Sabaudia, tramonto italiano
Dal Duce a Totti alle inchiestuzze sul “sistema”. Il fascino metafisico della Crimea romana vista dal nord
“Ma che cosa strana Sabaudia: non va dimenticata questa ibrida follia”
Pier Paolo Pasolini
Chissà se lo sanno, ma certo che lo sanno. Vuoi che non ci siano stati, che non glielo abbiano raccontato. La striscia è lunga lunga, oltre le gramigne e i fiori di duna, ma il paese è piccolo, un microcosmo globale. Vuoi che non lo sappia, la Royal family di Sabaudia, che la “petite folie” di Nathalie Volpi di Misurata, vedova del governatore di Tripolitania tanto vicino al Bonificatore in chief, insomma la villa neoclassico-palladiana (etrusco-Sommaruga, avrebbe aggiunto Gadda), eccentrica persino nell’Italia eccentrica degli anni Cinquanta, che domina da un lato il lago di Paola e dall’altro il mare, insomma la Villa Volpi, fu il set per Divorzio all’italiana di Germi. Così da risultare adesso quasi una profezia del finale così poco giubilare, così frustrante per i sogni da Cenerentola di milioni di italiani, della Royal family di Roma Eur. Anni fa un giornale scrisse che l’agenzia che aveva messo in vendita l’estemporanea magione aveva precisato – immagina le dozzine di cronisti a telefonare per la verifica – che Francesco Totti “non è mai stato interessato all’acquisto”. Acquisto che sarebbe stato, con gli occhi del poi, in questo febbraio già primaverile sul litorale, il più fantastico degli autogol in rovesciata. Speravo de morì a villa Germi. La notizia più gossipata della settimana – la separazione, l’imminente divorzio perfino, di Ilary e Francesco, gli unici sovrani cui il popolo bagnante rende omaggio in questa Balmoral pontina sospesa tra la natura sublime e il prolungamento di Latina – è diventata a buon motivo un segno dei tempi.
Della caducità delle relazioni e delle istituzioni, exemplum eterno e rinnovato che anche i ricchi piangono. Perché spariti la contessa e Moravia con la Dacia in triangolo (letterario) con PPP, che s’erano fatti la casetta e facevano la spesa in bicicletta, e sparito tutto il resto dell’allure anni Sessanta, la Totti family era rimasta l’ultimo mito aristopop alle falde del Circeo. L’unico sogno felice che teneva grappoli di ragazzini lì sulla spiaggia, nella divina attesa che Lui facesse capolino tra le dune, e tirasse un calcio a un pallone, regalasse un selfie o una carezza ai vostri bambini. Ci sono sempre i bei nomi, il ci-si-conosce-tutti senza bisogno di name-dropping, e le new entry di stagione come Di Maio, ma nell’immaginario del popolo erano rimasti loro, soprattutto: i Totti. Eredi senza infingimento di questa Cape Cod naturistico letteraria, ma senza Hopper e l’oceano. Diventata, dopo il tramonto di ogni metafisica urbanistica e congelata tra servitù militare e servitù da ecoparco, semplicemente un posto bello da farci le vacanze. Ancora un bel mare, senza casino. Spiace dunque che Sabaudia perda un altro pezzo della sua mitologia spicciola, da giornali locali: Ilary è arrivata, Francesco ancora no. Ma è un naufragare dolce in una normalità vacanziera, di quel tipo di vacanzieri romani che solo chi viene da lontano può stupirsi di scoprire e che si dividono in tre parti, come le Gallie o più propriamente come il Negroni sbagliato: i romani che risalgono come salmoni verso Capalbio; i romani di corta gittata che preferiscono l’approdo rapido a Santa Severa e i romani un tempo radical e ora non più che da Sabaudia sciamano fino a San Felice, e anche più giù.
Ma Sabaudia, perbacco. L’effetto che fa, a chi viene dal nord. “Se avvicinandosi a Roma dal settentrione il primo tratto del Lazio è ancora Maremma, avvicinandosi al sud, nella provincia di Latina, è ancora Campania”, scriveva in uno dei suoi viaggi Guido Piovene, stupito come solo poteva esserlo un veneto di morbide e pettinate colline alla scoperta di questa terra piatta, “nessuna parte dell’Italia era più primitiva di questa”, eppure così somigliante, artificialmente somigliante, alla campagna veneta. Sabaudia, perbacco. Quando arrivi al “lago di Paola, che si sdraia fra i tumuleti biondi, come uno squalo che non teme i pescatori”; quando “la limpidezza dell’aria, lo scintillio delle acque del lago, danno la sensazione d’Oriente”, come apparve all’incanto di un fine letterato del regime, Francesco Sapori, anche lui abituato per nascita alle terre basse padane, è tutta un’altra storia.
