Due libri, una discesa agli inferi
Ceccarelli, Graziosi, e i creator del nostro scontento
Politici che fanno gli influencer e influencer che si buttano in politica. A Roma “ho preso il muro fratellì”, sbattendo contro il muro, mentre Milano è capitale dei sogni (e incubi) social. Non regge la profezia pasoliniana sui dialetti: altro che scomparire con l’omologazione, oggi trionfa il “local”, Napoli è la capitale di TikTok
Se improvvisamente un missilone di quelli che ormai ogni giorno tiranni di vario genere sperimentano e testano in funzione dimostrativa finisse sullo sfortunato nostro paese, se a Putin o all’ormai trascurato dittatore coreano scappasse il dito tremolante sul famigerato bottone rosso, della civiltà odierna italica archeologi del futuro potrebbero apprendere quali erano i “mores” dei nostri “tempora” da due libri molto diversi usciti lo stesso giorno, il 28 aprile. Sono “Lì dentro”, di Filippo Ceccarelli (Feltrinelli), e “Il profilo dell’altra”, di Irene Graziosi (e/o).
Libri diversissimi, a partire dall’età dei due autori: Ceccarelli è del ’55, Graziosi del ’91. E dalla copertina: quella di Ceccarelli, la cui mitezza romana vuole in primo piano un bel carciofone, non si sa se alla romana o alla giudìa, e invece uno specchio riflettente e pure scheggiato (tiè) per buttarsi in un selfie analogico, quello di Graziosi, promettente giovane autrice e “pentita dell’Instagram”. I due reperti parlano dello stesso tema, il nostro presente social, dal consumatore al produttore: quello di Ceccarelli è un viaggio iniziatico-picaresco dentro il suo telefonino, “lì dentro”, alla ricerca di “Mostri non rovinati” per dirla col solito Capote, oppure rovinatissimi. Il “bad trip” di un colto archeologo del presente che sotto la maschera del romano sornione cataloga e connette, dopo aver frugato per decenni con pietas ed expertise politico, alla ricerca di sempre nuove frattaglie. “In pratica, da un giorno all’altro mi sono buttato dentro Instagram”, scrive. “Con l’idea di cercare – pensa tu – le mie radici, quelle dell’Italia e degli eterni italiani che siamo e quasi certamente rimarremo. Sforzo soggettivo ed emotivo tale da mettere in causa, tra un clic e l’altro, mio padre, mio figlio, l’andirivieni della storia e lo stato dell’odierna vita pubblica”.
Libro flaianesco in forma di diario, di frammento, piccola testimonianza, di uno dei nostri più bravi giornalisti del costume politico e non solo, che come archivista adesso esplora questo nuovo corpaccione digitale – only connect, secondo il celebre dettato. Consapevole del proprio boomerismo, denunciandolo anzi subito: “Tutto è iniziato con un disagio. Forse un fatto senile, la paura di sentirsi superato, tagliato fuori, obsoleto, chiuso al nuovo, invisibile. Quella stessa paura che a un certo momento spinge alcuni vecchi a indossare vestiti dai colori sgargianti, spaventose camicette gialle, pantaloni rossi da turista tedesco, pedalini fantasia che gridano: “Ehi, ci sono!”. Eppure con una curiosità: “una certa stanchezza di sguardo sul passato di questo paese, un affaticamento nel trovare spunti umani nella vicenda politica, il sospetto che si stava esaurendo una fase quasi più personale che professionale. Dirà il lettore: e chi se ne frega”. Il viaggio al centro della terra di Ceccarelli, boomer romano autodichiarato, non è certo quello di un parruccone, anzi. “Instagram mi piace da impazzire, letteralmente; Twitter per niente; Facebook non l’ho ancora capito tanto bene; YouTube mi affascina, però mi stanca, mentre TikTok deve essere formidabile, ma non ho tanto tempo e così me lo becco di seconda mano quando rimbalza sul mio schermo. Gli altri, boh, in tutta sincerità ho pure un po’ di strizza a registrarmi, eccetera. Quel che ho mi basta e soverchia, come diceva Andreotti”.
