chic in japan
Prezzi folli a Tokyo, frutto di un artigianato maniacale
Il caso di Visvim, una linea ispirata in buona parte al work wear e allo stile di vita del Grande Nord americano. vestiti spenti, felpe slavate, jeans lisi e scarponi da lavoro, tutto realizzato però da artigiani giapponesi con metodi millenari. Una situazione che mostra come siamo nel Medioevo della moda
Nel 2017 mi trovavo a Tokyo, giusto due settimane di riposo per riprendermi alla fine delle riprese di Pechino Express, che quell’anno aveva attraversato Filippine e Taiwan per poi concludersi proprio in Giappone. Mentre giravo per strada buttando l’occhio alle vetrine, il mio sguardo è stato catturato da dei vestiti spenti, felpe slavate, jeans lisi e scarponi da lavoro. Non ero conquistato dalla loro bellezza, ma stupito: mi sembravano indumenti fuori posto in una cornice così avveniristica. Pantaloni anonimi capaci di mimetizzarsi con il grigiore di un ufficio del catasto e camiciole che vostro padre potrebbe tranquillamente indossare alla grigliata del sabato. Nessuno di quei capi ricordava il misticismo delle spalline di Rick Owens. Tutt’al più, facevano pensare al look di uno che pesca salmoni nei fiumi di Hokkaido.
La sorpresa si è fatta più grande quando ho notato i prezzi: la classica varsity jacket (per intenderci, quella che indossano gli sportivi bulletti dei film americani) costava quattromila euro, mentre una giacchetta di pelle scamosciata – pressoché identica al giubbino di renna di vostro nonno – veniva poco meno di diecimila euro.
Ora, lungi da me fare il moralista sui prezzi della moda, ma la cosa mi ha incuriosito e mi sono andato a informare. Nonostante quei vestiti puzzassero lontano un miglio di America, lavoro duro, mani callose e spazi aperti, il marchio in questione era di gran pregio e giapponese al cento per cento. Visvim, infatti, è una linea ispirata in buona parte al work wear e allo stile di vita del Grande Nord, ma è stata fondata da Hiroki Nakamura nel 2001 a Ura-Harajuku, un’area low key dello sfavillante e iperattivo quartiere di Shibuya, a Tokyo.
Nakamura, classe 1971, è cresciuto con il mito dell’America più aspra e incontaminata. Quando da giovane ha cominciato a viaggiare, infatti, si è tenuto a debita distanza da New York, San Francisco e Los Angeles: a lui interessava l’Alaska, dove è entrato in stretto contatto con le comunità indigene e con la loro idea di abbigliamento. Tornato in Giappone, Nakamura ha deciso di riversare nella sua moda tutte le influenze assorbite nel Grande Nord, e così le vetrine dei suoi prestigiosi negozi fanno pensare a una versione deluxe di un negozietto Lumberjack degli anni Ottanta. Mancano solo le camicie di flanella e le foglie d’acero.
Ma allora perché Visvim si è conquistata un angolo di tutto rispetto nel mondo della moda? A quanto pare, i prezzi folli sarebbero giustificati da una lavorazione artigianale al limite della maniacalità. Nakamura fa realizzare, trattare e tingere i tessuti seguendo procedimenti antichi e in buona parte manuali, quindi anche dietro a dei banali chinos che potrebbe indossare il vostro capoufficio, in realtà si nasconde un processo lungo e laborioso che, senza servirsi delle tecnologie e della logica produttiva su larga scala tipiche della fast fashion, ne riproduce (seppure con molta più grazia) gli stilemi classici: una moda per papà, goffamente eterosessuale, che suggerisce un’inclinazione domenicale all’avventura e alle gite fuori porta, realizzata però da artigiani giapponesi con metodi millenari.
E’ un po’ come quando lo scultore iperrealista Charles Ray ha provato a creare una statua che replicasse alla perfezione le sue fattezze e, per farlo, ha deciso di realizzare con le proprie mani la camicia, i pantaloni, le scarpe e le mutande che indossa solitamente: quindi, quello che sembra un semplice paio di Clarks sdrucite è in realtà un manufatto unico nel suo genere, prodotto da un artista di fama internazionale.
Il caso di Visvim dimostra che siamo nel Medioevo della moda. Come in Narciso e Boccadoro, da una parte ci sono i Nakamura che si trincerano in convento per tenere in vita antichi e anacronistici saperi manuali; dall’altra, invece, c’è chi si immerge fino al collo nelle paludi del mondo, sputando fuori vestiti in cui l’unico lembo di stoffa che conta è l’etichetta dietro il collo.