Giustizia giusta
Viva i tribunali senza lo star system. Parla Edmondo Bruti Liberati
Il complicato (e conflittuale) rapporto tra giustizia e informazione nel libro dell'ex procuratore di Milano, che con il Foglio parla a tutto campo di un riformismo basato sulla ragione e non sul tifo
Da magistrato ha attraversato tutti gli uffici, fino al gradino più alto di procuratore della Repubblica di Milano, dal 2010 al 2015. Da studioso ha indagato le sfaccettature di un ordinamento cruciale e complesso, guardando spesso oltre confine (è stato tra i firmatari dell’Appello di Ginevra per la costruzione di uno “spazio giudiziario europeo”, correva l’anno 1996). Ha coperto molti ruoli nel cosiddetto parlamentarismo dei magistrati, pur non amando lo star system delle toghe. Con autoironia, ha rivendicato di essersi “iscritto da giovane al Comitato centrale della Anm e a quello di una delle correnti, Magistratura democratica”. Non rinnega quelle scelte neppure adesso, mentre nel dibattito politico e nel sentire pubblico la parola “corrente” suona appestata: è un bene che i magistrati pensino e la pensino diversamente, dice, aiuta a ben giudicare. E’ stato presidente di Md ed è stato anche membro del Csm. Dell’Anm, fu presidente nel momento di massimo scontro sulle riforme del ministro leghista Roberto Castelli. Eppure Edmondo Bruti Liberati non ha mai inteso la sua adesione a una corrente o il suo impegno associativo in senso politico o come una questione corporativa: anzi ha sempre criticato quei colleghi che si sentono investiti di compiti di altra natura, e ne fanno spettacolo. Di suo, ha sempre perseguito un’idea temperata di Giustizia basata su una sorta di riformismo continuo: un impegno a migliorare regole, funzioni, comportamenti. Anche oggi, da osservatore privilegiato e distanziato degli scontri al calor bianco tra magistrati e politica (Anm ha indetto per oggi uno sciopero addirittura preventivo contro una riforma non ancora varata), insiste nel suo metodo: la magistratura ha il diritto di avanzare critiche a proposte di riforma ritenute controproducenti, ma ha il dovere di farsi carico dei problemi e di avanzare proposte alternative, senza agitare preannunci di sciopero. Ha messo per molto tempo le sue competenze a servizio della cooperazione giudiziaria europea, e gli è servito per dotarsi di uno sguardo bilanciato su quanto avviene in Italia. Ben sapendo che, oggi più di ieri, la giustizia non si esercita soltanto nelle aule, ma ha ricadute comunicative e sociali che investono tutti i livelli della convivenza civile. Autore anche di saggi di taglio storico (Magistratura e società nell’Italia repubblicana, 2018), ha da poco pubblicato un libro, Delitti in prima pagina - La giustizia nella società dell’informazione (Raffaello Cortina, 288 pp., 19 euro) che mette alla sbarra, se così si può dire, uno degli aspetti più complicati: le reciproche (e non sempre virtuose) influenze tra magistratura e opinione pubblica.
E’ lo spunto per una ampia conversazione del Foglio con Bruti Liberati – ovviamente con il sottofondo ben udibile delle polemiche e del disagio che la magistratura italiana vive da molto tempo, proprio mentre le riforme che il ministro Marta Cartabia sta provando ad attuare incontrano il fuoco di sbarramento di una parte della magistratura e dei partiti. Parlare di Giustizia, in Italia, non è mai un discorso neutro. In questi mesi, nel trentennale dell’inizio di Mani Pulite, sono stati pubblicati molti volumi, tra memorialista e qualche riflessione critica (non molte). Nonostante il titolo, quello di Bruti Liberati è però un saggio dal sapore accademico. Che prova a mettere in prospettiva storica ciò che per tutti è solitamente aspra cronaca incandescente. I problemi della magistratura italiana, sembra dire l’ex procuratore di Milano, anche in relazione alla formazione non sempre corretta dell’opinione pubblica, non sono solo italiani e non nascono certo negli ultimi decenni.