Ceccarelli tira in mezzo anche la famiglia, il nonno, celebre Ceccarius, giornalista e storico di antichità papaline, che teneva nota di stramberie locali, come certi preti cleptomani, certi suicidi in fontana di Trevi, certe fortunate estrazioni al lotto legate a decessi di porporati. E il papà pure, che invece lo spedisce a Termini a “vedere le facce”, pura tecnica zavattiniana. E poi la moglie Elena Polidori, e i figli, vincendo qualche reticenza, cioè al contrario della materia che indaga, dove ognuno mette in mostra qualsiasi fegatello della vita interiore. Con qualche regola, per salvarsi, per non sprofondare. “Mi imposi come cintura di castità che non avrei mai e poi mai interagito con direct message: solo spionaggio passivo, osservazione partecipante”. Coadiuvato dal figlio Giacomo trentenne, a cui il libro è dedicato, che lo sorveglia, lo incoraggia, lo frena. L’emozione della prima chiamata Instagram, “io sopra e lui sotto, fu come al Luna Park. Mi fece usare i filtri magici di Instagram, subito mi misi le orecchie da coniglio, poi gli occhiali neri tipo Berlusconi con l’uveite, e poi anche il muso da maiale”.
Elena, seria giornalista, e qui controcanto e controvoce al viaggio agli inferi ceccarelliano, a un certo punto, pone delle regole: via l’audio del tuo maledetto Instagram, almeno a letto. Ma a una vigilia di Natale il Nostro dimentica o forse trasgredisce, per la lieta festività, ed ecco un Salvini natalizio intento a una diretta Instagram, che parla al suo seguito, “saluto tutti i bambini”, insomma fa quella cosa da stanco dj di provincia, le dediche, per cui era famoso mesi che sembrano ère geologiche fa, nella sua maschera più tragica, quella notturna social. E Elena domanda: ma che, è Salvini? Sì. Ma che sta da solo, a Natale? Sì. La risposta, sordiana, con tempi comici perfetti: “Poraccio!”. E “poraccio”, è la definizione che improvvisamente cade non solo su Salvini ma su tutti loro, poveracci i politici di questo tempo che ogni santo giorno devono inventarsene una o due. Poveracci, spiantati e obbligati a improvvisare siparietti d’intimità. “Poveracci, che in ogni momento si vedono costretti a darsi in pasto a una folla internautica di cui credono di indovinare le fatiche, i desideri, le frustrazioni, i malumori, i fiotti di rabbia o gli spasmi di forzata indifferenza”. La politica incontra Instagram ed è una pietra tombale: “Fuori dal quartierino della politicuccia social, la concorrenza è impari, aspra, spietata. Per conquistare un po’ di attenzione, i leader e i sotto leader devono vedersela con le suggestioni delle merci, dello sport, del sesso, degli spettacoli e di quanto produce contenuti ben più avvincenti delle loro beghe. D’altra parte, l’idea che i partiti possano modificare o riformare le strutture pubbliche non sta né in cielo né in terra. Nemmeno un presidente della Repubblica sono riusciti a individuare e a votare. Né gli serve a molto appiccicarsi come parassiti alle emozioni, alle liti, alle euforie, alle catastrofi della cronaca così come alle vittorie dei campioni del calcio”. Perché il giudizio di Ceccarelli, solo apparentemente bonario, su questa classe che conosce bene e che ora attende alla prova dei social, è definitivo. Da moralista secentesco, sotto il travestimento della maschera romanesca.
Dai “Buongiornissimi”, scrive Ceccarelli, è venuta fuori una classe politica “di bambini, o se si preferisce di adulti rimbambiniti. Una sdolcinatezza insieme stucchevole e mirata, una piaggeria strategica che finiva per combinarsi o per riequilibrare contenuti di impatto polemico e anche violento, tipo – sempre lui – Salvini con un mitra in mano (a qualche fiera di mercanti d’armi, dietro di lui c’era Morisi) e sotto o sopra il medesimo Salvini con l’orsacchiotto. “Era così: il candido agnellino e l’extracomunitario violento, la legittima difesa e la pizza con la Nutella, nulla di intermedio; per dire che tanto appariva semplice, la Bestia, nella sua visceralità”. E per Renzi: “quell’accozzaglia di immagini, in quel circo d’irrilevanze, in quel baraccone di furbi sentimentalismi fermentava il nucleo indicibile della decomposizione di un ceto e in fondo di un sistema politico”.
