La pokémania si era diffusa in tutto il mondo a cavallo del nuovo secolo, poi sembrava sepolta, e invece è tornata o forse non ci ha mai lasciato (LaPresse)

Dagli insetti al Game Boy

I Pokémon e gli altri, il mondo ha tanta voglia di giocare

Stefano Cingolani

La storia delle creature fantastiche di Satoshi Tajiri, che oggi sono un business milionario, e il settore dei videogame in esplosione. Abbiamo demonizzato la Dad, ma avremmo potuto sfruttarla meglio

Satoshi Tajiri era un bambino gracile e introverso, negli studi stentava e non aveva molti amici anche perché coltivava un hobby singolare, a volte persino imbarazzante: amava gli insetti di ogni tipo, li cercava, li catturava, li collezionava. Il padre, rappresentante della Nissan, ne era irritato e scandalizzato, la madre cercava di capirlo e aiutarlo, ma cosa poteva fare per un figlio così diverso una casalinga con poca istruzione in quel sobborgo dormitorio chiamato Machida, alla periferia di Tokyo, dove la gente usciva all’alba e tornava a notte fonda? Gli altri ragazzi lo avevano soprannominato Dottor Bug, e lo prendevano in giro, i vicini compativano Tajiri san per quella disgrazia che gli era capitata in famiglia. Satoshi intanto marinava la scuola, correva nei campi e s’inoltrava nei boschi in cerca di quelle piccole creature mostruose che tanto lo affascinavano. Finché tutto cambiò. Il sobborgo venne circondato non più da alberi e prati, ma da case e palazzi, e Satoshi si rifugiò nei videogiochi. Cominciò ad appassionarsi ai manga, agli anime i cartoni animati che dal Giappone hanno conquistato l’occidente, alla serie tv “Ultraman” e alle macchinette a gettoni dei primi anni Ottanta. Come raccontò in seguito, la sua prima vera grande attrazione fu per Space Invaders. Dopo aver terminato a fatica le medie, seguì un corso biennale di Elettronica e informatica finché nel 1981, a sedici anni, cominciò a pubblicare la rivista Game Freak, insieme ad alcuni coetanei tra i quali Ken Sugimori, conosciuto in una sala giochi. Così, tra storia e leggenda, cominciò l’avventura di un brillante innovatore diventato mitico nel mondo magico della ludocrazia che non conosce limiti né confini, e alla quale Satoshi, con i suoi Pokémon illustrati dall’amico Ken, ha dato una spinta possente, travolgendo in una comune passione la generazione dei millennial. La pokémania si era diffusa in tutto il mondo a cavallo del nuovo secolo, poi sembrava sepolta in un passato di per sé vicino, ma allontanato dalla rapidità delle trasformazioni (gusti, passioni, comportamenti che vanno a braccetto con la tecnologia), invece è tornata o forse non ci ha mai lasciato.

 

Il Figaro informa che in un anno sono stati venduti in Francia giochi derivati dal marchio giapponese per 200 milioni di euro, due volte più che l’anno precedente. E non è un’eccezione. In Svizzera si sono raggiunti i 60 milioni di franchi. L’Italia non è da meno. Nel mondo si calcola un giro d’affari da 100 miliardi di dollari. Mentre si sviluppa un florido mercato parallelo, quello del collezionismo, che raggiunge spesso livelli parossistici: una carta Charizard, in condizioni immacolate, è stata venduta alla cifra record di 265 mila euro. Sarà perché si celebrava il venticinquesimo anniversario del debutto Pokémon Rosso e Pòkemon Verde, di Pikachu e Ash, fatto sta che il 2021 è stato un vero e proprio anno boom e non solo per effetto della pandemia. 

 
Ma torniamo a Satoshi, entrato nel frattempo alla Nintendo, che in quel campo ne sapeva più di ogni altro. Il 27 febbraio 1996 la compagnia, fondata nel 1889 per produrre e distribuire carte da gioco, lancia come appendice al Game Boy quel buffo zoo di creaturine (in Italia arriva tre anni dopo). Nessuno pensava che di lì a poco sarebbe nato il secondo più grande franchise di videogiochi della storia. In questo quarto di secolo sono stati venduti più di 350 milioni di copie e oltre 70 titoli Pokémon. Il debutto su Nintendo Switch (Pokémon Spada e Scudo) ha infranto il record di sei milioni di copie nella settimana di lancio. Nel 2016 è nato Pokémon Go, studiato per gli smartphone. Il gioco che permette di catturare i mostricciattoli nel mondo reale è diventato un fenomeno mediatico e di costume raggiungendo un giro d’affari superiore ai due miliardi di dollari.

