Napoli 'ngrata

Francesco Palmieri

Sinologi a Pechino, musicisti a Odessa, nobili diventati nomadi. Tutti i figli scappati dalla città, tornati e riaccolti con freddezza

Il proiettile destinato a un altro, una ricchezza che si rovescia in povertà, un vuoto di memoria generale che rende un nome anonimo. Mamma Sirena può diventare illogica matrigna: un figlio lo accarezza e l’addormenta, un altro lo allontana o lo ferisce a morte se s’azzarda al ritorno. L’incognita di Partenope, che angoscia chi è sospeso fra la definitiva fuga e il “ricomincio da tre”, o almeno “da me”, nella città dove nacque, campeggia con la regolarità di una stella nel cielo sopra il Vesuvio.

 
E’ il tema conduttore dell’ultimo romanzo di Ermanno Rea, Nostalgia, da cui Mario Martone ha tratto l’omonimo film con Pierfrancesco Favino e Francesco Di Leva, unico italiano in concorso per la Palma d’oro al Festival di Cannes che s’apre il 17 maggio prossimo. Il protagonista torna al Rione Sanità dopo una vita in giro per il mondo e forse spera che la sua Samarcanda non coincida con le strade infantili, dove gli è rimasto un conto da sistemare. E’ il nostos che Rea conosceva per esperienza biografica e forse scrivendo esorcizzò, ma a differenza del personaggio del suo libro evitò di tornare a morire nel rione dove era cresciuto. La Sanità: “Strade strette e tortuose, palazzi fatiscenti, alle spalle una storia lunga più di due millenni, testimoniata da ipogei, altari, sepolcri scolpiti, scale che scendono sottoterra come volessero raggiungere le viscere del pianeta”. Il regista Pasquale Squitieri e il grande Totò, nati anche loro nel quartiere, ci tornarono solo da morti, e Totò per un ulteriore funerale a bara vuota voluto dal guappo Luigi Campoluongo, che aveva benedetto Squitieri giovane e ispirato a Eduardo – nel personaggio di Antonio Barracano – Il sindaco del Rione Sanità. Ne fece un film proprio Martone nel 2019.

  
Colto da nostalgia notturna, svegliando il suo autista, dalla casa ai Parioli Totò talvolta si faceva portare a Napoli per impulso repentino. E diventò leggenda la realtà del principe, che infilava un po’ di buste di denaro sotto le porte dei “bassi” prima di dileguarsi nuovamente all’alba verso Roma. Prima che la Sirena s’accorgesse della fugacissima visita.

 
C’è chi soffre la distanza, c’è chi se ne frega, chi vorrebbe tornare ma ha paura e chi nemmeno sogna di rivedere la città da cui è fuggito dandole colpa di avergli ostacolato i successi. Il pittore Salvator Rosa, partorito sull’altura dell’Arenella, sprezzò l’imperdonabile Napoli: “Di Partenope in seno ebbi la cuna, / ma la Sirena, che m’accolse in grembo, / non poté addormentar la mia fortuna”. Quando il figlio si rivolta alla madre, il risentimento prevale sulla nostalgia: “A chi nulla mi diede, io nulla devo: / lascio ad altri gustar le simpatie / del Posilipo suo, del suo Vesevo”. E c’è il sospetto che anche Core ’ngrato, scritta da due emigrati a New York nel 1911, alludesse sotto le spoglie di una donna alla Sirena, spesso avara di pane coi figli migliori.

  

Colto da nostalgia notturna, svegliando il suo autista, dalla casa ai Parioli Totò talvolta si faceva portare a Napoli per impulso repentino

