Come rinasce Torino nell'animatissimo “Fuori Eurovision” al Valentino
Gli anziani, la povertà, il calo demografico. Ma poi ci sono il pop, i giovani, l’innovazione: l’arma più forte. Così la città ritrova fiducia e slancio
Lei, Torino, la città dell’Eurovision Song Contest (Esc), splende. L’altro giorno ho portato mia madre in via Po 25, dove è nata e ha abitato da piccola. Sono sempre case di ringhiera, adesso però belle, ripulite; una volta il gabinetto stava al fondo del balcone e serviva tutto il piano (è una di quelle cose, forse la prima, da ricordare agli antimoderni: defecare subito dopo il vicino di casa, l’asse ancora caldo, senza bidet), adesso chiaramente ci sono fior di bagni in ogni appartamento, doppi servizi, anche. E poi, tornando verso Santa Rita, che meraviglia piazza Vittorio, la prima collina, il parco del Valentino col villaggio dell’Eurovision pieno di gente, e anche piazza d’Armi con il PalaOlimpico dove si tiene la gara…
Però in effetti, mi avevano avvertito, in via Po e dintorni c’è anche un numero sorprendente di senzatetto, italiani e immigrati, che dormono accampati sotto i portici, e le periferie non sembrano splendere come splende il centro. E’ quasi sempre così, in tutte le città, ma camminando per certi quartieri disertati dalla Fiat e dall’indotto Fiat, o anche attraversando in auto il nord della città, come abbiamo fatto l’altro giorno per andare all’inaugurazione dell’Esc alla Reggia di Venaria, ci si ricorda facilmente che Torino è la più grande della ventina di città italiane che il Mise ha dichiarato “aree di crisi industriale complessa”, il che vuol dire tra l’altro – era il succo del rapporto Rota Futuro rimandato di tre anni fa – saldo pesantemente negativo nel computo delle imprese che aprono o chiudono, scarsa densità di startup tecnologiche, basso valore aggiunto, incapacità di attrarre da fuori giovani laureati o addottorati brillanti, nonché di tenere sul territorio quelli prodotti dall’università e dal Politecnico, che continuano a essere qualitativamente sopra la media; e poi a catena calo demografico ingente, marginalità nei collegamenti aerei e ferroviari nonostante l’alta velocità, disoccupazione giovanile a livelli meridionali, alta percentuale di Neet eccetera.
Insomma, il futuro postindustriale della città stenta ad avviarsi dopo il tramonto della one-company town, ma questo ormai da un paio di decenni… Ne parlo con il sociologo Giovanni Semi, che vive a San Salvario, e che su Torino ha scritto molto (ultimo ebook per Einaudi: Bdsg. Breve manuale per una gentrificazione carina). La povertà diffusa, mi dice, è un vecchio problema – Torino non è mai stata una città ricca – però aggravatosi enormemente negli ultimi anni un po’ per l’afflusso di rifugiati che non sono stati assorbiti, ma soprattutto per l’onda lunga del lockdown, che ha messo sul lastrico tutti quelli che non avevano risparmi, che non potevano stare neanche un mese senza lavorare, un numero di persone molto più alto rispetto a quello che ci s’immaginava.
Così ora ci sono quartieri interi, gli ex quartieri operai e di quadri Fiat a sud della città, che galleggiano soprattutto sulle pensioni, e lo si vede camminando per le strade, dove abbondano i pensionati con cani, i manifesti con la pubblicità dei corsi di ginnastica posturale, dei Vendo Oro, della cessione del quinto, mentre scarseggiano i bambini; e quartieri più giovani, nella zona nord, dove però c’è vera miseria sia tra i vecchi residenti, per lo più di origine meridionale, che non hanno mai fatto il salto di classe, sia tra i nuovi immigrati.
