Lode alle popstar che esibiscono la loro gravidanza
Il simbolo più forte del potere femminile ora si prende la scena. Le donne rompono con una moda opprimente
Che l’occidente abbia da un paio di millenni un problema con l’esibizione della gravidanza, della nascita e dei gesti che la accompagnano non è una gran notizia. Tre anni fa, durante il sinodo panamazzonico, in Vaticano scoppiò una gran polemica per l’immagine di una donna indigena che allattava un roditore, usata sugli striscioni con un testo che inneggiava alla circolarità della vita e, sottinteso, alla potenza di chi la dà; nottetempo, qualcuno buttò anche nel Tevere una Pachamama, immagine amazzonica della fertilità, cioè una donna incinta, non troppo diversa dalla Venere di Willendorf che studiamo da decine di anni con molta ammirazione, e che era stata collocata per l’occasione in Santa Maria in Transpontina.
Qualcuno disse anche di aver visto un Priapo nei giardini del Vaticano. Il Priapo, capite, come se non se ne trovassero infinite tracce, e simboli, e rimandi, nelle grottesche e nelle ghirlande dei Musei vaticani. Si levarono voci indignate fra i tradizionalisti che non comprendevano la necessità di esporre idoli “pagani”, mentre i progressisti parlarono dell’importanza di accogliere simboli diversi da quelli cattolici nel processo di evangelizzazione dei popoli. Papa Francesco tirò dritto, e la polemica si spense com’era nata, fatto salvo per alcuni il vero choc di aver letto sui giornali l’aggettivo “pagano” al di fuori di un contesto storiografico.
Resta però il fatto che la gravidanza e i suoi segni visibili sono, per l’ovest del mondo ma in genere ovunque, un’esperienza talmente complessa, una stratificazione di sentimenti e di simboli così multiforme e così contrastante, da non evocare immagini del tutto positive nemmeno nelle parole che la definiscono e la raccontano. In spagnolo si definisce notoriamente “embarazo”, un termine che ha un sostrato pre-romano nella definizione di laccio o cordone, mentre in inglese il pancione è “baby bump” (significato principale: colpo. Derivati: bernoccolo, protuberanza), insieme con il francese di “grossesse”, che esclude perfino la presenza di un bambino nel corpo della madre, deviando l’attenzione sulla sua forma, come peraltro e appunto il “pancione” nazionale. Per i romani, più pragmatici, la gravidanza godeva invece addirittura di tre termini, a seconda della fase della gestazione: gravida, che equivaleva al concepimento andato a buon fine; praegnans cioè “occupata in generando”, e inciens, “propinqua partui”, cioè vicina al parto. Come sia accaduto che il termine logicamente più utilizzato, quello di praegnans cioè di “pregna”, sia diventato talmente volgare da non essere usato nemmeno in veterinaria, non è chiarissimo.
La gravidanza è un’esperienza talmente complessa da non evocare immagini positive nemmeno nelle parole che la definiscono
Certo è che, a poco a poco e in particolare dopo l’avvento del cristianesimo e della cristologia, la gravidanza si è trasformata in un momento nella vita della donna, e nella vita in generale, avvolto da un misto di sacralità, di necessità e di vergogna tali che per lunghi secoli non si è nemmeno definita se non con giri di parole e con un abbigliamento pensato innanzitutto per occultarla. A leggere qualche prima pubblicità di abiti prémaman preconfezionati sui giornali di fine Ottocento, in Inghilterra come in Italia, si percepisce lo sforzo eufemistico: abiti “per la giovane matrona”, “per la donna sposata in recente”. In una società puritana in cui il sesso era qualcosa che le donne “sopportavano” per essere ricompensate con la “gioia di diventare madri” (andarsi a rileggere qualunque testo anche letterario dell’epoca), la gravidanza era uno spiacevole memento del peccato necessario per avere bambini. Anche benedetta dal vincolo del matrimonio, la grossezza era in fin dei conti la dimostrazione che si intrattenessero rapporti sessuali e che i bambini non nascessero sotto i cavoli cioè per partenogenesi, evidenza che non poche scoprivano due minuti prima di imboccare la navata avvolte nel velo della pudicizia e che si protraeva fra mille imbarazzi per tutta la vita, come testimonia anche la più straordinaria invettiva letteraria contro l’eccesso di bigottismo dell’educazione femminile, scritta peraltro da un uomo e affidata al suo personaggio Fabrizio Salina contro quella moglie che, invocando tutti i santi a ogni rapporto, gli fa passare la voglia, spingendolo, tesi bizzarra fino a un certo punto, nelle braccia di un’amante ben più libera di testa e di modi.