 
Se Partenope, nel suo capriccio, manifesta avversione, il prezzo di certi ritorni diventa troppo salato. Come nel misconosciuto caso, quasi rimosso dalla memoria collettiva, del barone Guido Amedeo Vitale, poliglotta sin da bambino per talento e passione, poi prodigioso interprete presso la legazione italiana di Pechino tra l’Otto e il Novecento, unico straniero a detta dell’imperatrice vedova Cixi a capire e parlare perfettamente il cinese all’epoca in cui i maggiori orientalisti europei lo studiavano come una lingua morta. Si facevano vanto, da Stanislas Julien a Carlo Puini, di non aver mai messo piede in Cina, traducevano i classici taoisti e confuciani e signoreggiavano nell’accademia ma non sarebbero stati capaci di fare la spesa in un mercato di Shanghai. La curiosità esuberante spinse Vitale alla stesura di corrispondenze per il giornale La Tribuna e alla composizione di una grammatica e un vocabolario della lingua mongola. Preso dopo vent’anni di lontananza dalla nostalgia di Napoli, lasciò il posto di segretario interprete alla legazione di Pechino per insegnare all’Istituto orientale della sua città. Il 20 marzo 1918 sfuggì per miracolo con moglie e figli a un curioso ma tragico evento di guerra: uno Zeppelin tedesco si stagliò nel cielo partenopeo per sganciare bombe tra la meraviglia della popolazione. Vitale, che aveva vissuto la stagione avventurosa della Rivolta dei Boxer, gli intrighi della Città proibita e conosciuto palmo a palmo i vicoli pechinesi, dove s’inoltrava per gli studi sul folklore, rimase molto impressionato dal pericolo di quel giorno. Ma era solo un’avvisaglia: l’unghiata della Sirena arpionò il figlio geniale giusto due mesi dopo. Il 20 maggio, mentre Vitale sorbiva il caffè a un tavolino della galleria Umberto I, scoppiò una lite tra due malviventi abituali: Camillo Napoletano soprannominato ’o scemo ed Enrico Ferrante detto l’elettricista, che impugnò una pistola e sparò all’altro. La pallottola, invece di colpire ’o scemo, andò a ficcarsi nel cuore di Vitale, che morì nel trasporto all’ospedale. Aveva 46 anni. Morte assurda per crudeltà del caso e perché il caso, propiziato dall’umana delinquenza, si sarebbe ripetuto ai danni di tante altre vittime di cui si ricordano solo le più vicine nel tempo.

   
Molti figli della Sirena, coscritti e volontari, degni o indegni, morivano in quei giorni nelle trincee della Grande guerra. Alcuni tra i peggiori, invece, si godevano a casa il sole di maggio: come Ferrante l’elettricista, al quale i postumi di quattro revolverate patite in una sparatoria tempo prima avevano fruttato l’esonero militare. Quando i cronisti del Mezzogiorno andarono a intervistare la sua donna, Nannina detta capa ’e vacca, lei “non pareva affatto turbata dal grave fatto”. L’abitudine sminuisce.

  

Guido Amedeo Vitale, unico straniero a detta dell’imperatrice Cixi a parlare il cinese all’epoca in cui veniva studiato come lingua morta

  
Parte dei diari e delle fotografie lasciate dallo sfortunato barone è stata appena raccolta in un libro (Guido Vitale di Pontagio. Il facile princeps) pubblicato da Vincenzo Amorosi, che si è ricongiunto a distanza di circa un secolo con gli altri discendenti dei sei orfani dello studioso (il maggiore aveva 12 anni). La nobile cinese sposata da Vitale, ribattezzata Maria Luisa, morì poco dopo di lui nell’epidemia di “spagnola”. Il tempo tutto può sbiadire ma non ha seppellito il libro Pekinese Rhymes, in cui lo studioso napoletano salvò dall’oblio le filastrocche e le ninne nanne recitate ai bambini, con un lavoro di raccolta sul campo cui dedicava le ore libere, tipico esempio di come spesso a farci sopravvivere tra i posteri siano le occupazioni marginali o gratuite più che gli obblighi biografici.

  
Basta talvolta una canzone per meritare una lapide sul tipo “Qui visse” (o “Qui morì”), una canzone sola fra le molte scritte lungo anni di antieroiche corvées, quando verseggiare per musica e praticare il giornalismo consentivano più la sopravvivenza che la vita. Fu questo il caso di Giovanni Capurro, poeta e cronista, autore del più grande spot per Napoli assieme al musicista Eduardo Di Capua, con cui firmò ’O sole mio (dimentichiamo un terzo nome apposto al brano, che con la scusa di avere rifinito le biscrome gli editori imponevano per risucchiare i già magrissimi diritti). Ci fosse stato il copyright di dopo, Capurro, Di Capua e i rispettivi eredi sarebbero stati milionari. Si spensero invece tra la fama e la fame l’uno a 61 anni e l’altro a 52, mentre ’O sole mio era diventato globale quasi quanto la Bibbia. E’ stato ricordato, in questi giorni tristi per Odessa, che la canzone nacque lì: Di Capua e il padre, anche lui musicista, cercavano nel cosmopolita porto ucraino il benessere che la Sirena negava in patria. Eduardo si rammentò dei versi che gli aveva affidato Capurro e pensando al sole di Odessa o a quello di Napoli li completò con la musica.