  

  

Studiati, apprezzati, denigrati, i Pocket Monster in tutti questi anni non hanno esaurito la loro forza, al contrario. Dietro alle creature di Satoshi Tajiri è nato un vero e proprio mercato parallelo, fatto di oggetti rari, carte da collezione e consolle in edizione limitata. L’anno scorso Catawiki, la piattaforma per le aste online di beni preziosi, ha deciso di celebrare l’evento organizzando vendite speciali con protagonisti i videogiochi e le carte più rare dell’ormai intramontabile brand giapponese. Dalle analisi svolte, il mercato italiano è uno dei più attivi nello scambio di cimeli appartenenti al mondo Pokémon. Tra il 2019 e il 2020, secondo Catawiki, c’è stato un incremento dei venditori del 119 per cento mentre i lotti venduti sono aumentati del +137 per cento, per lo più a prezzi esorbitanti. Girano centinaia di migliaia di euro. I più costosi sono gli esemplari giapponesi, rarissimi in Italia, visto che un tempo si potevano acquistare solo su eBay e pochi utilizzavano internet. La carta di Rayquaza vale intorno ai 45 mila dollari, la variante del Charizard black della linea Gold Star arriva a 80 mila dollari. 

 

Tutto ciò, secondo alcune interpretazioni, dimostra quanto quella dei millennial sia rimasta una generazione bambina. In realtà, la nostalgia del mondo perduto è un sentimento umano, troppo umano, ma è vero che solo in questi ultimi decenni abbiamo visto l’infanzia e la giovinezza durare tanto a lungo. Persino gli statistici definiscono giovani in cerca di lavoro i trentenni che un tempo non molto lontano erano persone adulte per lo più indipendenti, le quali avevano lasciato la famiglia con l’arrivo della maturità ed educavano già i loro figli. E’ qui dunque, in questa sorta di infantilismo impenitente, il segreto del successo per i videogiochi e in particolare per i Pokémon? Non esattamente. Il vero segreto di Satoshi Tajiri è più sofisticato, perché è riuscito a combinare quattro elementi: le battaglie, i giochi di ruolo, l’ossessione da collezionista e la passione per i cuccioli. Un mix che ha rappresentato e rappresenta per The Pokémon Company una miniera d’oro e ha anche aiutato Nintendo a superare molte crisi. 

  

International Tokyo Toy Show 2009 (foto Junko Kimura/Getty Images) 

La genesi è singolare come il suo creatore. Ripensando alla passione per gli insetti, il giovane giapponese si mette a progettare un gioco il cui obiettivo sia cercare e collezionare dei piccoli “mostri tascabili”. Il primo nome a cui pensa è proprio Capsule Monsters, al quale seguono le abbreviazioni CapuMon e KapuMon. Alla fine, però, la scelta cade su Pocket Monsters e sull’abbreviazione Pokémon. Alla Nintendo impiega sei anni prima di dare forma definitive alle proprie idee, aiutato dal suo mentore Shigeru Miyamoto, creatore di videogiochi di grande successo come Super Mario Bros. Per rendere loro omaggio gli sviluppatori di Pokémon, nella sua versione giapponese chiamarono Satoshi l’allenatore Rosso e Shigeru il personaggio Blu. Una delle maggiori difficoltà è stata creare le regole, sia quelle secondo le quali i suoi personaggi debbono vivere, sia per stabilire come si svolge il gioco. Satoshi immagina che i Pokémon debbano essere cercati e catturati così come lui faceva con gli insetti e che il peggior esito possibile di uno scontro tra loro sia lo svenimento: “Non ho mai voluto vedere né morte né sangue, per non aggiungere al mondo inutile violenza”, spiega. Al settimanale Time che lo ha intervistato nel 1999 ha detto che “Oggi i ragazzi non hanno molto tempo per rilassarsi. Ho pensato quindi a un gioco che potesse aiutarli a pensare ad altro durante quelle pause da cinque o dieci minuti”. Ma nemmeno lui s’aspettava tanto successo. Nell’ottobre 1996 arrivano in Giappone le prime carte dei Pokémon e nel 1997 i cartoni animati che trasformano in un protagonista Pikachu, fino ad allora un personaggio come gli altri. In un paio di anni i due giochi invadono il resto del mondo, facendo compiere un balzo alla Nintendo e all’intera industria.

   

Nell’ottobre 1996 arrivano in Giappone le prime carte dei Pokémon e nel 1997 i cartoni animati che trasformano in un protagonista Pikachu (GettyImages) 
   

 Il mercato globale dei videogame, secondo l’analisi del gruppo Digital Bros, è salito esponenzialmente nell’ultimo decennio e dovrebbe raggiungere un valore complessivo di 204,6 miliardi nel 2023 con 3,2 miliardi di giocatori. I tassi di crescita, sempre significativi, sono strettamente legati alla continua evoluzione tecnologica: oggi si gioca non solo sulle consolle tradizionali – Sony Playstation, Microsoft Xbox, Nintendo Switch – e sui computer, ma anche su piattaforme mobili e sui social media. Proprio questi ultimi hanno dato un nuovo impulso al mercato video-ludico, trasversale per sesso e fasce d’età, portando allo sviluppo di nuovi prodotti dedicati ad un pubblico sempre più eterogeneo. Tablet e smartphone rappresentano il 52 per cento del mercato; il resto se lo spartiscono consolle e personal computer. L’età media dei giocatori è circa 34 anni, anche se la fascia dai 18 anni in su rappresenta il 70 per cento del totale. Prima della pandemia, negli Stati Uniti e Cina oltre il 90  per cento dei bambini e oltre il 97 per cento degli adolescenti tra i 12 e i 17 anni stavano sui videogiochi per circa 15 ore alla settimana in media. Oggi la loro “dipendenza” è ulteriormente aumentata di due ore in parte a scapito di altre forme di intrattenimento parte a scapito delle attività di studio e lavoro.

  

“Il mercato non rallenterà con il superamento della pandemia: le previsioni indicano che la crescita nel prossimo quinquennio sarà del 9 per cento all’anno, un  boom che lascerà indietro ogni altro settore high tech e che alimenterà una domanda aggiuntiva di connessioni veloci tale da sostenere la redditività delle infrastrutture 5G”, spiega l’economista Mario Dal Co, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione.

   

Il New York Times ha acquistato il gioco di parole “Wordle”, Microsoft ha appena speso 75 miliardi di dollari per l’azienda di “Call of Duty”

    

La ludoeconomia si estende a ogni tipo di gioco, come dimostrano le scommesse online. Secondo uno studio condotto dalla Deloitte e dalla Luiss, le lotterie sono il segmento principale con una quota di mercato del 38 per cento, poi vengono i casinò (32 per cento) e lo sport (30 per cento). Quest’ultimo, particolarmente diffuso in Europa, Australia e parte dell’Asia aumenta a un ritmo del 4-5 per cento l’anno, i casinò vanno alla grande con circa il 10 per cento, un po’ meno le lotterie. Ma davvero giocare non ha limiti. Il New York Times ha acquistato Wordle, un gioco di parole online creato pochi mesi fa e diventato molto popolare in tutto il mondo in poco tempo. Si tratta di indovinare una parola inglese di cinque lettere in un massimo di sei tentativi, a partire da un lemma esistente che si sceglie casualmente e si digita sulla propria tastiera. E’ stato creato soltanto nel novembre scorso dal programmatore gallese Josh Wardle e grazie ai social media i suoi utenti giornalieri sono diventati due milioni. La Microsoft s’è lanciata senza risparmio di mezzi comprando per 75 miliardi di dollari Activision Blizzard, un pezzo importante della nuova strategia che vuol fare della compagnia fondata da Bill Gates un colosso anche in questo campo sotto la guida di Phil Spencer. Con l’acquisizione, che attende il via libera dell’antitrust, Microsoft diventa numero tre al mondo dopo la cinese Tencent e la giapponese Sony. Un cambiamento strategico che risponde anche alla crescente domanda sullo stesso mercato americano e contrasta le mosse di Facebook che ha annunciato la sua conversione al metaverso con la nuova compagnia Meta Platforms Inc. 

