Letzte Vorstellung [Last Performance], Gabriel von Max, ca. 1885 — via Wikimedia 

I nuovi idioti

Le scemenze di improvvisati geostrateghi e sperimentati tuttologi riempiono i talk-show

Michele Magno

Flaubert ci aveva già descritto bene il tipo. L’Autodidatta di Sartre, il generale di Musil ce la mettono tutta per farsi passare per competenti, ma di fatto restano due splendidi idioti

"Non si dicono mai tante bugie quante se ne dicono prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia”: quando Otto von Bismarck lasciò ai posteri il suo famoso aforisma non esistevano ancora la radio, la televisione, internet. Se fosse vissuto oggi, probabilmente il cancelliere prussiano avrebbe sostituito, con l’austero umorismo di cui era dotato, il termine bugie con il termine “stronzate”. Del resto, proprio così si intitola un irriverente saggio (in originale On Bullshit, letteralmente “merda di toro”) di un arguto filosofo americano, Harry G. Frankfurt. Pubblicato per la prima volta nel 1986, andrebbe letto e riletto. “Uno dei tratti più salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione”, avverte nell’incipit il professore emerito dell’Università di Princeton. 

 
Come dargli torto? Sono giorni in cui slogan insulsi, vuote scemenze, affermazioni che denunciano una disperante ignoranza vengono pronunciate impunemente. Se non ne hanno il monopolio, improvvisati geostrateghi e sperimentati tuttologi le brevettano a un ritmo impressionante. Dalla virologia all’invasione dell’Ucraina, dalla biodinamica alla lotta contro i tumori, nessun argomento sfugge agli artigli della libertà di pensiero senza pensiero, per parafrasare Karl Kraus. Per fare solo un esempio, a rigor di logica, secondo l’analisi costi-benefici della ricerca scientifica esposta da Alessandro Di Battista in un recente talk-show televisivo, se scoprissi una cura risolutiva del cancro mi renderei responsabile di un danno emergente per il pil (in virtù della relativa riduzione della spesa sanitaria). 

 
Frankfurt si è preso la briga di indagare la natura del fenomeno. Egli sostiene che “le stronzate sono un nemico della verità più pericoloso delle menzogne”. Il “bullshitter” – noi diremmo il cazzaro – è infatti più temibile del mentitore. Come diceva sant’Agostino, al mentitore in qualche misura interessa sapere la verità, perché per mentire deve conoscerla. Si deve cioè confrontare con la verità per poter costruire una menzogna. Se quindi il bugiardo “onora” ancora la verità e si muove nel suo orizzonte, invece chi dice stronzate la scavalca e si preoccupa solo di negarla. Un interlocutore ben informato su come stanno le cose, quindi, può sempre contrastarlo. Al contrario, il contaballe risulta più difficile da contraddire, in quanto si disinteressa completamente di ciò che è vero e di ciò che è falso. Spara le sue stronzate e, anzitutto nei talk-show e sui social network, condivide e diffonde quelle altrui per avvelenare i pozzi del discorso razionale. 

 
Descrivendo nei Promessi sposi la peste seicentesca di Milano, Alessandro Manzoni conclude con una splendida e giustamente celebrata frase: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Infatti, quando le stronzate diventano senso comune, il buon senso è costretto all’esilio. Lo stiamo vedendo in queste settimane, in cui la propensione affabulatoria per le minchiate indossa gli abiti più paludati del “neneismo”. Secondo Roland Barthes (che lo ha coniato), il termine “neneismo” consiste nello stabilire due contrari e nel soppesarli l’uno con l’altro in modo da rifiutarli ambedue: non voglio né questo né quello. Si tratta di un procedimento magico, precisa l’eminente semiologo, attraverso cui si equipara quanto è imbarazzante scegliere per liberarsi di una realtà che non corrisponde ai propri pregiudizi.

 
 Dal “né con lo stato né con le Br” di ieri al “né con la Nato né con Putin” di oggi, la nostra storia più recente è piena di neneisti. Pallide controfigure del Romain Rolland, autore, poco dopo l’inizio della Grande guerra, di Au-dessus de la mêlée (“Al di sopra della mischia”), non hanno il coraggio di assumersi la prima responsabilità che Norberto Bobbio imputava agli intellettuali: quella di impedire che il monopolio della forza, nella fattispecie di un autocrate russo, divenga anche il monopolio della verità. Al contrario, i Canfora, Di Cesare, Rovelli, Orsini, Travaglio – solo per fare qualche nome – predicano il “né di qua né di là”, ritengono che il loro compito sia quello di non sporcarsi le mani, di guardare con aristocratico disdegno i cani che si azzuffano; e magari di continuare a speculare, pronosticando sventure, sull’esito della “operazione militare speciale”. 