La Migliara 53 taglia il fitto della macchia del Circeo come un coltellino svizzero. Due sole corsie e lo sterrato stretto ai lati, e i cartelli che avvisano, o minacciano: alta incidenza di incidenti mortali in questo tratto. Il milanese imbruttito pensa: ma mettere un autovelox, qualche dosso, uno di quei bidoni-finti vigili dissuasori arancioni? E prosegue in modalità risparmio energia, con una mano sul volante e l’altra ai portafortuna. Ma poi c’è la spiaggia bianca. Scivolando giù tra i cespugli (anzi scivolare non si può più, ché si rovina l’ecosistema, ci sono le scalette e le passerelle: però malandate, eh, di certo volutamente, per darsi un tono anche loro un po’ fané). E finalmente la sabbia fina e il mare piano. Viene da dire, parafrasando Luchino Visconti che quando scoprì Acitrezza parafrasava Manzoni, che a noi turisti lombardi, pur così contenti del bel mare di Milano Marittima, così bello quand’è bello, quei chilometri di dune e mare di quieto ci hanno conquistato. Chissà se i romani, abitatori privilegiati di questo piccolo Eden allungato dalla natura e squadrato dal razionalismo, sentono ancora il sapore di questa nostra Baja California, o forse sarebbe meglio chiamarla la nostra Crimea, villeggiatura per nomenklatura, così sorprendente, per noi diversamente marinari e abituati tutt’al più al mare basso del Delta.
Sabaudia per noi comincia prima, in quella piana di agricoltura mussoliniana tagliata in rettangoli da migliare e perpendicoli, segnalati da casali che hanno ancora i numeri della bonifica. Lo stupore metafisico che poi ti coglie, davanti alla chiesona dell’Annunziata o al palazzo delle Poste, consigliamo di iniziare ad assaporarlo chilometri prima. Nell’illusione sgomenta di Pomezia, dove la biblioteca comunale si chiama Ugo Tognazzi ma la facciata è diventata la straordinaria “Antiporta” della Sibilla Cumana, grazie allo street artist Agostino Iacurci che s’è ispirato al sesto libro dell’Eneide e a colori potenti. Dal razionalismo ducesco alla street art e alle soglie dell’oltretomba e all’Heroon di Enea a Lavinium, comune di Pratica di Mare (sounds familiar?), se mai lo trovate aperto, il passo è straordinariamente breve. O almeno cercate, lì intorno, la tomba di Sergio Leone: nulla di strano che amasse tanto questi territori così western. Un cartello dopo l’altro appaiono luoghi che si chiamano Borgo Grappa, Borgo Isonzo. Sembra di dovere prima o poi incontrare Ungaretti.
Ma poi la strada sfocia nel ponte Morandi (sì, Morandi: e tanto bastò ad allarmare la sindaca Giada Gervasi, poi ci arriviamo) sul lago di Paola, e la foto più iconica dell’album è invece Pasolini con la sua Giulia GT. Prima di quel magnifico ponte del 1963, sotto cui vogano i canottieri sul lago (arriviamo anche a loro), alle dune ci si andava in barca. Forse era più naturalistico, oggi qualche ambientalista farebbe un ricorso al Tar, ma non ci sarebbe la stessa atmosfera modernista, e da misteriosa base militare sul Mar Nero, così essenziale per il mito di Sabaudia. Per quella sua aria irrisolta, demaniale, recintata e presidiata e come consacrata a una fissità novecentesca. E comunque, Sabaudia.