 

Proprio i videogiochi per molti aspetti sono un’anticipazione della nuova frontiera digitale. Negli Stati Uniti assicurano già 430.000 posti di lavoro con un fatturato complessivo di 90 miliardi di dollari, superiore a quello dell’intero cinema e dello sport. E’ un mercato del lavoro molto specializzato con livelli salariali doppi rispetto alla media degli altri settori, anche perché vengono sviluppate competenze tecnologiche applicate ad ampio raggio. L’antico predominio della Intel è stato messo in discussione dalle aziende specializzate nelle elaborazioni delle workstation grafiche prima e nella progettazione dei nuovi processori per gli ambienti 3D, tipici delle playstation e degli smartphone che fungono da terminali. Circa 214 milioni di persone smanettano videogames (il 46% donne). Il giocatore tipo ha un’età media di 33 anni con almeno 16 anni di gioco alle spalle. La quota dei giovanissimi sale costantemente, oggi il 20% ha meno di 18 anni. La Cina ha già un ruolo di punta, Tencent e NTES detengono oltre la metà del mercato nazionale, oggi il maggiore del mondo e quello in più rapida crescita. Appartiene a Tencent il 30% di Epic, la compagnia americana più dinamica nei videogiochi. Per accedere alle playstation più aggiornate, coloro che non possono permettersele frequentano in Cina gli iCafe, dove le possono noleggiare. Le maggiori aziende hanno agganciato i loro prodotti alla letteratura classica cinese, ai film, alla TV, a programmi di intrattenimento, legando alla notorietà di altri prodotti culturali. Tra i 20 giochi online più diffusi, 8 derivano da collaborazioni con la TV o produttori di film.

 

L’avvento del 5G farà da nuovo acceleratore e ci sarà bisogno di investimenti ancor più ingenti, spesso superiori a quelli necessari per realizzare i film ad alto contenuto di effetti speciali. Ciò vuol dire che la ludo-economia sarà sempre più in mano a pochi protagonisti, per sfruttare le economie di scala e le competenze necessarie. Si tratta di combinare creatività a tutto campo, ma anche di padroneggiare il linguaggio digitale, innovando continuamente il software. Altro che intrattenimento, bisogna spremere le meningi in modo spesso parossistico. Questa concentrazione di risorse finanziarie, tecnologiche, intellettuali può condurre al predominio di alcuni grandi gruppi multinazionali, ma anche a un inaridimento delle fonti e della diversità culturale, un tema sul quale l’Unesco, l’organizzazione dell’Onu, si è pronunciata alla scopo di valorizzare una forma di ricchezza umana che rischia di essere dispersa dalla omologazione di contenuti a standard mondiali riconoscibili da tutti alla stesso modo, come accade proprio per i videogiochi. Ciò riapre il fronte della vasta diatriba che è diventata persino aggressiva durante la pandemia creando e ha formato un fronte di resistenza all’innovazione che arriva fino al rifiuto della didattica a distanza. Vediamo come e perché.

 

I videogame creano dipendenza, favoriscono l’assuefazione alla violenza virtuale che rischia di generare a sua volta violenza reale, esaltano non solo la competizione, ma l’aggressività, deviano la fantasia, sottraggono tempo ed energie allo studio e al lavoro: fioccano le accuse e s’infervora la discussione. Da anni ormai si studiano gli effetti a breve e medio termine, stuoli di medici, psicologi, sociologi, analizzano e spesso pontificano. La ricerca di Deloitte e della Luiss mette l’accento sulla necessità di un’attenta regolazione che non soffochi lo sviluppo dei giochi e la libertà di inventare e innovare. Nel campo delle scommesse alcuni governi stanno cercando di contenere i comportamenti di dipendenza e l’accesso al gioco fra la popolazione a basso reddito. Giappone, Corea del sud, Portogallo e Norvegia hanno bandito il gioco online per prevenire la dipendenza tra la popolazione. Inoltre, in molti paesi che hanno legalizzato il gioco online è molto difficile ottenere e rinnovare le licenze. Nei videogame non siamo arrivati a questo punto e tutti sperano di non arrivarci.

  

  