 
Sono quegli studiosi che, professandosi neutrali, credono “di galleggiare sui flutti – aggiungeva Bobbio – come i signori della tempesta, e sono respinti, senza che se ne accorgano, in un’isola disabitata”. Insomma, quando sono in gioco i valori sommi della democrazia liberale, non c’è spazio per posizioni terziste. Bisogna scegliere da che parte stare: o di qua o di là. Per riprendere una metafora cara a Julien Benda, tra Michelangelo che rinfaccia a Leonardo la sua indifferenza alle sventure di Firenze, e Leonardo che risponde che lo studio della bellezza occupa tutto il suo cuore, i sedicenti partigiani della pace non dovrebbero avere dubbi a schierarsi con lo scultore della Pietà. C’è un verso del “Bellum Civile” del poeta latino Lucano che recita: “Victrix causa deis placuit/ Sed victa Catoni”. Il suo senso è: la causa di Cesare vinse perché appoggiata dagli dei, mentre Catone l’Uticense perse per aver sposato la causa della libertà repubblicana. Significa che i vinti hanno sempre torto per il solo fatto di essere vinti? Ma su questo punto i cantori del “Putin accerchiato dall’occidente” preferiscono glissare, mentre invocano il diritto al dissenso (tradotto: il diritto a dire stronzate, del resto mai negato visto che sono diventati star dei salotti del piccolo schermo).

  
Poco più di un secolo prima di Frankfurt, un principe delle lettere francesi aveva affrontato la stessa questione. Nell’agosto del 1874, cominciando a scrivere l’odissea dei due copisti Bouvard e Pécuchet, Gustave Flaubert si era proposto di redigere l’inventario della stupidità umana, un tema che lo ossessionava fin dalla giovinezza. Tuttavia, nonostante la mole enorme degli esempi che aveva pazientemente raccolto nel corso della sua vita, non riuscì mai a redigere una enciclopedia ragionata della “bétise” (idiozia) né a completare il suo Dictionnaire des idées reçues (“Dizionario dei luoghi comuni”): “Credo che l’insieme sarebbe formidabile come il piombo. Bisognerebbe che in tutto il libro non ci fosse una parola mia, e che, una volta letto il dizionario, non si osasse più parlare, per paura di dire spontaneamente una delle frasi che vi si trovano”.

 
Dagli appunti che ha lasciato se ne è però ricavata una versione abbastanza estesa, in alcune edizioni pubblicata insieme a due testi: un breve quanto ironico Album de la Marquise e un paio di pagine di Catalogue des idées chic. Come scrive Rodolfo Wilcock nella prefazione al Dizionario edito da Adelphi, “durante tutta la vita di Flaubert l’immagine della Stupidità, sotto la possente spinta dei tempi, si era continuamente dilatata dinnanzi a i suoi occhi: non più soltanto attributo inestirpabile della specie umana, ma Potenza Cosmica, l’etere che avvolgeva qualsiasi parola fosse pronunciata, le chiacchiere della comare e le relazioni dell’accademico, gli appelli del politico e le sentenze del farmacista, le similitudini dei lirici e i protocolli degli scienziati”.

 
In un articolo sul Corriere della Sera (31 marzo 1969), Ennio Flaiano commentava così una riduzione teatrale di Bouvard et Péchuchet a cui aveva assistito in un teatro romano: “Questi due personaggi sono gli immortali testimoni della stupidità e Flaubert con essi intendeva dimostrare quella del suo tempo; servendosi delle idee allora correnti, oggi confutatissime o dimenticate; mettendoli alla prova nell’applicazione di quelle idee; ordinando un archivio di sciocchezze; compilando un catalogo di idee chic, cioè alla moda”. Più avanti, Flaiano auspica che il metodo flaubertiano venga utilizzato per saggiare la verità della cultura di massa, della rivoluzione culturale, del libero erotismo, del delirio scientifico, della contestazione globale, del teatro della crudeltà, della meccanizzazione totale, della disalienazione promessa dai partiti, dell’arte come terapia e della terapia come arte. Oggi Flaubert – concludeva – riscriverebbe il suo romanzo perché oggi “la stupidità non è tanto  borghese, razionalista e volterriana, come ai tempi del farmacista Homais, quanto tesa verso il futuro, piena di idee. Oggi il cretino è pieno di idee”. 

