in quanto nera (un po’ come un tempo avrebbero preso una bella solo in quanto bella). Per dimostrare che avevano torto ha pianto in un eterno monologo della durata di Heimat intervallato da brani da “Il razzismo spiegato a mia figlia“ di Tahar Ben Jelloun. Aveva preannunciato: “sono una che si fa scivolare addosso tutto”.
Un monologo sgangherato per lei, doloroso per noi (da seguire). Un’occasione sprecata. Sarebbe bastato un testo migliore a cambiare i razzisti? Sicuramente no. Sarebbe stato solo meglio per noi che non godiamo dell’autofustigazione e del senso di colpa ricattatorio, lo stesso che fa urlare al pubblico in sala i primi “sei bellissima, sei italiana” (come se ce ne fosse bisogno) o come quando Iva Zanicchi sorridente e un po’ paternalista le si avvicina dicendole “Come sei carina” (col tono che aveva Cristoforo Colombo coi primi nativi, poi è andata com’è andata). Sarebbe stato bello se ci avesse mostrato anche i suoi pregi e non solo le sue ferite. I giovani che la stavano guardando forse cresceranno con l’idea che la fragilità sia l’unico scivolo verso il successo (ma il mondo è fatto di scale, e sono tutte da lavare: per tutti noi).
A farci sentire dei mostri perché ridevamo erano gli oppositori di Checco Zalone: omotransfobo.
Che Zalone sia bravo lo dimostrano le sue royalty, anche se le influencer della schwaria si sono affrettate a tenere lezioni sulla comicità (gente che si atteggia a Derrida ma che si fa spiegare le battute dai carabinieri). Zalone, tra il personaggio del rapper “Ragadi” che canta “Poco ricco” (già hit estiva di tutti i fanatici dei bonus terme, birra, iphone a rate) e il virologo cugino di Al Bano, che mostra l’amuleto col primo tampone positivo con cui ha svoltato carriera, ci ha raccontato la fiaba lgbtq calabrese con quel Re Indignado machista che ripudia il figlio a cui piacciono i transessuali. Terrore in un festival dove pure Mrs Doubtfire verrebbe presentata come la nuova Letitia Casta.
Zalone nel suo monologo da secolo scorso ci ha mostrato il professore di greco antico e insospettabile perché “la gente colta è la prima che si volta”, e ce lo canta con “L’ipocrisia dell’universo”. È una “presa in giro” dell'italiano medio esplicita e non delle persone trans, se non nel senso che le imita esagerandone gli stereotipi (il che basta ad alcuni per offendersi per conto terzi). E qual è il profilo di questo italiano medio? Quello di chi è risibile perché virile in apparenza ma in realtà passivo (questa sarebbe un’autentica discriminazione, e tirar fuori Lapo un colpo più basso della Zanicchi in classifica, ma se ve lo devo segnalare io rimanete pure comodi e fluidi).
Il grande classico dell’incomprensione è: stai ridendo con me o di me? La comicità funziona deformando gli stereotipi, ma in una realtà già troppo deformata non tutti riescono a ridere del grottesco. Consoliamoci nel pianto.