Inchieste ad ampio raggio hanno ridimensionato il rischio di alimentare la violenza: l’ambiente familiare, sociale, economico, sono sempre questi i fattori determinanti. Studi sull’aggressività hanno dimostrato che un uso moderato dei videogame sottrae risorse, tempo ed interesse verso l’acquisto di armi vere. Secondo numerose ricerche pedagogiche verrebbe addirittura agevolato l’apprendimento e questo è particolarmente vero per i bambini autistici. Indagini statistiche mostrano che in genere il gioco si svolge dopo il lavoro e lo studio, o durante una pausa lavorativa o scolastica, in attesa di un appuntamento, durante un trasferimento. Inoltre, il 90 per cento dei genitori sarebbe attento ai giochi che i figli fanno online. Una “dose” di cinque ore alla settimana svilupperebbe la capacità di risolvere problemi, migliorerebbe i risultati scolastici e le relazioni con i coetanei. Il 56 per cento dei giocatori avrebbe anche altri hobby. L’associazione del produttori naturalmente sbandiera questi risultati, in ogni caso i pro e i contra continueranno a sfidarsi molto probabilmente senza arrivare a una tregua. Dal Co non vuole alimentare un circuito senza fine e invita a utilizzare il buon senso. “Da un lato, la denuncia di fenomeni di dipendenza non significa che in sé l’oggetto sia negativo, è il consumo che se ne fa a diventare dannoso, come per qualunque forma di ossessione e di consumo compulsivo, dall’alcol alle bibite gassate ai gelati, per non parlare delle medicine. Tuttavia è fuor di dubbio che la struttura dei videogiochi è concepita spesso proprio per creare quella dipendenza che spinge a sborsare sempre più quattrini. Ma attenzione, non accadeva anche con le figurine Panini? Insomma, occorre discernere come insegnano da secoli i Gesuiti”. 

 

Ian Bogost ha scritto numerosi saggi sui poteri e gli effetti dei giochi in particolare di quelli “persuasivi” che puntano a indurre comportamenti diversi. Bogost insegna alla Washington University, ma è egli stesso un progettista e realizzatore di giochi persuasivi definiti “seri”, ossia volti a far acquisire conoscenze e solo attraverso esse indurre modifiche dei comportamenti. E’ sempre stato così dai tempi dei tempi, il fine istruttivo, di addestramento e di suggestione, è tra le funzioni più antiche dei giochi. Insomma, tra bianco e nero ci sono infinite sfumature di grigio. Quel che emerge chiaramente invece è la funzione trainante nello sviluppo di sempre più sofisticate tecnologie digitali. “I cambiamenti tecnologici e le tecnologie disruptive – secondo lo studio della Deloitte e della Luiss – hanno gettato le basi per lo sviluppo dell’industria del gioco online. Gli operatori di mercato effettuano enormi investimenti in ricerca e sviluppo tecnologici per sopravvivere ed essere competitivi, nonché per migliorare l’esperienza dei clienti/utenti”. 

 
L’industria dei videogiochi ha un impatto importante in settori strategici come i processori ad alta velocità, le schede grafiche ad alta risoluzione, lo sviluppo delle interfacce uomo macchina, la realtà virtuale e aumentata, la rete a banda larga, il 5G, persino il bitcoin e la moneta digitale in genere, la token economy sempre più diffusa. Le applicazioni professionali delle tecniche di rendering grafico e di realtà aumentata, contribuiscono alla crescita della produttività nella progettazione architettonica e ingegneristica o nel design; la nascita e la crescita di nuove imprese con il contributo del venture capital fornisce opportunità di creazione di imprenditori e posti di lavoro ad elevata specializzazione; gli effetti di tracimazione dal settore dei videogiochi ad altri settori dell’intrattenimento, come tv, film, spettacoli, sono sempre più importanti, e configurano una ridefinizione e in taluni casi la scomparsa dei confini tradizionali. “E’ tempo di considerare lo sviluppo di questo settore come necessario all’innovazione e alla creazione di valore e di competenze sia dei giovani che sono in fase di formazione sia dei giovani imprenditori – sostiene Dal Co – Le aziende dei media sono in ritardo e fanno da freno. Il loro conservatorismo e il ruolo preponderante della Rai sono in parte responsabili anche del gap digitale”. 

 
Eccoci arrivati davanti allo stretto passaggio che ci conduce fino alla dad. Una campagna ideologica e passatista ha demonizzato la didattica a distanza come dannosa per una gioventù che è nativa digitale e, anche perché addestrata dai videogiochi, sarebbe più che pronta a seguire altri modi di imparare. Sono gli insegnanti, è la burocrazia statale, è la pubblica istruzione, è la politica (il dibattito sulla dad nei partiti, in parlamento, sui media rasenta il grottesco) è tutto questo apparato culturalmente polveroso a non sapere come cimentarsi con nuovi linguaggi e nuovi strumenti. E, salvo eccezioni, si chiude a riccio rifiutando la sfida. Altro che transizione, qui l’Italia è in piena restaurazione. Vuoi vedere che ci vuole il Pnrr anche per i videogame? Certo che no. Pokémon non ha bisogno di ulteriori incentivi, ma è arrivato il momento di liberarsi dal pregiudizio che giocare sia solo un piacere per sfaccendati.
 

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