Ceccarelli cerca linee, continuità, tracce, coadiuvato da Leopardi e Guicciardini, su alcuni caratteri immortali. Teorizza che la mania declamatoria social-twitteristica sia la prosecuzione con altri mezzi delle immortali scritte sui muri; subisce nello scherno nel figlio la fascinazione per personaggioni instagrammatici da urlo: Federico Fashion Style, Algero Corretini, quello di “ho preso il muro, fratellì”, il super coatto tatuatissimo che va contro i muretti in macchina (“Incontenibile, l’altra sera in chat ha alzato la gamba e scoreggiato suscitando entusiasmo in un giovane interlocutore. Quindi è andato a disturbare la diretta di una ragazza che parlava di cosmetica ponendo la domanda con affettata cortesia: posso colorare l’ano? Quella, indignata, prima gli ha dato del maleducato, poi si è lasciata andare, ‘Ma chi ti si incula!’, donde la replica, ormai risolutiva: Hai preso il muro, sorelli’!”).
Poi scova preti social, filosofi alla Fusaro, il ballerino Gianluca Vacchi, il re delle diete Panzironi, Davide Lacerenza lo sciabolatore di champagne, (“vai, vai, cavalla, kruggate” – dal nome del costoso champagne Krug, – Wanna Marchi che dopo la tv, il carcere, la gloria, la polvere, ha una sua nuova esistenza instagrammatica…). Alla fine si arrende. La materia social – decide – è “un miscuglione di spettacoli, pulsioni, umori, balletti, volgarità che per loro natura fuggono ogni eventuale, molto eventuale prospettiva di ricerca; figurarsi se rispondono alla domanda delle cento pistole scariche: se gli italiani sono cambiati o sono rimasti gli stessi”.
Forse però resistono certe catalogazioni, quella in furbi e fessi di Prezzolini (compresi i fessi che si fanno fregare da social media manager che gli promettono vagonate di follower); di certo non regge la profezia pasoliniana sui dialetti: che sarebbero dovuti scomparire con la famigerata omologazione, e invece oggi è tutto un tripudio di “local”, con indotti e nicchie (Napoli per esempio regna come un microcosmo sovrano del TikTok); Barzini e i suoi “Italians”: gli italiani sono quelli che “sanno mettere in scena la vita come un’opera d’arte nell’atto stesso di viverla”.
Instagram è felliniana, dice Ceccarelli, perché nessuno meglio di Fellini ha saputo cogliere la frattura drammatica, ma sempre più fertile in visioni, che andava aprendosi fra la modernizzazione della società italiana e l’arcaico passato con cui disperatamente ancora oggi continua a fare i suoi conti. “Nessuno più di Fellini seguita ad accompagnare queste apparizioni di volti, corpi e sproloqui come sui social se ne trovano a bizzeffe”.
La prospettiva, essendo Ceccarelli persona mite, è mite, tutto il contrario di quella contenuta in un altro libro, che racconta le peripezie dei nuovi mostri milanesi. A Roma, gli influencer infatti non se li filano molto, come non si filano qualunque cosa, ma si sa che ormai a Milano, dopo il Green pass, per farti entrare alla Stazione Centrale ti chiederanno un minimo di cinquemila followers. A Milano ormai anche la tua portinaia ha un social media manager e, come sede del desiderio collettivo (delle merci, del sesso, del desiderio fine a sé stesso), Instagram è la prosecuzione con altri mezzi di un sistema basato sull’immagine e sulla promozione dei commerci (dunque: where else?).
Milano, la città stato, ha gli influencer in consiglio comunale, e non potrebbe essere diversamente, il sindaco Sala si posta doviziosamente (a Roma il povero Gualtieri, ancora analogico, come apice di modernità va a suonare la chitarra da Serena Bortone). E Irene Graziosi, romana inurbata a Milano, fa la sua inchiesta nel suo mondo, una specie di “Preghiere esaudite”, se vogliamo rimanere a Capote, alla ricerca di “mostri non rovinati”. Nella vita Irene è una giovane donna che fa l’autrice di un’influencer di gran successo, Sofia Viscardi, ragazzina boccoluta che anima “Venti”, piattaforma che parla alla generazione Z. Nella finzione della copertina specchiante, il libro è invece la storia di Maia, giovane un po’ squinternata in cerca d’autore, che nella Milano arrembante e instagrammatica d’oggi si trova il lavoro (per molti) dei sogni: autrice e ventriloqua appunto d’una influencer. Anzi, creator, perché Gloria Linares, la svampita presenza a cui i brand pagano cifre miracolistiche per apparire, così vuole essere chiamata. “Pare che il loro lavoro consista solo nel fare foto indossando i prodotti dei brand, mentre in realtà creano contenuti”, protesta. Gloria Linares “ha due milioni di follower, ha recitato in due film. E’ una creator importantissima. Ogni anno viene invitata dal Presidente della Repubblica. Ha scritto un libro di poesie che ha venduto duecentomila copie, ha fatto riscoprire la poesia alla web generation”. Apparentemente donna senza qualità: “in lei non vedo niente di straordinario. Se fosse più bella, più intelligente, perfida, sfrontata, zelante, allora forse capirei. Ma lei non è nessuna di queste cose. E’ una ragazza qualunque. Non è bizzarra, non è affascinante, non è sexy”. Qualcosa di suo ce l’ha, però. “L’ignoranza. Non sa quando è scoppiata la Rivoluzione francese”.