Come il movimento di liberazione sessuale del secondo Novecento non abbia toccato anche quello della liberazione estetica e visiva della gravidanza è un altro dei tanti misteri che circondano il tema: guardate le immagini delle donne che sfilano nei primi Settanta per la battaglia sull’aborto. Ve ne sono anche incinte: portano tutte salopette informi o camicioni arricciati.
E’ cambiato tutto in due mesi. Gli ultimi. A fine febbraio, quando negli Stati Uniti tornava a sobbollire una nuova campagna per bloccare la trasformazione in legge della storica sentenza che ha legalizzato l’aborto (bocciata poi dal Senato pochi giorni fa, nuova tegola sull’amministrazione Biden in tema di diritti umani), sulla passerella milanese di Gucci si è presentata Rihanna col pancione a vista. Non nuda, fotografata in studio di profilo e con le luci soffuse come Demi Moore nel celebre scatto di Annie Leibovitz per Vanity Fair del 1991, una mano a coprire il seno, l’altra sotto la pancia, che tantissime hanno copiato negli anni, bensì vestita e incoronata modello regina di Saba con il ventre – brutto anche il termine “ventre”, eh? – scoperto. Ha replicato una settimana dopo da Dior con un vestitino di chiffon nero, cioè trasparente: un modello baby doll del genere che nell’iconografia dei Cinquanta indossano le pin up, e che dunque portava Rihanna dieci passi oltre l’immagine della “sessualizzazione della gravidanza” di cui i media del secolo scorso accusarono Leibovitz per lo scatto a Demi Moore. “Aspettare un bambino”, anzi per dirla con Ovidio essere gravide – che impressione anche questo termine, no? – era sexy.
Nella società puritana, la gravidanza era uno spiacevole memento del sesso, peccato necessario per avere bambini
La gravidanza smetteva di essere un fatto privato per diventare celebrazione estrema della femminilità (un tempo, in pubblico dovevano certificare la propria gravidanza solo le regine, le annotazioni della corte di Versailles sulla nascita della figlia di Luigi e di Maria Antonietta, riprese dai fratelli Goncourt mezzo secolo dopo, con la folla che invade la sala al momento del parto mentre i paraventi cadono addosso alla puerpera, sono quanto di più atroce si possa immaginare). Gravidanza festeggiata come status, perché in un mondo occidentale che fanno sempre meno figli per molte ragioni, di cui quella economica non è la meno importante, mostrare che non si nutre la minima preoccupazione per il proprio futuro, che ci si può permettere di sfoggiarlo, è il segno ultimativo del benessere.
Gravidanza come espressione di potere femminile, perché se un medico indiano annuncia di voler tentare l’impianto dell’utero in un transgender, notizia di pochi giorni fa che segue a molti altri annunci simili nel corso degli ultimi anni e alla storia della prima riassegnazione sessuale, quella di Einar Wegener/Lili Elbe negli anni Venti del secolo scorso di cui Eddie Redmayne rivestì qualche anno fa i panni nel film “The Danish Girl”, risulta sempre più evidente quanto la capacità generativa sia non solo l’ultimo tabù, ma anche l’unico aspetto della vita femminile che qualunque tentativo di assoggettamento da parte dell’uomo non è riuscito a governare e di cui ha, essenzialmente, un oscuro timore (per info, qualunque passo della Bibbia da Ruth in poi).
Rihanna va dieci passi oltre la “sessualizzazione della gravidanza” di cui i media accusarono Annie Leibovitz per lo scatto a Demi Moore
Che la gravidanza sia diventata, o almeno stia diventando, un momento di celebrazione fashion, un momento di moda, è dunque un’ottima notizia. Un calcio all’ultimo retaggio in cui noi che siamo diventate mamme negli Ottanta ci siamo trovate invischiate, in senso proprio. Nessuno avrebbe osato chiederci di occultare la pancia per questioni di pudore; ci suggerivano però di farlo comunque perché senza adeguate protezioni di mutande fascianti e infiniti massaggi con certi oli cosmetici che lasciavano lucide come pesci prima di un servizio fotografico (si usa olio di macchina, lo sapevate?) e appiccicose come carta moschicida, ci saremmo ritrovate con un reticolo di smagliature. Quindi, tutte fasciate e imbibite di grassi come mummie anche con trenta gradi all’ombra, si parla per esperienza. Prima di Rihanna, ben oltre Emily Ratajkowski che ha modellato scatti e post sul modello di Demi Moore, credevamo che la scelta di esibire la pancia sarebbe rimasta confinata fra le popstar, fra chi insomma può, anzi deve, infischiarsene del pudore, del bon ton o di quel che ne resta in un mondo dove un vecchio critico d’arte può dare della befana a una trentenne di successo planetario fra gli sghignazzi del popolo delle tastiere.
