(Foto di Ansa) 

The great resignation

"Il posto fisso non fa per me". Storie di giovani e dimissioni

Mariarosa Maioli

Il 70 per cento di chi dice addio al lavoro ha tra i 26 e i 35 anni. Dopo la pandemia, la certezza dello stipendio diventa secondaria ed emergono nuove priorità. Le esperienze di chi ha lasciato tutto e adesso vuole cambiare routine

"Penso che continuare a fare un lavoro che non sento nelle mie corde sia solo una perdita di tempo", spiega al Foglio Emma, 26 anni. Tommaso invece di anni ne ha 27, ma la sostanza non cambia: vuole cercare nuovi stimoli, "per colmare quel senso di incompletezza".  Una sensazione simile a quella che Matteo, classe 96, ha maturato lavorando in Germania: "L'ufficio ti aliena”.

Anche in Italia si stanno facendo i conti della “Great resignation”, il fenomeno americano che nel 2021 ha portato quattro americani su dieci a cambiare lavoro, ad abbandonare la propria carriera o ad avviare un’attività autonoma lasciando il posto in cui avevano vissuto gran parte della loro vita. Nel nostro paese, invece, i numeri sono cominciati a salire dopo qualche tempo, raggiungendo, nel primo trimestre di quest'anno, 2 milioni 248 mila di cessazioni di contratti, come sostiene il ministero del Lavoro e delle Politiche giovanili, con un incremento pari al 40,6 per cento rispetto allo stesso arco di tempo del 2021. Di questi dati però è interessante notare che la fascia d’età maggiormente coinvolta riguarda la categoria compresa tra i 26 e 35 anni. Essa rappresenta infatti il 70 per cento del campione, seguita dalla fascia 36-45 anni: l'ente Veneto Lavoro, ad esempio, ha certificato che nella regione, una delle più produttive d'Italia, le dimissioni dei primi cinque mesi l'anno sono state quasi 52 mila contro le 39 mila del 2021, le 33 mila del 2020 e le 38 mila del 2019.

Il mondo del lavoro ha subito gli effetti dalla pandemia, i lavoratori hanno maturato una nuova sensibilità rispetto all'ufficio, in particolare nei mesi post-Covid, con il ritorno in aziende limitate dalle restrizioni e dallo smart working. Ogni forma di impiego si è venuta a scontrare con il cosiddetto “work life balance” ovvero l'equilibrio tra vita privata e vita lavorativa. E oltre  a questo bilanciamento tra casa e ufficio, tra i giovani è emersa sempre di più la volontà di ritrovare gli stimoli perduti. Una maggiore libertà, il desiderio di andare alla ricerca di relazioni ed esperienze fuori dall'ordinario, lasciare  quelle abitudini che scandiscono la quotidianità. Le stesse ritrovate con fatica dopo il Covid.
 

Le storie di Emma, Tommaso e Matteo

Scelte sofferte e non frutto di incoscienza: Emma ad esempio, 26 anni e una laurea magistrale in architettura, ha trascorso mesi a riflettere se il lavoro per cui ha studiato era quello che la rendeva soddisfatta. E invece no perchè la routine non era qualcosa che la rendeva sicura ma solo un limite: è “alienante, mi rende insoddisfatta, non è quello che farei tutta la vita. C'è chi dice che i giovani non abbiano voglia di lavorare? No, anzi, io trovo che sia più coraggioso lasciare un posto fisso che tenersi buono un lavoro che non piace, solo per la retribuzione” ha puntualizzato Emma. “Una persona non si deve accontentare a 26 anni. La mia è stata una decisione che ho maturato in tanto tempo, dopo la corsa dell'università e della ricerca al lavoro: dobbiamo raggiungere il massimo dei voti negli esami, laurearci senza andare fuori corso, trovare subito lavoro per poi capire che non è quello che fa per noi. Penso che continuare a fare un lavoro che non sento nelle mie corde sia solo una perdita di tempo.” E ora? “L'idea è quella di partire dall'Italia e andare all'estero: potrei lavorare come architetto ma non necessariamente. L'importante è avere il tempo per fermarmi, il tempo che prima non ho avuto perchè condizionata da una società che giudica una persona solo dalla posizione lavorativa. E poi capire cosa fa per me.”

 

Tommaso, 27 anni, una laurea in tecniche della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro, ha sfruttato il momento della pandemia per riflettere. E nonostante l'ottima posizione e una routine bilanciata tra lavoro, famiglia e amici, la spinta per cercare “altro” è stata più forte delle certezze di casa. Quindi già con lo zaino in spalla, Tommaso ha scelto di non rinnovare il contratto e di partire in cerca di nuovi stimoli, ormai vanificati da un lavoro piatto e abitudinario. Il punto di partenza sono i chilometri del cammino di Santiago di Compostela dove attualmente si trova; al termine del pellegrinaggio, ogni porta sarà aperta. “L'idea è quella di prendermi un anno per me stesso, per ora ho un milione di idee che mi frullano in testa. L'importante è cercare nuovi stimoli, colmare quel senso di incompletezza che mi ha lasciato la pandemia” dice Tommaso che sottolinea quanto una buona retribuzione non basti a risolvere tutte le riflessioni scaturite. “Prima non ero così autonomo e responsabilizzato come sono oggi perchè sono unicamente io l'artefice di quello che succede domani. E questa sensazione di incertezza non mi fa paura, anzi, è proprio ciò che mi fa sentire vivo.”

 

Si accoda alle sue parole anche Matteo, annata 1996, una formazione in giro per l'Europa, tra la laurea a Trieste, un progetto Erasmus a Copenaghen e uno a Madrid, oltre la specialistica alla School of Finance and management di Francoforte. Eppure la medesima battuta d'arresto l'ha spinto a rimescolare le carte in tavola: il lavoro di consulenza in Germania non è stato soddisfacente abbastanza. E così tre mesi di “unpaid leave” (periodo di congedo non pagato) sono stati il preambolo di una dimissione volontaria: “Il Covid è stata la molla, una sorta di acceleratore a una situazione in cui tanti giovani già si trovavano. La pandemia ci ha costretto a una pausa che ci ha posto di fronte alle scelte della nostra vita. Sicuramente lo smart working è stato un fattore positivo, perché permette di conciliare meglio vita privata e lavoro.” In Germania ai lavoratori viene anche data la possibilità di diminuire lo stipendio, lavorando 4 giorni su 5, ma Matteo ha sentito comunque la necessità di mettere un punto a una vita che non sente nelle sue corde. E non è irrilevante che questi “burnout” nascano in chi vive sotto lo stress continuo di una città in perenne movimento: “La città, come l'ufficio, ti aliena” sostiene Matteo, che per allontanarsi dalla frenesia sociale, ha trascorso tre settimane in Grecia, disconnesso dai social e dalle notizie, a contatto solo con la natura. 

 

“Ma io devo vivere solo per la retribuzione? Solo per la sicurezza di avere un posto fisso su cui contare?”. Forse, sostengono le giovani generazioni, io non sono fatto per essere questo tutta la vita. “Questa pandemia ha dato più valore alle cose che contano” sostengono Emma, Tommaso e Matteo, che rappresentano il punto di vista dei loro coetanei e che, insoddisfatti, hanno rivendicato la necessità di prendersi una pausa per pensare a cosa fare della propria vita. Cambiare non fa paura, è un’opportunità, e per cambiare vita e lavoro ci vuole coraggio, che di certo non manca a Tommaso, Emma e Matteo.

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