  

Capurro e Di Capua, gli autori di “’O sole mio”, si spensero tra la fama e la fame mentre la canzone era diventata globale quanto la Bibbia

  
Tornato a casa avrà forse rimpianto quei giorni né gli valsero altri successi clamorosi (come I’ te vurria vasà) per conseguire agiatezza. Mamma Sirena lo aveva allattato dal seno sbagliato, sicché Di Capua tirò avanti suonando il pianoforte durante i film muti e agognando sempre un terno al lotto, per cui dissipava i pochi guadagni. Cinico come i veri giocatori, quando il giovanissimo poeta Vincenzino Russo con cui collaborava si spense per tisi, giocò i numeri sul decesso ma non ne uscì nemmeno uno. Il giorno che finalmente imbroccò una vincita la dilapidò in una spropositata festa. Quasi a dispetto della ricchezza e della povertà. Per pagarsi le ultime cure mediche dovette vendere il pianoforte e solo trentacinque anni dopo la morte, nel 1952, il capo dello stato elargì 100 mila lire a Concetta vedova Di Capua, che ricevette un altro gruzzolo da una sottoscrizione di italoamericani mossi a generosità dal caso. Se Eduardo fosse rimasto a Odessa invece di tornare a Napoli. Chissà.

 
Considerò Giuseppe Marotta, con cui la Sirena fu meno tirchia ma neanche troppo generosa: “Come si diventa preziosi dopo la morte! Non vedo l’ora di estinguermi, per essere commemorato, descritto, lodato, eccetera: per sapere finalmente chi ero. Forse un vero, un intero Marotta comincerà effettivamente allora”.

   

Andrea Giovene di Girasole, un’esistenza vagabondante. Come il protagonista di “Nostalgia” di Rea, un conto aperto l’aveva lasciato anche lui

 
Poche non sono, nel mondo letterario, le andate senza ritorno o le andate e ritorno da Napoli all’altrove. Noto è il caso di Nicola Pugliese, autore di Malacqua, riconosciuto capolavoro di fine Novecento appena riportato in libreria da Bompiani e che vide una precedente riedizione solo l’anno successivo alla morte dello scrittore, il quale s’era appartato nel paese irpino di Avella sprezzando l’ambizione ed evitando il ritorno, mentre il suo nome cresceva per assenza tra quanti ne amavano la prosa. Curioso fu pure il destino di un autore che, dopo brevi fiammate, cadde e ricadde nella dimenticanza: Andrea Giovene di Girasole, duca napoletano dal suffisso nobiliare guareschiano, che nacque nel 1904 e morì nel ’94 dopo un’esistenza vagabondante per evadere dall’oppressione famigliare e dalla città che percepiva angusta. Fu a Roma e Milano, commesso di libreria, guida turistica a Parigi, archeologo dilettante a Palinuro, ufficiale di cavalleria, superstite dei lager nazisti, mercante antiquario a Londra e inevitabilmente giornalista. Molte donne conquistò ma senza fare breccia nel cuore della Sirena abbandonata, che lo riaccolse con freddezza. La sua Autobiografia di Giuliano di Sansevero, opus magnum anche per dimensioni (messa assieme pesa circa 1,3 kg), cominciò a stamparla in proprio a Napoli ma piacque a un finlandese, che gli procurò un contratto con un editore di Stoccolma. Il libro, che poco ha a che vedere con Il Gattopardo ma cui fu paragonato per nobiliari analogie, uscì in svedese nel ’66 poi fu tradotto in varie lingue, dall’inglese al polacco, e pubblicato in italiano da Rizzoli. Dopo un lungo silenzio lo rieditò la romana Elliot nel 2012 in un tomo unico a cura di Emanuele Trevi. Un invisibile velo di oblio, meno definitivo di un proiettile, meno dolente dei morsi della fame e tuttavia puntiglioso, grava nella sua città sull’opera e il nome del duca di Girasole, che si fece nomade per scordarsi di essere nobile ma dovette ricordarselo al ritorno perché, come il protagonista di Nostalgia di Rea, un conto aperto l’aveva lasciato anche lui. Non con i vivi, ma con i morti. Glielo enunciò uno zio: “Noi non l’abbiamo lasciata mai, la città. Dai tempi lontani; nei tumulti; nella peste, trecent’anni fa. Anche se in Africa, con san Luigi; in Olanda con Farnese; a Lisbona; in Morea: come anche tu hai fatto. Ma alla fine, come quelli, qui hai riportato quel che avevi fatto”.

  
Ai nobili di Girasole e ai magliari di Francesco Rosi; ai sinologi sperduti a Pechino e ai musicisti a Odessa; a pittori sdegnosi e a teorici del ritorno che non ritornarono; a Raffaele La Capria, Ermanno Rea e a tutti quanti i figli della Sirena è dedicata quella canzone da salotto lanciata da Cottrau e così famosa: “Addio mia bella Napoli / Addio, addio…”. La cantò ai primi del ’900 Enrico Caruso, ma anche un povero baritono dal nome sontuoso di Ercole Laici che era ridotto a “posteggiare” per i ristoranti. La ricantò Lucio Dalla negli stadi di “Banana Republic”. Ciascuno dando alla struggente interiezione un significato così vago e individuale che solo la Sirena lo sa.

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