Diamo a Vibia quel che è di Vibia
Il Tempio di Adriano cambia nome: il gender equality irrompe nell'archeologia
Il monumento romano verrà dedicato anche alla moglie dell'imperatore. Scopo: "restituire simbolicamente a tutte le donne il ruolo che hanno rivestito nella storia". Ma moglie e marito sarebbero contenti di "rivedersi"?
Sua Altezza Imperiale e gentile Signora. La gender equality che si prende tutto – anche il caffè – da oggi se lo prende a Roma, in Piazza di Pietra, fluttuando attorno al colonnato dell’Adrianeo. Non solo Adriano, infatti, ma anche Vibia Sabina.
D’ora in poi il tempio romano sarà dedicato all’Imperatore e alla Sua gentile Consorte. Il monumento, sede della Camera di Commercio capitolina, non regge alla sirena del woke e cede al suo irresistibile richiamo. L’appiglio per ribattezzare il Tempio in stile correzionista è l’arrivo di una statua. Si tratta appunto della moglie dell’imperatore, la cui opera in marmo ha una storia quasi più misteriosa dell’Augusta madame in carne e ossa. Forse rinvenuta dalle parti di Tivoli, la statua s’inabissa per lungo tempo. Rispunta poi negli anni Novanta, a Ginevra, nell’hangar di un’organizzazione illegale di mercanti d’arte. Soggiorna a Boston, presso il Museo di Belle Arti, quando finalmente nel 2007 torna a casa, a Tivoli.
Adesso Vibia Sabina sosterà per un mese al riparo di un santuario bellissimo, un luogo che diventa anche suo. Anzitutto suo: “Tempio di Vibia Sabina e di Adriano”, con il nome di lei che precede il nome di lui. “Diamo a Vibia quel che è di Vibia”, è lo slogan dell’iniziativa, col presidente della Camera di Commercio, Lorenzo Tagliavanti, in chiaro visibilio. Cambiando il nome al Tempio, spiega, “intendiamo restituire simbolicamente a tutte le donne il ruolo che hanno rivestito nella Storia”. Accidenti. Ma chi è questa Vibia cui si accolla cotanto fardello? Stando a Marguerite Yourcenar – che problemi di genere se ne poneva assai pochi – rimettere marito e moglie sotto lo stesso tempio non sembra una grande idea. Basta sfogliare il suo capolavoro, Memorie di Adriano: “Col divorzio, avrei potuto agevolmente sbarazzarmi di quella donna che non amavo […] Ma mi dava così poco fastidio, e nulla nella sua condotta giustificava un insulto così clamoroso”.
Le fonti storiche sono poche, e non sappiamo se oggi l’imperatore elegante, piacente, ellenizzante, innamorato di Antinoo, sia così contento di rivedere la sua matrona. Contentissimi sembrano invece Roberto Riccardi, comandante del nucleo Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, e Antonio Bruciati, direttore dell’Istituto Villa Adriana, secondo il quale stiamo “segnando un’ulteriore tappa nel percorso di sensibilizzazione culturale e artistica dell’universo femminile”.
Del resto, il correzionismo – quale che sia la sua specie – non è certo un affare di imperatrici o imperatori, che sul cardine della durata costruiscono la bellezza. E se bello è tutto ciò che non si può mutare, codesti gendarmi gli muovono chiaramente battaglia. Così, senza nessun movente che non sia l’esaltazione, variano il nome all’immutabile. E dimostrano la vera matrice di cancellismi, correzionismi, femminismi somari.
I nostri wokisti si svelano per quello che sono: terrapiattisti pettinati, pur sempre invasati di hybris. Ma l’elemento rilevante è un ancora uno. Il femminismo stesso, abbiamo capito, non è più cosa da femmine: è cosa da direttori e carabinieri. Più precisamente da direttori e carabinieri del pensiero che poco indugiano nel tormento della storia. E a questo punto, per par condicio, che par condicio sia: villa Adriana diventi villa Antinaa. Dal nome del baldo amante dell’imperatore.
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