I Grandi Eventi come l’Esc servono a qualcosa? “Servono a far vedere al mondo che la città esiste, è bella, ed è in grado di organizzare cose del genere con competenza, in un ambiente accogliente. Ma naturalmente non possono essere il motore dello sviluppo, perché danno sì un po’ di respiro a chi lavora negli alberghi, nei ristoranti, nel catering, nella logistica, ma non producono lavori buoni, non fanno crescere competenze che possano essere spese una volta che il Grande Evento si è concluso”.
Ed è ovviamente così, è chiaro che una città di un milione d’abitanti che non è né Firenze né Venezia non può campare di turismo e di Eventi. Però quello che sta succedendo intorno all’Esc sembra dare qualche timido segno di speranza. Al Valentino la Fondazione per la Cultura del comune ha montato un palco sontuoso, di quelli che in città, all’aperto, non si vedevano da anni, e nei giorni scorsi il parco si è riempito di migliaia di torinesi soprattutto giovani che dopo due anni di clausura non aspettavano altro. In migliaia al dj-set di Giorgio Valletta, in migliaia per lo Stato Sociale e i Negrita, e molta attesa per i giorni successivi anche perché dal palco del Valentino passeranno molti dei cantanti che gareggiano all’Esc al PalaOlimpico, due o tre chilometri più a sud. Per una volta si è riusciti a lavorare, come si dice, sinergicamente, con i responsabili della European Broadcasting Union e della Rai.
“Non è la panacea per i mali di Torino – mi dice Vittorio Di Tomaso, imprenditore nel settore dell’intelligenza artificiale – ma è un possibile inizio. La crisi è evidente, ed è una crisi ormai più che decennale. Ma ci sono segnali incoraggianti. Si tratta intanto di attrarre aziende nel campo dell’alta tecnologia, e questo ambiente attrattivo si sta formando, anche grazie a capitali privati (Intesa Sanpaolo, Leonardo, le fondazioni bancarie Crt e Compagnia): le Ogr (Officine Grandi Riparazioni), per esempio, stanno diventando un enorme generatore di aziende che in parte nascono a Torino ma che in buona parte vengono da fuori, e che si tratta quindi di tenere sul territorio, vincendo la concorrenza dei soliti poli mondiali dell’high-tech. Per farlo, per attrarre e conservare imprese innovative, è la città intera che deve assumere quelle caratteristiche che già hanno le altre grandi città europee, e i grandi eventi sono uno dei modi in cui questo può avvenire. Può, non è detto che avvenga per forza”.
Quali Grandi Eventi, però? Ci sono stati i campionati Atp di tennis, ma mi pare abbiano dimostrato che i grandi eventi possono anche non generare nessun beneficio di lungo periodo per la città: si sono giocati un po’ d’incontri, si è finiti in tv per qualche giorno, si è montato il salone degli sponsor in piazza San Carlo ma tutto è finito lì. A parte, certo, il ritorno economico, che però è limitato nella quantità e soprattutto nel tempo. “Mi pare invece – osserva Di Tomaso – che Eurovision stia avendo una risposta inaspettata: un programma televisivo di cui nessuno sapeva niente, una gara di cui in realtà a nessuno interessa granché (quando mai uno farebbe la fila per vedere un rapper lituano?) sta mobilitando la città, i giovani soprattutto, perché il comune ha saputo sfruttare l’occasione e si è inventato l’Eurovision Village al Valentino.
E’ una specie di ritorno alla vita, dopo la pandemia, qualcosa che rimarrà impresso a una generazione intera di ragazzi: perché da quanti anni non si vedevano diecimila persone tutte insieme in un parco torinese, e non in un parco qualsiasi, il parco più bello del centro? I simboli contano. Per una città che è vecchia e – cosa più grave – si percepisce vecchia, è un ottimo modo per recuperare fiducia. Trattenere e attrarre le startup tecnologiche; rimettere Torino sulla mappa del pop: mi sembrano imprese parallele, imprese mirate al benessere delle prossime generazioni, e che con molto sforzo e molta buona politica sono senz’altro alla portata della città nei prossimi anni”. Ottimismo torinese: ci salutiamo su questo ossimoro.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio