Omosessuali, niente piazza: fatevi una foto

Bologna inclusiva che esclude. Volete combattere gli abusi nelle forze dell'ordine? Portate i poliziotti gay al Pride

Manuel Peruzzo

Gli organizzatori del pride di Bologna hanno chiesto ai poliziotti gay di sfilare in borghese. La motivazione? È una critica aperta alle forze dell’ordine “come istituzione, e come luogo di riproduzione di violenza”. Quindi se hanno qualcuno che lotta dall’interno per cambiare le cose: lo escludono

C’è una cabina fototessera arcobaleno in ufficio. È il modo in cui la multinazionale per cui lavoro ha pensato di combattere i pregiudizi e le discriminazioni: viva il Pride Month. Combattiamo l’omofobia con una foto? D’accordo, anche se il problema degli uffici milanesi è che discriminano gli eterosessuali. Spero si possano avere anche gli stipendi americani.

 

Il Pride month è un Halloween gay. Da qualche anno anche in Italia le aziende incartano i propri brand per vendere l’omosessualità, o ogni sorta di tema inclusivo, e sentirsi migliori. È il trionfo del conformismo politico della nobile causa e l’incubo di chi si sente oppresso dalla lobby allegra (che poi sono le stesse persone che si sentono oppresse da Halloween).

   

C’è chi sostiene, tenetevi forte, che ai grandi imperi commerciali non interessano le nostre vite ma solo fare soldi. Riuscite a crederci? Non so se riuscite a metabolizzare tutto. Il problema però non è l’avidità. È quando questo conformismo si trasforma in condotte illiberali (da “ti assumo in quanto gay” a “non ti assumo o ti licenzio perché hai scritto una cosa che non apprezzo”, per esempio). Il capitalismo è considerato una tragedia sociale solo da chi non ha mai visto un paese socialista.

  

Sono tra chi è convinto che il demonizzatissimo mercato in realtà faccia prosperare certe idee, proprio come quando nei giornali americani negli anni ’80 usavano coppie omosessuali per vendere macchine. Anticipavano certi diritti e l’assimilazione del gay da emarginato a borghese col cagnolino che fa le gite fuoriporta. Che c’è di male?

   

In più: se un ristoratore si ritrova tavolate di gay vorrà vender loro sorrisi e ospitalità. Terrà per sé ciò che pensa veramente di loro. Mi sembra civile.

  

È più incivile il modo in cui oggi alcuni considerano le manifestazioni pubbliche. Nell’era dell’attivismo Instagram e nella logica del “safe space” (riuscite a immaginare una cosa meno safe di una manifestazione?), si confondono le manifestazioni per inviti a gruppi chiusi. Gli organizzatori del pride di Bologna hanno chiesto ai poliziotti gay di sfilare in borghese. La motivazione? È una critica aperta alle forze dell’ordine “come istituzione, e come luogo di riproduzione di violenza”. Quindi se hanno qualcuno che lotta dall’interno per cambiare le cose: lo escludono.

 

A Bologna escluderebbero pure i Village People per machismo e cultura commerciale (e pur vero che ormai YMCA se la ballano ai matrimoni eterosessuali di Forza Nuova). Gli omosessuali sono sempre stati attratti sessualmente dalla mascolinità (dalla marchetta etero alla clone culture). Ma il punto vero è un altro. Non sono gli organizzatori che decidono chi non può partecipare a una manifestazione, ma semmai l’autorità nazionale e provinciale che può imporre limitazioni. Se agli organizzatori stesse a cuore combattere gli abusi nelle forze dell’ordine dovrebbero mettere quei poliziotti sul carro principale.

    

Siccome i Pride sono troppo commerciali, e può capitarti di incrociare con lo sguardo uno smart watch arcobaleno o un volantino low cost per andare a prendere il vaiolo alle Canarie, esistono manifestazioni alternative. È il caso di quella transfemminista queer che ha attraversato Milano al grido di “siamo marce, non merce”. Contenti voi. Peccato sia la realtà capitalista e non le illusioni socialiste che hanno liberato i gay.

   

In un articolo su gay.it si racconta che dal palco qualcuno si è espresso in questi termini: “Per non esserci violenza deve esserci consenso, quindi, prima di fare foto e video, creare contatto fisico o assumere comportamenti che potrebbero essere percepiti non rispettosi, chiedi il permesso”. Oppure, come ha scritto un amico, lo storico Giovanni Dall’Orto: “Se non vuoi che si sappia che sei gay, allora non giri con un cartello che proclama al mondo che lo sei”.

   

Che fine ha fatto l’antiquata idea delle manifestazioni manifeste? Quella cosa per cui ci mettevi la faccia, eri responsabile di ciò che dici e fai, e chiedevi pubblicamente una serie di diritti da estendere a te e agli altri, preferibilmente calibrati sulle leggi dello stato in cui vivi e non sulla fan fiction di Harry Potter. Le manifestazioni scopro essere diventate non documentabili per non aggredire i partecipanti e su invito per non dissacrare lo spirito di Stonewall (il collegamento tra Bologna e Stonewall?). Sicuri sia il modo più efficace di difendere i diritti acquisiti e chiederne altri?

  

Forse hanno ragione le multinazionali. Non serve andare in piazza: basta una fototessera in ufficio.

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