Spazio okkupato
Come degenera il dibattito (utile e necessario) sulle discriminazioni
La ridicolizzazione del linguaggio è solo l'aspetto più evidente dello scontro tra chi rivendica la propria diversità aggiungendo pronomi e chi risponde recuperando i fossili linguistici di cent'anni fa
Non esiste una parola che indichi il sentimento di chi crede di appartenere a una categoria eletta e per questo giudica inferiore chi appartenga alle altre. Non esiste, cioè, una parola generica che abbracci le molteplici manifestazioni del disprezzo nei confronti di altri gruppi di esseri umani, un concetto che spieghi come manifestazioni particolari della stessa attitudine, il razzismo, il maschilismo, l’antisemitismo, la xeno-, l’omo- o la transfobia.
A seconda del bersaglio – neri, donne, ebrei – questo sentimento di superiorità appare come un’ideologia (lo dimostra la desinenza -ismo) o come una fobia, cioè come la manifestazione di una paura specifica che, invece dei ragni o degli ascensori, ha per oggetto gli stranieri o le persone non eterosessuali (la paura, naturalmente, è quella di essere contaminati da chi si ritiene inferiore o impuro). Forse l’assenza di un concetto generale di “razzismo” (etnico, geografico, di sesso, genere e preferenze sessuali) è dovuta alla nostra incapacità di considerarci davvero uguali, in quanto appartenenti a un’unica specie. Ma è anche all’origine del rischio che, da una parte e dall’altra, il dibattito sulla cosiddetta “cancel culture” degeneri in una lotta di tutti contro tutti, che moltiplichi i “razzismi” invece di eliminarli.
Da un lato c’è chi rivendica di essere vittima da sempre di discriminazione per il solo fatto di esistere e giustamente esige che gli siano riconosciuti gli stessi diritti e la stessa dignità anche culturale di ogni altro essere umano, indipendentemente dal colore della sua pelle e dal suo sesso, genere, preferenze. E’ una richiesta minima, quasi ovvia, che ha il suo fondamento teorico ed etico nell’ideale dell’uguaglianza, stabilito dal cristianesimo e ribadito dall’illuminismo, ma che per paradosso avviene sulla base della rivendicazione di una diversità: invece di dire “tutti gli uomini sono uguali”, si afferma “anche io ho diritto a essere diverso”. In questo modo si moltiplicano le sigle, le definizioni, si aggiungono lettere e addirittura un + a un acronimo talmente lungo da poter continuare all’infinito, nel tentativo impossibile di descrivere ogni sfumatura della sessualità e del desiderio. E’ una sacrosanta rivendicazione di esistenza e identità che giunge dopo millenni di invisibilità e sottomissione, e che però conserva un richiamo implicito all’uguaglianza, cioè alla rivendicazione della propria umanità (nell’espressione “persone trans” il termine importante è “persone”). Il biasimo generale ricade per contrappasso sul maschio bianco eterosessuale, specialmente se boomer, che per millenni ha detenuto il potere e che oggi subisce, in minima parte, quello che ha fatto subire. E quindi, ben gli sta.
Sul fronte opposto c’è chi è programmaticamente impegnato a minimizzare e ridicolizzare il tema, mostrandone soltanto gli eccessi grotteschi e fanatici: i libri messi all’indice, le polemiche sulle traduzioni, gli stupri e le molestie che non lo erano. Il fatto che gli eccessi esistano, però, non significa che non esista la questione, o che si possa ridicolizzarla. Nessun fanatismo può cancellare il fatto che nella storia il “razzismo” è stato endemico e che a esercitarlo, come sentimento di superiorità culturale e morale o come pratica di sottomissione quotidiana, è stata la minoranza di cui facciamo parte e che, oggi, è giustamente sotto accusa. E’ evidente, e perfino comprensibile, che se un gruppo si coagula intorno alla consapevolezza per proprio ruolo di vittima, si mette nelle condizioni di esercitare un potere, per difendersi e attaccare i gruppi da cui si sente oppresso o minacciato. Per questo, invece di negare che l’oppressione e la minaccia esistano, bisognerebbe impegnarsi a rimuoverle.
A essere ridicolizzato in particolare è il linguaggio, la proliferazione di pronomi personali e i divieti lessicali che, in effetti, hanno un sapore totalitario, come sempre accade quando un’ideologia pretende di regolamentare il modo in cui le persone parlano e pensano. La risposta, però, non può essere quella di riprodurre, credendosi spiritosi e scorretti, espressioni e tic linguistici incrostati di sessismo e razzismo anni Cinquanta, a meno di non rivendicare il proprio senso di superiorità di bianchi caucasici eterosessuali cristiani e un senso dell’umorismo becero da Guerra d’Etiopia. Per conto mio, l’uso di perifrasi, eufemismi e vezzeggiativi, o lo sfottere qualcuno per come ha deciso di vestirsi o perché è nato in provincia, legittima ogni fanatismo contrario. Ma soprattutto trasforma un dibattito necessario, che potrebbe avere un valore storico, in uno scontro per bande, che non ne ha alcuno. E’ una questione di educazione e civiltà, per cui basterebbe credere davvero nella Libertà o nell’Uguaglianza, non dico in entrambe. Quanto alla Fratellanza, possiamo pure aspettare.
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