“Tu le devi fornire una personalità”, le dicono, alla autrice di creator: perché “lei è un contenitore vuoto”. Il romanzo ci guida tra deliziosi dettagli dello stupidario contemporaneo (“lo sai che non dovresti comprare fast-fashion?”, dice la creator alla spiantata che cerca lavoro, al primo colloquio, perché si sa che gli abitucci di H&M e Zara sono il male assoluto in certe bolle, ma lei però il problema non se lo pone, li ruba direttamente).
C’è la catena alimentare del dolore che porta followers. “Un gatto genera meno like di una foto con la nonna, però il record è l’animale domestico morto. Il dolore per gli animali morti sui social va forte, naturalmente. E’ un dolore prevedibile, non conosce classi sociali, generi e orientamenti. E’ universale e non mette a disagio chi lo incrocia sui social”. “Sui social sono tutti buoni. Soprattutto chi appartiene a una minoranza-non-privilegiata. Se sei sfortunato non puoi essere meschino”. C’è il virtue signalling perpetuo (i creator che postano cose contro la violenza sulle donne nel giorno della violenza sulle donne; contro la transfobia nel giorno contro la transfobia, e nell’anniversario del G8 di Genova “tutte le ragazze nate un paio d’anni prima della morte di Giuliani ricordano con tono patetico il 2001 come se per loro avesse significato qualcosa”). C’è “l’ossessione per la povertà, lo status di povera ad honorem deriva dal terrore di essere additata come privilegiata sui social, luoghi in cui negli ultimi anni sta prendendo piede la tendenza a effettuare complicati calcoli per capire chi sia il più ontologicamente sfortunato e quindi il più degno di attenzioni, follower e soldi”. Più altre frattaglie di questo mondo che ci scorre sul telefono (di nuovo, “lì dentro”): “ai follower piace quando gli influencer si incontrano e fanno delle foto insieme”. “Da quando le pubblicità hanno cominciato a martellare le consumatrici con il concetto di autostima e non più con quello di bellezza i due termini sembrano diventati equivalenti, solo che uno, l’autostima, è socialmente accettato, l’altro no”.
Maia a questa creator deve fornire un’anima, tipo Boncompagni con Ambra, e le scrive sul telefono le cose da dire in pubblico che quella leggerà sull’iWatch, moderna derivazione delle auricolari di “Non è la Rai”, la cui influenza sinistra sembra di sentire nel romanzo. Se trent’anni fa ragazzine da tutta Italia scendevano allo studio Palatino (tra le rovine romane) per trovare il successo tra i fondali azzurri, oggi accorrono a Milano, nuova fabbrica dei sogni. Peppi Nocera, autore all’epoca del programma di Boncompagni, oggi lo è della serie “I Ferragnez”, dunque ecco un “filo”, forse vago, o inutile – ma anche nel libro di Graziosi c’è una nonna meridionale, che sembra un “topos” imprescindibile nella nuova morfologia della fiaba instagrammatica (c’è nei Ferragnez, la nonna proletaria cartomante, ma anche in “Corpi minori”, il libro di Jonathan Bazzi). E come in Bazzi anche in Graziosi è interessante che nel nuovo grande romanzo milanese la narrazione cartacea che vien fuori non corrisponde alle stories: sull’Instagram è tutto pazzesco e “mi fa volare”, sulla carta siamo dalle parti di Bianciardi, viene fuori una città crudele e difficile – “io Milano non la trovo dinamica, la trovo squallida”, dice Maia. “Mi sembra di essere una figurina nel rendering di un progetto di architettura, e tutti quelli che mi stanno attorno mi danno la stessa impressione. (...) Agli eventi gli invitati si studiano torvi chiedendosi a quale gradino sociale appartengano rispetto a chi li precede in fila per l’open bar”. L’ufficio è “uguale a tutte le altre fabbriche milanesi riconvertite a open space, co-working, laboratori: parallelepipedi di cemento con finestre che solo il racconto maniacale che Milano fa di sé stessa riesce a rendere attraente”. La Darsena “fino a qualche settimana prima, nel greto ora fetido e traboccante di rifiuti, scorreva un corso d’acqua”.