Oltre che senza più Royal family, nei giorni scorsi ha perduto – ma si spera per poco, e tutto è bene quel che finirà bene – anche la sua sindaca e una masnada di maggiorenti e di gestori di spiaggia. Il “sistema Sabaudia”. D’improvviso esploso nelle cronache, seppure in modo marginale, visti i tempi, ma giusto in tempo per far dire a qualcuno che tangentopoli non è mai finita. Lo scandalo del “sistema Sabaudia” (può esserci un’inchiesta, se non c’è un sistema?), inchiodato lì, nero contro l’azzurro del mare, dai pm e dal gip di Latina. Storie sminuzzate di pressioni per bloccare la revoca di una concessione demaniale sulla spiaggia, storie di parenti nella piccola città (“bastardo posto”), di gare pilotate e abusi nella gestione delle spiagge. Un’inchiesta che diresti figlia della direttiva Bolkenstein, ce lo chiede l’Europa. O più banalmente aiutata a decollare sui giornali dallo scazzo di Draghi con i balneari, finiti in cattiva luce presso il resto del paese. E allora, che c’è di meglio di una retata e un repulisti sull’onda del favore popolare? Sedici misure cautelari, tra cui l’arresto della prima cittadina, trenta indagati tra titolari di stabilimenti balneari, imprenditori, funzionari. E la ciliegina dello scandalo del canottaggio, sport consustanziale qui come lo è lo sci a Cortina: “Grazie a Dio, grazie al coronavirus…”, esultava intercettato un imprenditore in grave ritardo sull’allestimento avuto in appalto. “Ma grazie a Dio” la Coppa del mondo di canottaggio di Sabaudia è stata differita di un anno. E non può mancare, nei disastri italiani, uno sciagurato Franti che ride, la registrazione giusta per accendere la generale indignazione. Insomma una di quelle storie di provincia, di scandalo “ampio, diffuso, radicato e capillare” ma diviso per ventimila abitanti, di do ut des familisti eretti a “sistema” dai magistrati, a cui non si farebbe neppure più caso. Anche perché finiscono spesso in niente. Ma tanto basta, nel trentennale della Grande inchiesta, per dimostrare che c’è ancora tanto da pulire, da mondare.
Eppure, scendendo dalle dune o pedalando nel Parco nazionale, in quel groviglio di macchia mediterranea dove girano più tafani che elicotteri di Putin in Donbas, o davanti al mare così pacifico, vien fatto di pensare che se questo posto è rimasto quasi com’era, con l’aria di una eterna bonifica interrotta; se questo ecosistema è rimasto circa intatto; se le spiagge è ancora bello andarci, con il loro caotico miscuglio di sdraie appaltate (alla cricca), di tratti liberi e di abusivi comodi e a buon mercato, è anche grazie a questa patina di corruttela da strapaese, di ci conosciamo tutti, di placida trasandatezza provinciale. Che ha preservato in una romanità senza mondanità, in un naturalismo senza eccessi, un angolo d’Italia. Che è, esattamente, la bellezza del “sistema Sabaudia”. Viva la corruzione spicciola, se a Sabaudia si può ancora venire senza sapere se c’è o no Totti, fregandosene o lasciandosi incantare dall’architettura metafisica del Duce, dai muri scrostati o dai giardini abbandonati all’incuria del sole, gli angoli da Instagram o quella trascuratezza da periferia che è già sud, come direbbe Piovene.
In onore del post Covid e della Teoria generale della resilienza umana, ora Sabaudia punta, ma senza strafare, a diventare un borgo d’Italia. O un sobborgo ricco di Roma, dizione forse migliore. Interrogato, Gino Saporetti, genius loci dei bagni e della costa, rispondeva: “Questo è il posto più bello del mondo, circondato da una natura meravigliosa, di un clima fantastico, a neanche cento chilometri di distanza dalla città. Certo, servirebbero dei servizi basilari per viverci più a lungo, una buona connessione per poter lavorare, una pista ciclabile per muoversi i sicurezza”.
Il passo dalla Crimea mussoliniana agli Hamptons “south of Anzio” può essere breve o lungo come un tramonto, come un coppia reale che non si concederà più ai ragazzini adoranti. I romani non si accorgeranno nemmeno, ma per noi metafisici venuti dal nord sarà un peccato. Noi che come il poeta friulano eravamo giunti prevenuti, in quella piazza con i bar degli anni Sessanta.
Poi cambiò idea, Pasolini: “Quanto abbiamo riso, noi intellettuali, sull’architettura del regime, sulle città come Sabaudia! Eppure, adesso, osservandola, proviamo una sensazione assolutamente inaspettata. La sua architettura non ha niente di irreale, di ridicolo: il passare degli anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assuma un carattere tra metafisico e realistico”. Tramonto.
I guardiani del bene presunto