Tra passato e presente
La Milano Penitente si vergogna del suo glorioso passato mascalzone
Da quando vivo in questa città, noto un progressivo e irrimediabile scollamento tra il capoluogo meneghino che esiste e quello che vorrebbe essere qualcos’altro. Buoni motivi per venerare le “iguane” ingioiellate di una volta
La signora S. si aggira senza pensieri tra i tavoli del suo ristorante, uno dei miei posti preferiti nei dintorni di San Babila. Veleggia tra onde di serotonina alla volta dei cinquanta, spiegando la vela bionda della sua chioma ossigenata. E’ single ma alla continua ricerca di uomini che puntualmente la mollano dopo aver cercato – con alterne fortune – di portarle via tutto quello che ha in banca. Gli unici punti fermi della sua vita sono:
- un vecchio cucciolo sbarcato a Lodi dal profondo di qualche provincia cinese, una palla di pelo e acari che farebbe schifo a chiunque conosca la differenza tra camomilla e Roipnol. Nessuno mi toglie l’idea che si tratti di un orso a cui hanno asportato l’ipofisi per bloccarne la crescita. Fatto sta che, ipofisi o meno, quel cane è l’unico maschio dal quale S. non accetterebbe di essere mollata;
- la sua incondizionata adorazione per le mogli dei suoi ricchi clienti.
Non darle ragione sul primo punto sarebbe una posizione minoritaria e “pesante”: alla vista di quel cane, un No tav poserebbe lo striscione e comincerebbe a scavare tunnel nel Moncenisio a mani nude.
Il secondo, invece, è più difficile da mandar giù. Per quale motivo una donna come S., gran lavoratrice ed economicamente indipendente dall’età di tredici anni, dovrebbe venerare le mogli fancazziste dei commercianti storici di Milano? Se S. si limitasse a invidiare queste iguane ingioiellate, nessuno avrebbe da ridire: l’invidia del conto in banca è il pilastro morale della nostra società. Ma S. non le invidia, S. le venera, vorrebbe essere come loro perché la sua è un’ammirazione aspirazionale. E qui a Milano, se c’è uno che la capisce, quello sono io. Perché, da quando vivo in questa città, noto un progressivo e irrimediabile scollamento tra la Milano che esiste e la Milano che vorrebbe essere qualcos’altro.
Da una parte c’è la Milano Puttaniera, la Milano dei gioielli e dei viaggi di lusso, delle botteghe storiche, cresciuta decenni fa a colpi di cambiali ed eroici falsi in bilancio. Dall’altra c’è una Milano Penitente, che ha beneficiato di quelle stesse cambiali (senza firmarle in prima persona) e di quegli stessi falsi in bilancio (senza aver mai supplicato un commercialista), ma che si vergogna delle sue radiose radici e fa di tutto per rinnegarle.
La Milano Puttaniera, sorniona e canaglia, quella degli esosi negozi del centro, è stata soppiantata dalla Milano Penitente: una città grigia, che si ammanta di modestia scambiandola per virtù. Una città che si è messa all’angolo da sola, nascondendo il suo passato mascalzone e bottegaio sotto una noiosissima coltre di presunta creatività. Là dove c’era un negozietto di confetture da 60 euro al cucchiaino, ora c’è uno studio grafico che disegna etichette per marmellate da snowboarder. Nel negozietto ci lavoravano due signori che vivono di rendita dal 1992. Nello studio editoriale, grazie a un complesso sistema di soppalchi, ci lavorano venti “ragazzi” (ossia gente che va dai 20 ai 52 anni) che poi la sera vanno a dormire in un sottoscala a soli quaranta minuti dal centro di Rozzano.
La Milano Puttaniera era orgogliosamente insalubre, soffriva di flebite e non si faceva mai mancare una pur leggera forma di cardiopatia. La Milano Penitente ha spezzato i ponti con la tradizione e si è riscoperta sportiva, salutare e – addirittura – sexy.
La Milano Puttaniera accumulava immobili in centro. La Milano Penitente si lancia alla riscoperta dell’hinterland con malcelato spirito colonialista e, capitanata da un’avanguardia di dj, si illude di trovare tracce di coolness a Cassinetta di Lugagnano.
La Milano Penitente inaugura pessime installazioni artistiche nei giardinetti di periferia nel nome di una malintesa “riqualificazione urbana”. Quel che resta della Milano Puttaniera, invece, si trincera nelle stanze della Camera di Commercio per brindare a un mondo che non c’è più. Lo stesso mondo al quale io e la signora S. vorremmo disperatamente appartenere.
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