Secondo l’Unhcr il numero di persone scappate dall’Ucraina ha superato i tre milioni (LaPresse) 

Un po' di Ucraina in casa. La storia di chi è scappato dalla guerra e di chi ha accolto

Silvia Nucini

Da quattro giorni in una villetta dei primi del Novecento mangiano, piangono e talvolta ridono Julia, 37 anni, sua madre Vira, 63 e Alla, 62. Il suono delle bombe non si dimentica facilmente 

C’è una fiction in tv in questi giorni. Stefano Accorsi è un magistrato, sua moglie si è suicidata, il figlio adolescente è comprensibilmente strano. Abitano in una villetta dei primi del Novecento che esiste davvero, è la casa di Silvia e Leo, a luglio scorso l’hanno affittata per qualche settimana alla produzione televisiva della serie. “A un certo punto si vede la morta in camera mia”, ha spoilerato Silvia sul gruppo WhatsApp degli amici, pochi giorni prima che la fiction andasse in onda. Poi Putin ha invaso l’Ucraina, la vita ha superato l’arte, e intorno a quel tavolo dove Accorsi il lunedì sera mangia piange e ride in tv, da quattro giorni mangiano, piangono e talvolta ridono Julia, 37 anni, sua madre Vira, 63 e Alla, 62 insegnante di Matematica alla scuola secondaria più grande di Kharkiv; Julia è stata un’alunna di Alla e, anche vent’anni dopo e a 2.590 chilometri di distanza, non riesce a non chiamarla “professoressa Petrovna”.

  
Il 5 marzo le quattro donne erano nella stessa carrozza del treno in viaggio da Kharkiv a Leopoli, ma il muro impenetrabile di persone – teste, spalle, cappelli di lana – non le aveva fatte incontrare. Diciotto ore dopo, sulla banchina della stazione d’arrivo, Julia ha visto per caso la professoressa insieme alla loro vicina di casa Tatiana. Tutte cercavano un bagno: quello del treno era inagibile, per non averne bisogno nessuno aveva mangiato né bevuto per tutto il viaggio. Tutte cercavano un posto dove andare. Tatiana era la sola ad avere un’idea molto precisa sulla direzione da dare a quella fuga diventata, inaspettatamente, di tutte e quattro. “Italia”, diceva. “E’ lì che dobbiamo andare”. Ma Tatiana è anche l’unica che in Italia non è arrivata; siccome sa le lingue si è fermata in Polonia a dare una mano all’associazione Refugees Welcome, sui cui pullman sarebbe dovuta salire anche lei, insieme alle altre. I mezzi partono strapieni, qualche volta un posto vuoto per lei ci sarebbe. “Ma alla fine lo cede sempre a qualcun altro”, raccontano le donne. 

  

 “Non so se sia giusto chiamarla decisione”, racconta Silvia: “E’ stato qualcosa che assomiglia di più a un impulso”. Poi l’arrivo del pullman 

 
Silvia aveva dato disponibilità ad accogliere due persone, poi l’hanno chiamata, di notte: “C’è una terza signora, non si vuole staccare dalle due che ti erano state assegnate, puoi prendere anche lei?”. Certo, ha risposto Silvia. Poi ha chiuso la telefonata e ha ricominciato a fare quello che stava facendo prima: guardare, insonne, fuori dalla finestra, pensando a quelle persone che non conosceva e alla decisione che aveva preso di farle entrare nella sua casa e nella sua vita.
“Non so se sia giusto chiamarla decisione”, racconta Silvia “è stato qualcosa che assomiglia di più a un impulso”. Quando l’impulso è arrivato suo marito era in Perù per lavoro, a troppe ore di fuso orario per uno scambio, un confronto; così ne ha parlato coi due figli Matteo e Tommaso di 21 e 19 anni che hanno detto subito sì, “ma io li conosco, capisco quando dicono qualcosa che non pensano”. Per niente spaventata dalla dissimulata perplessità dei ragazzi, Silvia ha mandato una mail all’associazione, è stata contattata quasi subito per una lunga intervista telefonica e richiamata poche ore dopo – così poche che il marito, dall’altra parte del mondo, non si era ancora svegliato – per comunicarle ora e luogo dell’appuntamento: parcheggio della fermata della metropolitana Cascina Gobba, ore 7 del mattino del giorno successivo. Mentre Silvia racconta e Natalia, una comune amica ucraina traduce, la professoressa Petrovna allunga il cellulare e mostra uno screenshot, c’è scritto 06.47, “è questa l’ora in cui si è fermato il pullman”, precisa. Si appunta ogni cosa sul telefono, fa foto, scrive su un quadernetto cose misteriose con caratteri minuscoli. Dice che ha paura di dimenticare.