 
Ma chi erano Bouvard e Pecuchet? Due copisti che, ritiratisi in campagna grazie a un lascito testamentario, sondano gli innumerevoli campi dello scibile umano, dalla botanica alla pedagogia, dalla chimica alla medicina, dalla geologia alla religione, allo spiritismo; senza  trascurare la politica, la museologia e la poesia. Flaubert li definisce due “onischi”, gli animaletti che stanno nascosti sotto i vasi, detti anche porcellini di terra, che di fronte a qualunque pericolo sanno solo raggomitolarsi per evitare che il giardiniere li schiacci. Un giorno i due scrivani trovano gettata tra le carte destinate al macero la minuta di una lettera del dottor Vaucorbeil al prefetto, che gli chiedeva se erano dei pazzi pericolosi. Il dottore risponde che erano solo due imbecilli inoffensivi. Cosa facciamo? si domandano  di fronte a questo giudizio impietoso. Potevano indignarsi e stracciare la lettera. E invece non hanno ripensamenti. Continuano a copiare e a riempire pagine di scemenze per  completare il grande monumento allo Sciocchezzaio.

 
Uno dei personaggi della Nausea di Jean-Paul Sartre, l’Autodidatta, legge le opere che trova in biblioteca per ordine alfabetico d’autore, rinunciando a qualsivoglia criterio selettivo. L’uomo senza qualità di Robert Musil racconta come il generale Stumm von Bordwehr catalogasse le principali correnti filosofiche alla stregua di eserciti contrapposti: su un fronte gli empiristi, sull’altro i razionalisti; di qui gli idealisti, di là i materialisti. Ma le idee, poiché non obbediscono a ordini e schieramenti, si prendono gioco di lui. L’Autodidatta e il generale sono con ogni probabilità altrettanti omaggi a Bouvard e Pécuchet. Come loro, ce la mettono tutta per farsi passare per competenti, ma di fatto restano due splendidi idioti. Se Flaubert si era prefisso l’immane compito di salvare l’idiozia umana dall’oblio, trascrivendo le frasi più assurde mai tracciate su ogni tipo di carta, un progetto analogo, sia pure in un contesto tragico, lo troviamo negli Ultimi giorni dell’umanità, un testo nel quale Karl Kraus condanna la follia della Grande guerra assemblando citazioni da periodici e bollettini militari. Il piombo fuso per stampare quelle parole era lo stesso metallo impiegato per pallottole e granate. Altro richiamo: in Pierre Menard di Jorge Luis Borges, un immaginario scrittore – non a caso francese – trascrive parola per parola il Don Chisciotte. Un ulteriore omaggio a Bouvard e Pécuchet, che Alberto Arbasino considerava il secondo libro più bello del mondo proprio dopo l’opera eponima di Miguel de Cervantes: “La fascinazione per la bêtise, per la stronzaggine umana, da nessun autore è mai sentita con un’ingordigia così entusiastica e parossistica”. 

 
Bouvard e Pecuchet fu pubblicato, postumo e incompiuto, nel 1881. Come ha osservato il critico letterario Ernesto Ferrero, i suoi protagonisti incarnano a meraviglia l’uomo-massa oggi tanto diffuso: provvisto d’un robusto istinto gregario, tuttologo credulone che si ingozza di frasi fatte e si stordisce con uno zapping mentale, surfando superficialmente da un argomento all’altro, incapace di scegliere perché non sa cosa cercare, convinto di poter arrivare ovunque con poca fatica. Non si salva nessuno in questo geniale romanzo filosofico che anticipa i talk-show e i reality odierni. Flaubert usa l’impassibilità del referto – leggendolo non si capisce mai bene chi parla – per stilare una requisitoria spietata contro l’umanità, contro un falso sapere consolatorio e ingannevole. La stupidità lo indigna e al tempo stesso lo affascina. Fa dire a Pécuchet che i borghesi sono spietati, gli operai invidiosi, i preti servili e il popolo vile e insulso; e a Bouvard che il progresso è una fandonia e la politica una “bella porcheria”, ma non sa farne a meno. La sua grandezza è proprio quella di fare arte con un materiale così degradato, così ridicolo; di montare con quello il grande trattato della banalità del Male, del sussiego della cultura, dell’umana mediocrità. Come potrebbe fare uno scrittore che sapesse raccontare il tempo presente usando la spazzatura prodotta in quantità industriale dai media. In questo senso, Bouvard e Pecuchet sono i veri precursori del nostro tempo, gli eroi trasversali della presunzione che, con la loro zavorra di pregiudizi inscalfibili, si affacciano imperturbabili sulla moderna società dello spettacolo.

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