E invece, il modello Rihanna, donna di panza come si è sempre detto degli uomini di potere, sta rapidamente prendendo piede anche fra imprenditrici, modelle e socialite di ottima educazione e miglior matrimonio, vedi Giovanna Battaglia Engelbert, direttrice creativa globale del marchio Swarovski a cui ha dato un clamoroso risveglio glamour, che nelle scorse settimane si è pubblicata su Instagram con il pancione della seconda gravidanza “incintato” con una catena di cristalli, ché poi l’origine è proprio questa, nell’incingere, dell’incarnarsi ma anche del circondare, “alma sdegnosa / benedetta colei che in te s’incinse”. Il motivo per cui scriviamo questo articolo, in realtà, è proprio lei: modello di eleganza, di bellezza, di chic, che ritiene arrivato il momento non di esibire, ma di celebrare, simbolicamente, la gravidanza, nelle stesse settimane in cui la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris dichiara “tristemente”, che il “Senato americano ha fallito nel difendere il diritto di scelta delle donne sul proprio corpo”.
L’America che tenta di ricusare Roe vs Wade è la stessa che parla di Rihanna come “stile radicale nella maternità”. Due facce della stessa medaglia
Il fatto, vedete, è che la pancia esibita non è una questione di moda, benché la storia del costume testimoni che secoli di moda femminile siano stati orchestrati, alternativamente e con molti evidenti patemi, attorno alla glorificazione della fertilità in uso dell’abbigliamento del tardo Trecento e del primo Quattrocento, vita alta e piegoni a simulare un’eterna gravidanza (per info osservare il cassone Adimari o l’affresco della principessa e san Giorgio di Pisanello conservato a Verona), oppure al rifiuto della connotazione sessuale della nascita dalla Controriforma in poi (il verdugado della corte spagnola o guardinfante, la rigida impalcatura a cerchi concentrici, in origine addirittura in metallo, che aveva ufficialmente, e come la traduzione italiana “guardinfante” lascia intuire, la funzione di proteggere il nascituro, un po’ come le pancere con fascia di sostegno degli Ottanta: si proteggeva, negando). Il tema vero è che l’abbigliamento prémaman è stato uno degli argomenti e delle modalità attraverso le quali il mondo come lo conosciamo ha esercitato fino a oggi il controllo sull’autonomia della donna, a partire dalla sua fertilità, e non serve neanche citare l’Afghanistan e il burqa perché basta, di nuovo, aprire un testo di storia del costume o leggersi la storia del velo femminile curato da Maria Giuseppina Muzzarelli per capire come sia andata anche nel Mediterraneo: anzi, a partire dal Mediterraneo (“A capo coperto”, Il Mulino).
La nuova generazione di mamme se ne infischia delle smagliature, la modella Ashley Graham le ha addirittura esibite in un video che ha fatto il giro dei social, mentre l’America che da una parte tenta di ricusare la storica sentenza Roe vs Wade è la stessa che usa per Rihanna il termine di “stile radicale nella maternità” e forse sono due facce della stessa medaglia in un paese che si vuole progressista, ma tale non è nei fatti, al punto che Gucci ha già annunciato che, attraverso la sua fondazione Chime for Change, sosterrà economicamente chi dovesse spostarsi fra stati Usa se l’aborto diventasse illegale in alcuni di questi, unendosi anche a un numero crescente di marchi che hanno preso posizione sui rischi a cui stanno andando incontro i diritti riproduttivi delle donne. Pochi giorni fa, Levi’s ha lanciato un’iniziativa analoga, grazie alla quale i dipendenti potranno essere rimborsati delle spese di viaggio per spese sanitarie, “comprese quelle legate alla salute riproduttiva e all’aborto”.
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