  
Silvia non ha idea di che cosa significhi adottare qualcuno, ma le sembra che quello che ha provato nel freddo di quel parcheggio, assomigli almeno un po’ al sentimento di una donna che entra in un orfanotrofio e incontra gli sguardi di chi aspetta. Le persone, scese dai pullman, si erano divise in piccoli gruppi, a seconda della loro destinazione, c’erano soprattutto mamme con bambini, la cosa che faceva più impressione – mi racconta Silvia – è quanta poca roba avessero tutti. Bagagli minuscoli e grandi occhi stanchi con cui guardavano le facce di chi era venuto a prenderli. Quando le hanno indicato le sue tre signore e una volontaria di Refugees l’ha abbracciata per ringraziarla, Silvia ha pianto. Piange anche mentre me lo racconta. E’ stato bello, dice. Con lei c’era anche la sua amica Eleonora che guidava la macchina e poi, quando sono arrivate a casa, è stata lei ad accompagnare le donne nelle loro stanze. Mentre cercava di far capire dove avrebbero trovato gli asciugamani puliti, Vira, all’improvviso, l’ha abbracciata. “Spasiba, spasiba, spasiba, spasiba”. Grazie. Ha continuato a ripeterlo fino a quando Eleonora non si è staccata, ha scritto su Google Transalte: “Non devi ringraziare, siamo sorelle”. Allora Vira ha sorriso.

 

È stato quando hanno chiesto se per caso in casa c’erano dei sonniferi che hanno iniziato a raccontare: nessuna di loro dormiva davvero da giorni

  
Volevano solo lavarsi, all’inizio. Lo facevano capire indicando la doccia, facendo segno che avevano freddo. Silvia insisteva perché si riposassero. “Dormite”, scriveva sul traduttore automatico. Loro la guardavano un po’ perse, andavano a sdraiarsi come bambini obbedienti e dopo mezz’ora ricomparivano in salotto stanche come prima, solo un po’ spettinate. E’ stato quando hanno chiesto se per caso in casa c’erano dei sonniferi che hanno iniziato a raccontare: nessuna di loro dormiva davvero da giorni. Ha detto Julia: “Per i rumori. Se dormi li sogni. Anche se non dormi li senti nella testa, ma da sveglia sai che non è vero, che non sono qui”. Julia ha un figlio di 18 anni, la stessa età che aveva lei quando è rimasta incinta e quando il padre, nemmeno ventenne, le ha detto che non se la sentiva ed è sparito; l’hanno cresciuto lei e Vira, si chiama Evgenji.  Evgenji da quando era piccolo voleva solo andarsene via e ha fatto, ha fatto finché il settembre scorso ha vinto una borsa di studio per studiare in Slovacchia. Quando le dico che è un ragazzo fortunato perché se fosse stato a Kharkiv sarebbe forse dovuto andare al fronte, lei mi risponde che no, il motivo per cui è fortunato è “che non ha sentito i rumori”.

 
Silvia non chiede molto, anzi niente. Le guarda tutte e tre piegate sui loro cellulari, collegate a Telegram, Viber: avere il wi-fi le rassicura, non si avventurano nemmeno nel piccolo giardino sul retro della villetta, forse pensando che fuori dalle mura di casa il telefono non prenda. “Qualche volta arriva una notifica, leggono e piangono. Non ho mai visto nessuno piangere in silenzio come loro. Mi accorgo che stanno piangendo perché non sento nessun rumore. Non so cosa fare, come consolarle”. 

 

    

Alla, la professoressa, mi mostra sul cellulare una serie di palazzi all’apparenza tutti uguali, in realtà sono la sua casa, quella di Vira e Julia, la scuola in cui ha insegnato per tutta la vita non me la fa vedere perché non c’è più. Qualcuno, da Kharkiv, ogni giorno manda sui vari gruppi le foto delle case, ognuno riconosce la sua e si fa la conta di quello che è rimasto in piedi. Alla racconta del suo monolocale al primo piano: una stanza e un corridoio. Il corridoio è dove ha passato la maggior parte delle ore diurne (di notte andava nella cantina della sua scuola, erano in 500) da quando è iniziata la guerra. Con il cappotto addosso e la valigia fatta aspettava un segno che le dicesse che era ora di andare. Il 5 marzo, quando ormai in casa non c’erano più da giorni né luce né gas, ha chiuso bene la porta e si è incamminata verso la stazione. Ha lasciato lì i suoi consuoceri, che non sono voluti partire per non lasciare da solo il loro vecchio gatto, e il suo ex marito: 40 anni insieme e una figlia. Si sono separati a settembre e da allora silenzio; nemmeno la guerra li ha spinti a farsi una telefonata. “Chissà, forse se non fossi stata sola, sarei rimasta anche io”, dice Alla. Invece quella mattina ha deciso di partire. “Non ho deciso, l’ho fatto e basta”. Un istinto. Simmetrico a quello di Silvia.

  

Durante i primi tre giorni della loro vita in questa casa, la televisione è rimasta spenta. Poi Tommaso l’ha accesa senza pensarci

  
Durante i primi tre giorni della loro vita in questa casa, la televisione è rimasta spenta. Poi Tommaso, che nel frattempo aveva superato ogni perplessità iniziale, l’ha accesa senza pensarci, ed è tutto il giorno così. “Non capiscono le parole, ma non serve. Su ogni canale c’è la guerra. Sono molto stupite che qui si parli così tanto dell’Ucraina”, dice Silvia. La televisione è una bella distrazione, le giornate sono lunghissime. Vira ogni due minuti guarda l’orologio, di giorno, di notte. Più dell’informazione che ne ricava, la rassicura il gesto. Siccome due giorni fa si erano scaricate le pile del suo, Leo – che nel frattempo è tornato dal Perù – le ha comprato un orologio nuovo. “Mentre noi guardiamo la tv, lei guarda l’ora”, scherza Alla.

  

Lo zio le ha portate a Pavia, alla messa ortodossa, sono tornate a casa con tantissimi regali da parte della comunità ucraina

 
Gli amici di Silvia e Leo si sono mobilitati per dare una mano, per praticità ad ognuno è stato affidato un compito: uno fa la spesa, un altro compra le ciabatte nuove, una organizza un finto mercatino di vestiti. Lo zio le ha portate a Pavia, alla messa ortodossa, sono tornate a casa con tantissimi regali da parte della comunità ucraina: un sacco di cibo, ma anche confezioni di shampoo e bagnoschiuma. “Hanno chiesto quale fosse il posto giusto dove mettere ogni cosa e hanno detto che quella roba è di tutti. Mia nonna mi ha sempre raccontato che, durante la guerra, ognuno teneva ciò che aveva per sé, che la paura cambiava le persone. Ma forse non è vero, non più, non per tutti”, dice Silvia. Eleonora, invece, le ha accompagnate al mercato. Hanno comprato barbabietole, cipolle, carote, qualche ala di pollo e hanno preparato il Boršč, il loro piatto nazionale. L’hanno cucinato tutte insieme, Alla dice che è stato bello, Vira che aveva paura di sbagliare a buttare le cose nel sacco giusto della differenziata che da loro non c’è. Sbagliare, non disturbare, non dare incomodo o dispiacere sono preoccupazioni di tutte. Julia, da quando è arrivata si è stampata in faccia un sorriso fisso: “Non voglio che Silvia pensi che sono triste, non voglio darle nessun dispiacere”. Per farla felice, una mattina che è uscita, le ha pulito tutta la casa. Al suo ritorno hanno parlato: non siete qui in cambio di qualcosa, non c’è niente di cui sdebitarsi, soprattutto facendo le pulizie. “Ma io l’ho fatto anche per me, perché mi aiuta a non pensare”. Trovare qualcosa da fare per Julia vuol dire anche spostare l’orizzonte un pochino più in là, immaginare di poter camminare con le proprie gambe. A Kharkiv Julia lavorava in un supermercato, così si era pagata gli studi da massofisioterapista. Il progetto era di aprire un piccolo studio, intanto, dopo il lavoro, faceva trattamenti a domicilio. “Dovevo mantenere mio figlio, mia madre. E adesso che sono qui è lo stesso. Devo pensare anche ad Alla”. Ma, come spesso succede, il denaro è il sintomo di un male che affligge, invece, la dignità. 

 
La teoria di Alla è che nessuna porta si apre sul futuro se non si sa chiedere permesso, e per farlo bisogna sapere in che lingua domandarlo. Per questo si è fatta dare un foglio A4, l’ha piegato a ventaglio, e ha iniziato a comporre un vocabolario minimo ucraino-italiano. Su una colonna c’è la parola nella sua lingua, sull’altra la pronuncia scritta in caratteri cirillici, su un’altra ancora la traduzione italiana. Segue con il dito i vocaboli sulla carta, lo smalto rosso, perfetto, copre ormai solo la punta dell’unghia: le bombe sono arrivate da un giorno all’altro, non c’è stato più tempo di togliere lo smalto semipermanente. La pace, la guerra, la manicure.  
Mentre Alla, leggendo il suo foglio, pronuncia in perfetto italiano tutti i numeri dallo zero al venti, Valdo, il weimaraner di casa, già noto tra umani e animali del circondario per la sua aggressività, le appoggia il muso sulle gambe e la guarda. Lei si ferma, lo accarezza e gli parla. E’ così da quando è entrata in casa, il primo giorno. L’ha scelta, forse riconosciuta, chi lo sa. Lei gli parla, lui si accuccia ai suoi piedi e si addormenta. Alla non si muove più, dice che non vuole svegliarlo, ma sembra che nemmeno a lei vada troppo di staccarsi da quel corpo tiepido, dall’amore silenzioso che non chiede niente in cambio. 

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