Milano è così diversa dalla Roma ceccarelliana, una Roma ancora papalina e immobile (c’è un delizioso aneddoto di cui si è stati testimoni: il provento di un lavoro extra, Ceccarelli lo impiega tutto nel far restaurare una madonnina votiva, quelle che guardano giù da tanti angoli di strada, a Trastevere, e naturalmente finirà in un inferno di autorizzazioni, permessi, nulla osta: ogni buona azione non resterà impunita).
Irene Graziosi è autobiografia millennial della nazione, romana pure lei, di Montesacro, figlia di un esimio storico del comunismo russo, arriva a Milano dove se magna tutti in un secondo, capendo con intelligenza sociale da Sandra Carraro come funziona il Bilderberg instagrammatico del paese, retto del resto da parrucchieri pr visagiste incoronati maître a penser. La città della profezia di Enrico Vanzina, città che non ha gli anticorpi contro la fuffa, abituata com’è a credere a tutto ciò che dice, del resto è una città basata su un illusione, che deve essere sempre nuova (la pubblicità, la moda, il design, adesso Instagram). Città stato, tipo Israele, concentrata e coordinata, si regge su un patto psichico: tante persone che si mettono lì e investono e decidono che dev’essere un posto ganzo e poi il posto diventa ganzo veramente (non è in fondo la stessa cosa di Instagram?). A differenza di Roma, dove nessuno crede in niente e dunque non succede niente (e sempre e solo rovine).
La grande differenza tra i due libri non è poi solo il “set”: il romano Ceccarelli come il Capote che scende agli inferi e si innamora degli assassini e dei mostri rovinatissimi di “A Sangue freddo” fa tenerezza, racconta la sua goffaggine, la passione per il proletariato della Rete, per i fegatelli, per i meandri, pezzi meno pregiati che stanno lì, tipo televendite su reti locali che si guardano di notte. Una per tutte le presse, che appassionano anche noi – “sono dei cilindri d’acciaio, probabilmente giapponesi, che agiscono implacabili, inarrestabili. Non v’è traccia umana presso questi torchi e asettico è il fondale su cui prende vita il loro funzionamento. L’attenzione è interamente concentrata sugli oggetti, per lo più domestici, sottoposti all’immane pressione. Un tubetto di dentifricio, un pallone da basket, un barattolo di pelati, una confezione di assorbenti, un flacone di schiuma da barba, una barretta dietetica, una bottiglietta di coca cola, un’arancia. Tutto procede nel massimo silenzio, tutto implode sfigurandosi piano piano in colate di bollicine, vermoni di vari colori, sbuffi di cotone, frantumi di ingranaggi, e ogni cosa diventa irriconoscibile”.
Invece Graziosi ci sguazza, tra i mostri rovinatissimi che descrive con iperrealismo, e il romanzo ricorda libri come “Porci con le ali” o “Vestivamo alla marinara”, romanzi che fissano con precisione quasi sinistra un momento storico, preziosi più come documenti che come manufatti di stile. E chissà cosa diranno, alcuni anche molto riconoscibili, come il giovane filosofo improvvisamente diventato celebre a Parigi grazie a saggi su funghi e piante – “aveva oltrepassato il confine che separa i saggi accademici da quelli pop, riuscendo a far sentire intelligenti e profonde le persone che lo sfogliavano, convinte che la propria incapacità di comprendere alcuni paragrafi fosse sintomatica della genialità di chi li aveva costruiti”. O l’editor colto specializzato in “libri scadenti che scalano le classifiche e dopo due settimane se ne tornano nell’oblio per poi rispuntare anni dopo nelle ceste dei libri usati”, o la stessa Sofia Viscardi, dante causa di Graziosi, creator da 1,2 milioni di follower per cui Graziosi lavora veramente da quando la creator è una creatura. A lei, terribilmente somigliante alla Gloria del romanzo, il romanzo è dedicato.
Ma son cambiati i tempi, si capisce che son preoccupazioni da boomer, oggi del resto nessuno si suiciderebbe per lo sputtanamento, come avvenne per “Preghiere esaudite”, il romanzo che distrusse Capote. Anzi, ci saranno aumenti di engagement, perché oggi si sa che “l’algoritmo premia l’indignazione”, come dicono gli influencer: pardon, i creator.
Politicamente corretto e panettone