Sold out
Stadi e arene pieni. Rinasce il live e non si guarda al portafoglio
Dopo due anni di stop la musica dal vivo prende fiato e ritrova la collettività che la pandemia le aveva sottratto. E l'aumento dei prezzi dei biglietti non sembra interessare le migliaia di ragazzi che affollano i concerti
Pazza, assurda e bollente quest’estate, preda di frenesie. Ad esempio, d’improvviso è febbre da concerto. Da musica live. Da transenna rovente. Da stadio. Da festival. Qualsiasi cosa suoni. Mentre i critici s’affannano ad ammonire: la musica non è mai stata così brutta! Allarme! Vuoi vedere che ci risiamo con la rivolta delle élite? Seriamente: che succede, in questa stagione della liberazione in cui s’è deciso che la pandemia conta meno dello stare insieme, cosa trascina, trasporta, trapianta i legionari della musica sotto qualsiasi palco dove stasera si suoni? La rampogna è: va bene per i santissimi, ma com’è possibile che abbiano questo successo gli scarsi, i rimediati, gli ultimi arrivati? Dov’è finita la selezione? O ci siamo persi qualcosa?
Prima una passata di cifre impressionanti, manna per i titolisti. A Roma, per i mesi caldi, si parla di 160 eventi d’ogni genere, da Vasco ai Måneskin, da Venditti-De Gregori a Blanco e Renato Zero, assommando 2 milioni di spettatori, il 77 per cento da fuori città, con ricadute economiche tra i 700 milioni e il miliardo. Il solo tour nazionale di Vasco si è chiuso con 700 mila paganti, inaugurato dai 120 mila di Trento e la crisi degli alloggi in zona, dove un 2 stelle chiedeva 200 euro per una stanza. Undici date concluse coi 40 mila di Torino – quest’inverno seguirà film delle due notti al Circo Massimo di Roma. Parentesi: più degli stadi delle arene, antiche e moderne, perfino più delle spiagge di Lorenzo, eleggiamo il vecchio anfiteatro imperiale per le corse delle bighe come luogo simbolo di quest’estate esagerata, un po’ perché contiene quelle due parole in risonanza, “circo” e “massimo” e un po’ per la sua fisicità da esplosione eternamente trattenuta, tappo sul punto di scoppiare, sul palco ci siano Damiano e i suoi, o tocchi a Vasco officiare la liturgia. Il passato che ti piomba in testa e l’infernale reticolato di tubi innocenti a suggerire l’impermanenza del tutto, la circostanza eccezionale, la convergenza di eventi, bisogni, desideri, tutti nella buca voluta da Augusto, mica bruscolini.
Ma torniamo ai numeri roboanti, per osservare come un artista eccellente, mai assurto a simili sconquassi come Cesare Cremonini abbia chiuso il tour davanti ai 70 mila dell’autodromo di Imola, come il sempreverde Max Pezzali ne abbia stipati 120 mila a San Siro in due sere, come De Gregori-Venditti abbiano cominciato la tournée col sold out all’Olimpico (45 mila) prima d’infrangersi col Covid dopo la terza data. Le cose, di colpo, vanno bene per tutti, e a saltare sul carrozzone c’è posto perfino per Gianni Morandi e Orietta Berti, adorabili pantere grigie d’improvviso richiestissime nel vortice delle date estive.
La parola del momento è “finalmente!” gongola Vasco: “Finalmente è tornata la musica dal vivo! Finalmente abbiamo portato un po’ di gioia in questo mondo pieno di problemi”. Finalmente la bistrattata industria dei concerti tira il fiato, dopo due anni di spasimi e ingiustizie. Jovanotti molla gli ormeggi col Beach tour 2 e fa il botto subito, 60 mila a Lignano, 70 mila a Ravenna, riproponendo il format a immersione totale nella distrazione, richiamo di un’empatia divenuta nel frattempo una chimera. Anche gli stranieri, per carità, fanno sconquassi, Rolling Stones e Guns N’ Roses in testa (ma non il tapino, venerabile Kendrick Lamar, snobbato da tutti, forse giustamente, perché a Milano, più che un concerto, è passato a fare le prove generali).
E il bello è che in questo delirio così roaring twenties, si è rotto spudoratamente anche l’argine dei prezzi: tutto costa tantissimo, un biglietto per vedere Axl Rose da lontano minimo 80 euro, 70 ormai è la media, ma se il concerto volete godervelo preparatevi alle tre cifre per un tagliando. Ma chissene frega, i promoter lo sanno, quest’estate la gente paga, i ragazzi scuciono banconote dal portafogli di papà, si celebra, si balla, ci si abbraccia, la malconcia crociata per le mascherine al concerto è presto finita in soffitta, confinata nelle raccomandazioni del telegiornale, constatando del resto che stare in transenna con 38 gradi e la mascherina è roba da palombari.
E’ questa, un po’ brechtiana, l’aria del momento, folle, elettrica, smodata, a consumo istantaneo (e davvero a dominanza nazionale, per carità, con molto rispetto per i Jagger e i Chili Pepper di passaggio, ma ormai da noi l’autarchia musicale è una certezza anzi, per dirla con linguaggio d’antan, una volontà). Perché il fenomeno poi pompa pazzamente anche dal basso, se Franco 126 ha già fatto il sold out per il Palasport romano a fine settembre, se dei rapper con a malapena un disco all’attivo riempiono piazza del Duomo e fanno esauriti a ripetizione (Rhove, Paky, Shiva, Lazza…). Lontano dalle cronache degli spettacoli, i giardini delle periferie cittadine pullulano di eventi che costano meno, cercano meno gigantismo e piacciono di più ai ventenni e under, perché mettono in cartelloni gli artisti che loro sentono propri, evocano meno il Mattatoio N.5 e hanno il pregio d’essere un pelo defilati.
L’estate, ancor solo all’inizio è così, continuerà ad esserlo, sarà una sbornia formidabile, convincerà i cronisti che il tunnel, la separazione, i silenzi e le cappe hanno provocato l’effetto paradosso del bisogno della musica, della riscoperta del “qui adesso”, l’irripetibilità del “live”, il riaffiorare dell’esserci davvero, in carne ed ossa, che sembrava essere stato liquidato dal digitale. Come sarà l’hangover, il dopo sbornia, il risveglio col rendiconto della carta di credito perforata da quattrini investiti per godercela? Nuova sobrietà, riscoperta della misura oppure, alla faccia dell’era dell’incertezza, vida loca finché dura – poi si vedrà? Propendiamo per la terza delle tre, un po’ a naso, un po’ frugando tra i social e scoprendo come l’accumulo di esperienze e ricordi da evento memorabile siano il nuovo “come eravamo” e perché la musica, sarà pure quasi sempre o troppo vecchia o troppo brutta, come suggeriscono i sapienti, ma è un modo di divertirsi e stare insieme che non teme concorrenza.
E’ il diritto alla celebrazione, l’accesso a un rituale elementare, che dà sempre emozioni e risultati. Ce n’eravamo scordati, ma quando ce l’hanno tolto ha brillato in tutto il suo essere necessario. E adesso risplende sul cartellone dei tour in arrivo per l’autunno. La festa mobile continua, adesso siamo tutti un po’ Gatsby, dei risvegli del giorno dopo nessuno ha voglia di sentir parlare.
generazione ansiosa