La testimonianza
Le lacrime di noi mamme, di fronte ai nostri bimbi di Chernobyl
Ivan arriva in Italia negli anni novanta, ospite di una famiglia che da allora è sempre rimasto in contatto col ragazzo: "Dal 24 febbraio non passa giorno che il mio pensiero non sia rivolto a lui"
Al direttore - Mercoledì mattina nella mia consuetudinaria lettura del suo giornale, ho incontrato la storia di Svetlana Kuprienko. Daniele Raineri ha con grande cura e attenzione raccontato la storia che accomuna molte famiglie italiane che negli anni Novanta ospitarono bambini e bambine provenienti dall’area di Chernobyl. Leggendola mi sono commossa, ho pianto per una storia finita tragicamente, ma soprattutto per una storia che si intreccia con la mia. Vede direttore, la mia famiglia, negli anni novanta, prese in affido per tre mesi estivi un bambino, Ivan, proveniente dall’area di Chernobyl, precisamente da un paese al confine tra Ucraina e Bielorussia.
Ivan a 8 anni, tre meno di me, arrivò all’aeroporto di Brindisi con uno zaino più grande di lui, con dentro solo due cambi: due mutandine, due pantaloncini e due magliette e il solo paio di scarpe che aveva addosso. Occhi grandi e marroni, spaesati e anche un po’ arrabbiati. Credo per paura. Quei bambini non sapevano in che famiglia sarebbero capitati, chi gli avrebbe accolti, in che casa avrebbero dormito. Ah, dimenticavo, nello zaino aveva anche una bottiglia di vodka come presente per mio padre e una Matrioska per mia madre. Ivan ha trascorso con noi tre mesi, dormiva nel letto accanto al mio, giocava insieme a me e a mia sorella, mangiava spaghetti al pomodoro, beveva litri di latte, amava tuffarsi in piscina. È cresciuto con noi e quando quei tre mesi terminarono e arrivò il giorno della partenza, lo zaino con cui era arrivato non sembrava tanto più grande rispetto a lui e pesava tantissimo. Era pieno di cose nuove e soprattutto era pieno di pile elettriche. Diceva che erano introvabili nel suo paese e che servivano a tutta la sua famiglia.
Ivan è tornato da noi e poi presso un'altra famiglia per altre estati, diventando maggiorenne, però, i viaggi per l’Italia, con le associazioni, non poteva più farli. Siamo sempre rimasti in contatto. Lui è diventato uomo, ha studiato, si è laureato, si è sposato, ha avuto due bambini, eppure non ha mai e dico mai smesso di mantenere vivo il legame con la mia famiglia. È tornato in Italia due volte, una volta facendo anche un’improvvisata, che detta così è un po’ assurdo, considerato che il viaggio è durato due giorni e ha percorso circa 9 mila kilometri in macchina, ma Ivan voleva tornare e riabbracciare noi, il paese che lo ha accolto.
Caro direttore, dalla mattina del 24 febbraio non passa giorno che il mio pensiero e quello della mia famiglia non sia per Ivan. Ci siamo sentiti, ci ha assicurato di stare bene che è lontano dalle aree di guerra, ma è lì e questo basta per i pensieri tristi e la paura. Io lì ho un fratello e mia madre un figlio, la verità è questa. La storia che le sto raccontando è quella di tantissime famiglie italiane ed europee. Siamo connessi, ci siamo dentro fino all’anima in questa guerra assurda e fuori tempo.
Sa direttore, ad ogni telefonata, da sempre, Ivan confida a mia madre “Rita, ho paura di dimenticare l’italiano”. Mia madre lo conforta: “Ma no Ivan, lo parli ancora benissimo e poi tu chiamami così lo parli e questo non succede”. Ivan non vuole dimenticare l’Italiano e noi non vogliamo e non possiamo dimenticare lui, la sua terra e la loro voglia di essere liberi e cittadini di questo mondo.
Grazie per avermi letta.
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