Così, con dotta citazione nelle prime pagine, tanto per mettere il tema in cornice, ricorda che Georges Méliès, uno dei padri del cinema, realizzò già nel 1899 un cortometraggio sull’Affaire Dreyfus, il processo più politicamente infuocato dell’epoca. Giustizia chiama spettacolo. Colpisce scoprire che la prima “legge bavaglio” in Italia è addirittura datata 1874. “In quell’epoca l’attenzione della stampa era tutta concentrata sulla Corte d’Assise, perché lì si giudicavano i reati di sangue, ma anche i reati politici, compresa la diffamazione. Questo attirava l’attenzione pubblica”, spiega Bruti Liberati. Servivano già allora degli argini. “Ho studiato a fondo alcuni antichi casi francesi e anglosassoni che ‘fecero epoca’; autori come Henry Fielding o André Gide scrivevano regolarmente di giudiziaria. Il mio non è un vezzo: vi faccio riferimento perché qui da noi sembra che i problemi siano solo nostri, ‘il caso italiano’ della giustizia, si dice sempre. Invece non è così”. Lei indica problemi che esistono in tutti i paesi. Però colpisce che la legge francese che porta il nome di Elisabeth Guigou sulla presunzione d’innocenza, di cui parla, una riforma in senso garantista della procedura penale, ha più di vent’anni (2000) e ha più o meno gli stessi contenuti di uno dei decreti Cartabia che hanno scatenato polemiche in Italia: come se davvero fossimo indietro di vent’anni. Vent’anni di garantismo perso. “Devo dire che la legge francese era forse più interessante”, commenta senza concedere troppo alle nuove linee guida italiane. “Riporto nel libro un interessante lavoro che fu pubblicato da Le Monde, che aveva sottoposto al gabinetto del ministro un elenco di celebri fotografie di cronaca per valutare quali si sarebbero potute o non potute pubblicare con le nuove norme”. Il risultato è interessante, le maglie erano strette e il confine è sempre difficile da tracciare. Tanto che non mancarono le polemiche, persino un grande fotografo come Henri Cartier-Bresson arrivò a denunciare la censura. Bruti ne fa, come da sua forma mentis, una questione tecnica e procedurale: “Nel caso italiano, non condivido l’impostazione che pretende di intervenire nei modelli della comunicazione: ci sono conferenze stampa ben fatte e altre inefficaci, disastrose, esibizioniste. La conferenza stampa è un esercizio difficile, va preparata bene soprattutto quando si è nella fase iniziale dell’inchiesta e c’è il problema del rispetto della presunzione d’innocenza da bilanciare col dovere di dare le notizie, proprio per evitare che siano date informazioni scorrette”.
Quindi il decreto non la trova tecnicamente d’accordo. “Il principio è sacrosanto. Ma è sbagliato pensare di ingessare le modalità della comunicazione o pensare che la soluzione sia il ricorso alle iniziali degli indagati a qualche ‘presunto’ o al condizionale. La stella polare deve essere il rispetto della dignità della persona”. Il decreto poteva esser scritto meglio? “Innanzitutto, c’è la nozione di interesse pubblico… L’interesse pubblico non è il magistrato che lo valuta, ma il giornalista. Nella quotidianità degli uffici i cronisti cercano di capire le notizie, c’è una comunicazione informale che, se si limita a un’informazione di tipo tecnico, è utile affinché non si pubblichino poi notizie errate. E’ giusto che questo scambio informale avvenga, ma è bene che sia filtrato dal procuratore, o da un addetto alla comunicazione”. Ma in Italia, scottati dall’acqua calda di mille inchieste-spettacolo, siamo molto sospettosi anche di quella fredda. E non solo in politica. Qualche tempo fa il procuratore che seguì il caso di Cogne ha ammesso in un’intervista di essere stato male informato, all’inizio, dai suoi sostituti: così uscirono notizie errate e questo provocò gravi storture all’indagine. Non è meglio mettere dei freni? “Questo può sempre accadere. Di fronte all’evento drammatico, la pressione della stampa è legittimamente fortissima e per il pm è molto difficile l’equilibrio tra dare notizie utili e entrare invece in quello che viene detto il ‘circo’”. Già, una parola che a voi magistrati non piace. “Faccio sempre una battuta: ‘Circo mediatico giudiziario’ è il titolo del più brutto libro di Daniel Soulez Larivière, e anche il più ipocrita. Lui è un principe del foro francese. Peccato che sia poi uno di quelli che i media li ha sempre saputi usare molto bene. Per evitare il ‘circo’, io insisto sulla necessità di fare una scuola per i magistrati, di istituire dei corsi di comunicazione”. Come ne esistono in Francia, appunto. “In Francia ci sono corsi di comunicazione già per gli uditori, cioè magistrati in tirocinio. La scuola della magistratura francese ne organizza anche con l’Ordine dei giornalisti. Ne ricordo uno molto utile sulla comunicazione in situazioni di crisi. In Francia ad esempio fu molto elogiato il procuratore di Parigi per come gestì i rapporti con la stampa dopo il Bataclan. Non era facile. Ma lui è intervenuto molto, ha dato molte informazioni, ha aiutato la chiarezza per tutti”.
