Dai banchi di Oxford al bancone di Starbucks
Laureata, ha proseguito gli studi nella prestigiosa università britannica ma poi ha deciso di diventare barista. Senso di colpa o nuova gratitudine delle generazioni che hanno potuto godere di privilegi?
Quattro espressi ristretti leggeri in latte d’avena, il tutto mescolato con un goccio di sciroppo zuccherino per biscotti: quest’obbrobrio, di cui consta la sua bevanda preferita, non è tuttavia la parte più sconvolgente dell’ampio reportage che il New York Times ha dedicato a Jaz Brisack, barista di uno Starbucks di Buffalo. Americana, laureata all’Università del Mississippi grazie a una borsa Truman, nel 2018 Brisack è stata insignita di una borsa Rhodes che le ha consentito di proseguire gli studi a Oxford. Si tratta di una borsa cospicua in termini economici e fra le più prestigiose in termini accademici, eppure l’articolo di Noam Scheiber non accenna a protestare contro questo mondo ingiusto che fa finire dietro un bancone i superlaureati. Men che meno si lamenta Brisack: di fare la barista l’ha deciso lei.
Non si tratta però neanche di uno di quegli scritti che di tanto in tanto riaffiorano – specie d’estate, quando siamo scoppiati e rimpiangiamo di dover lavorare – dove si raccontano storie catalogabili nella cornice “Mollo tutto e…” vado a pascolare le pecore sulla Murgia, vado a coltivare manioca in Uganda, vado a fare la barista a uno Starbucks di Buffalo. Quello di Brisack non è un burn-out spacciato per scelta di vita alternativa; è un progetto professionale coerente con gli ideali che l’avevano animata nel perseguire una carriera universitaria d’eccellenza su ambo i lati dell’oceano.
Dopo la borsa Rhodes, nel 2020, Brisack era arrivata a Buffalo per un lavoro organizzativo all’interno di un sindacato, iniziando a fare la barista per arrotondare, con orari massacranti che il New York Times non ci risparmia. Indossata la maglietta nera, si è resa conto di amare l’azienda tanto quanto i propri colleghi; o meglio, di là dalle inevitabili magagne, ne trovava la missione adeguata alle proprie aspirazioni. “Ambizione e idealismo” sono le caratteristiche che il reportage individua in chi storicamente ha utilizzato la Rhodes come ascensore per la classe dirigente, il più delle volte accademica o governativa (ma anche cultura e finanza non venivano disdegnate). Brisack era ambiziosa. Da ragazzina ammirava Lyndon Johnson e sognava di sedere nello studio ovale; coerentemente, in Mississippi aveva intrapreso una mini carriera politica nella rappresentanza studentesca. Assunta da Starbucks, non si è limitata ad azzardare arditi intrugli come quello di cui sopra ma ha fatto sì che la propria filiale diventasse la prima a dotarsi di un sindacato, avviando un effetto domino che ha toccato centinaia di negozi della catena.
E’ forse eccessivo ritenere che la storia di una borsista Rhodes diventata barista Starbucks segni un cambio di paradigma per il mercato del lavoro negli Usa. Indica però un nuovo equilibrio fra costi e benefici dell’istruzione. Le caratteristiche che l’hanno attratta sono state la socialità (sia coi colleghi sia coi clienti), la ricerca dell’eccellenza e soprattutto il valore dato alla competenza specialistica: nel mondo anglosassone il barista mantiene un’allure per certi versi esoterica, detiene un sapere iniziatico che fa riuscire bene la bevanda che dai bollitori domestici sortisce repellente. Brisack ha ritenuto di non riscontrare queste caratteristiche nelle strade comunemente percorse dai borsisti Rhodes, decidendo pertanto di investire altrove il proprio merito. Nella concretezza, anzitutto. Non solo nel senso di lavoro manuale ma anche di intervento diretto, azione politica dal basso; ha voluto rendersi un enzima capace di cambiare una piccola porzione di società.
A Oxford Brisack era anticonformista – si presentava alle cene formali in maglietta antifa anziché in toga – e in Mississippi aveva convinto il rettore a tirar giù non so quale monumento sudista. Credo non vada sottovalutato il senso di colpa sotteso alla sua scelta: non solo perché Rhodes è quel colonialista di cui vogliono abbattere le statue, ma anche perché i borsisti usufruiscono di buoni ventimila euro annui per studiare. La sua storia è spia della tendenza di una generazione che vuole ripagare il privilegio che si è guadagnata, un po’ perché affetta dalla sindrome dell’impostore, un po’ perché consapevole che a un incremento esponenziale di candidati meritevoli non è corrisposta altrettanta copia nelle opportunità disponibili. Scegliere di agire dal basso non è tanto il rifiuto della soddisfazione personale (se Brisack fosse infelice, non farebbe la barista) quanto un’evoluzione della gratitudine: anziché a un’idea astratta di società civile, il laureato di successo vuole restituire il beneficio ricevuto a comunità raccolte e tangibili.
Sta nascendo una nuova élite populista? Ritagliate (screenshottate) quest’articolo e ne riparliamo fra una ventina d’anni, secondo il ritardo satellitare con cui l’Italia recepisce le novità americane. Di sicuro però c’è questo: per far parlare di sé, Brisack ha comunque avuto bisogno di un altro borsista Rhodes che avesse intrapreso una carriera più consueta. Scrivere sul New York Times.