Secondo lei su questi aspetti l’Italia è arretrata per una cattiva cultura giustizialista, o perché manca la formazione? O perché la buttiamo sempre in politica, la solita rissa sulle leggi bavaglio? “La cosa peggiore è la tifoseria pro e contro. E’ un fenomeno che c’è sempre stato, anche prima della televisione. Io appositamente ripercorro alcuni casi che hanno fatto la storia, anche all’estero: innocentisti e colpevolisti. Quello che continua a esserci da noi è la tifoseria”. Non è tutta colpa dei giornali, però. “Quando i pubblici ministeri si inseriscono con dichiarazioni auto elogiative della propria indagine, questo non aiuta, anzi fa male alla stampa e alla giustizia”. Qualche anno fa siamo stati devastati dal gioco comunicativo degli avvisi di garanzia, riguardo a indagini politiche, fatti volutamente passare come condanne, e non solo dai giornalisti. “Le regole vanno rispettate. Iscrivere subito l’indagato a volte significa non voler tirare per le lunghe i tempi delle indagini, bene. Ma iscrivere subito non è sempre giusto. Il mio collega Pignatone a Roma, prima di andare in pensione, ha fatto una bellissima circolare ricordando che l’informazione di garanzia può essere addirittura un danno se troppo anticipata”. Sempre una questione di correttezza procedurale, dunque. Ma ai tempi i pm si trinceravano dietro “l’atto dovuto”, che nell’opinione pubblica veniva percepito come un anticipo di sentenza. Le storture furono notevoli. “La giaculatoria sull’‘atto dovuto’ non va bene”, ammette Bruti. “Ma spesso può essere difficile da valutare”, aggiunge: “Faccio un esempio che riguarda la cronaca: se c’è un caso obbligato di atto dovuto sull’informazione di garanzia, è la legittima difesa. Lì è davvero una garanzia necessaria per la persona indagata. In altri casi, la prudenza impone di fare verifiche più approfondite”.
Problemi mai affrontati e non risolti. Lei racconta del celebre “caso Murri”, a Bologna all’inizio Novecento: un delitto familiare che coinvolgeva un professore importante, laico o massone. Ne scaturì una guerra a mezzo stampa tra colpevolisti (in questo caso il giornale cattolico di Bologna) e cronisti laici, innocentisti per partito preso. C’erano già tutti i problemi del cattivo rapporto tra giustizia e giornalismo, compresa la pressione della stampa sui processi. Lo vediamo anche adesso, peggiorato dalla tv e dai social media. Non è cambiato nulla? “Credo che oggi un passo avanti è stato fatto, anche solo per la pluralità di fonti informative. Poi, se discutiamo dei processi, attenzione. Si citano sempre le condanne europee che l’Italia subisce. Ma l’Italia ha un record di condanne non per le mancate garanzie, ma per la lunghezza dei processi. La Francia, con tutta la simpatia per il paese che ha dato al mondo la prima dichiarazione sui diritti dell’uomo, ha subìto condanne molto più gravi per mancato rispetto delle garanzie”.
La lunghezza dei processi, appunto. Uno scandalo. Eppure c’è una parte politica che voleva addirittura annullare la prescrizione. Bruti Liberati è a favore della ragionevole durata dei processi, ovviamente. Ma, anche qui, storicizza: “Va tenuto conto di una cosa, nel dibattito sulla durata dei processi. L’Italia ha avuto fenomeni di criminalità organizzata che altri paesi non hanno conosciuto. Per questo abbiamo una legislazione antimafia che altri non hanno. E questo ha inciso anche sui tempi delle indagini. Qual è il vero rischio, e in molti casi è accaduto? E’ estendere una normativa – che deve essere sempre garantista, anche se di particolare vigore – ad ambiti che non fanno parte di quelle problematiche. Per essere chiari: l’estensione dei princìpi della legislazione antimafia alla legislazione anticorruzione è del tutto inaccettabile, sono fenomeni diversi e richiedono strumenti diversi. Crea lunghezze e inefficienze e alla fine crea confusione nell’opinione pubblica: perché se poi tutto è mafia, allora niente è mafia”.
Un po’ è colpa della politica e dell’informazione, ma c’entra anche la deformazione professionale, diciamo, dei suoi colleghi. “Abbiamo avuto colleghi che si sono molto esposti come eroi dell’antimafia, a diversi livelli, e hanno creato solo danni perché hanno personalizzato le indagini, hanno preteso che nella lotta antimafia ci siano solo i buoni e i cattivi, e dunque noi siamo i cavalieri e abbiamo sempre ragione… Poi quando, c’è da fare qualche doverosa smentita in base all’esito processuale, ecco che la ricaduta negativa diventa pesante. Ma io vorrei fare degli esempi positivi. Mi piace ricordare qui a Milano Ilda Boccassini, che si è occupata per anni di antimafia. L’indagine ‘Crimine infinito’ condotta con Reggio Calabria fu gestita con grande professionalità, il rito ordinario è andato a giudizio con molte condanne e in soli tre anni. Perché era stata costruita con grande rigore”.
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