un reality show criminale
La camorra si mette in scena e fa sfoggio delle sue boiate. Ma uccide pure
Che cosa resta della malavita napoletana? È la domanda che ci si fa mentre Palermo ricorda le stragi. Un’inchiesta tra memoria e letteratura sui criminali che non si nascondono, ma ostentano il lusso sui social. E come il baby boss Emanuele Sibillo, vengono ammirati ed emulati
Dolce e chiara è la notte e senza vento a Bagnoli il 21 giugno di un anno fa, però è chiassosa assai: un cantante neomelodico si esibisce, su un palchetto illuminato, per la folla festeggiante la maggiore età di Massimiliano Esposito jr, figlio dell’omonimo boss del quartiere occidentale di Napoli noto col soprannome di ’o scugnato (lo sdentato). Quando la polizia interviene, contestando la violazione delle norme anti Covid allora vigenti e la mancata autorizzazione dello spettacolo, la festa è rovinata solo a metà. Poco dopo, stappate le bottiglie di champagne tenute in fresco, il figlio dello scugnato ordina di cominciare con i fuochi. Per dieci minuti i giochi pirotecnici rischiarano quel cielo dove una volta fiammeggiavano, con non rimpianto fascino, le ciminiere dell’Italsider. Sarà tutto postato sui social affinché si sappia che lo scugnato spende e il figlio si diverte. Fra TikTok e Instagram. Come molti giovani bordeggianti la criminalità, il ragazzo raccoglie cuoricini agli sfoggi di lusso, alle vacanze glamour ma anche al gesto osceno che indirizza a un pentito prima di costituirsi quando è raggiunto da un ordine di carcerazione.
Molto più vanitosa di Cosa nostra e della ’ndrangheta, la malavita napoletana ama esibire se stessa sin dalla Belle époque, quando Gennaro De Marinis detto ’o mandriere (era un ex scannabuoi del macello) ostentava calesse e cavallo “camminatore”, abiti di sartoria, palco al San Carlo e cocotte d’alto bordo soffiate al duca d’Aosta, suscitando l’ira di Casa Savoia che si decise a stroncare la Bella società riformata. Fu il primo maxi processo della storia d’Italia e si concluse nel luglio 1912 con condanne draconiane su un castello di prove inventate grazie a un “pentito” indottrinato dai carabinieri. (L’elegante De Marinis, alla lettura della sentenza che gli appioppava trent’anni, si squarciò la gola con un frammento di vetro dinanzi ai giurati impalliditi).
Molto più vanitosa di Cosa nostra e della ’ndrangheta, la malavita napoletana ama esibire se stessa sin dalla Belle époque
Se Cosa nostra per sua natura dissimula, la camorra metropolitana, a differenza di quella provinciale, da oltre un secolo si pavoneggia e si racconta. Se le vittime più illustri della mafia sono commemorate dalla società civile e dallo stato, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (di cui è stato celebrato il 19 luglio scorso il trentennale della morte), chi è assassinato dai camorristi vola verso la dimenticanza collettiva sin da quando lo calano nella fossa. Poiché di rado le vittime dei clan napoletani appartengono alle istituzioni, la loro pubblica memoria evapora salvo casi clamorosi come quello del giornalista Giancarlo Siani, ucciso il 23 settembre 1985 (sul suo omicidio è stata raggiunta una verità, se non altro giudiziaria). Forse perciò la mafia, che non ama esibirsi, è stata con sovrabbondanza rappresentata nella letteratura e al cinema, mentre i camorristi hanno spesso riempito gli spazi narrativi vacanti in prima persona. Come notava la Commissione parlamentare antimafia in una relazione del ’95, “la camorra, a differenza di Cosa nostra, non contrappone un ordine alternativo a quello dello stato ma governa il disordine sociale”. Per riuscirci ha bisogno di un consenso seducente presso gli strati sociali in cui l’illegalità è più praticata, che giustifichi le attività criminali e recluti aspiranti promettendo una vita rischiosa ma luccicante. De Marinis vantava il calesse sfarzoso dopo avere asceso le tappe dell’Onorata Società. Oggi non lui ma i suoi figli sfoggerebbero la fuoriserie, perché gli scugnizzi di adesso non vogliono aspettare per diventare camorristi: vogliono tutto e subito e che tutti lo vedano. Non delinquono per sopravvivere, come cent’anni fa, ma per vivere sopra le righe.
Poiché di rado le vittime dei clan napoletani appartengono alle istituzioni, la loro pubblica memoria evapora salvo casi clamorosi
Antonio De Martino, giovane boss del quartiere Ponticelli nella periferia orientale, si fa chiamare XX perché, come quello di Voldemort nella saga di Harry Potter, il nome della sua famiglia è meglio non pronunciarlo (e “XX” dipinte marcano diversi muri del suo rione). De Martino ha spalmato la biografia su Facebook dove tutti i ragazzi possono invidiare un’esistenza chic, ripetitiva ma allettante, ai margini di una città dall’alto tasso di abbandono scolastico: video e foto scattate sulle spiagge e nelle discoteche di Sharm el-Sheik e di Mykonos suscitano commenti di amici e rivali lasciando individuare gli uni e gli altri. La bacheca è inframmezzata da post con frasi sentenziose, quali “l’arma più potente di un uomo è la sua mente”. L’influencer della combriccola era considerato Giulio Fiorentino, ucciso il 14 marzo 2021 a ventinove anni da due sicari su uno scooter. Il suo profilo Facebook, rimasto aperto, ospita un florilegio di massime indirizzate forse a chi doveva cogliere qualche allusione nei messaggi: “Tutto inizia ma non si sa come finisce”. “Vince sempre chi sa aspettare”. “Nella vita o si peggiora o si migliora – io sono peggiorato in meglio”. Non manca l’omaggio a “Scarface” nella celebre scena di Tony Montana/Al Pacino col sigaro nella monumentale vasca da bagno (“E di chi mi fido? Di me!”). Resta anche traccia dei passatempi di Fiorentino e amici: bullizzare a turno tre anziani disabili del vicinato e pubblicare i video delle bravate.
Non sono solo i giovani però: nel 2018 Giuseppe Sarno, già boss del clan che aveva dominato Ponticelli prima di pentirsi, attiva assieme alla cognata Patrizia Ippolito una diretta Facebook dalla località segreta dove vive sotto protezione. Ironizza sui presunti nemici e forse li minaccia: “Ciao per tutti quelli che ci vogliono bene. Chi non ci vuole bene…” e si fa il segno della croce. La reazione delle famiglie che stanno occupando gli spazi lasciati vuoti dai Sarno non si fa attendere, perlomeno via social, ed è affidata a una stagionata “vaiassa”: nome d’arte Pina la diva. I suoi video, disponibili tuttora su YouTube, diffondono interminabili tirate contro il pentito colpevole di avere spedito in galera “tanti figli di mamma”. Pina condisce gli sproloqui con sequenze di gesti e contumelie dialettali che sembrano aspirare, per grevità barocca, all’egloga secentesca “Le fonnachère” di Giambattista Basile. Sui social, come nella vita materiale, la figura del pentito è marchiata d’infamia. Il cantante Tony Marciano si mise nei guai con il brano “Nun c’amma arrennere”, di cui varie versioni circolano su YouTube. Il testo è esplicito: “Chest’è ’a verità, che s’è venduto, / nun vo’ ritrattà, ormai ha parlato…”. Il suo nome fu accostato alla famiglia Gionta, già egemone a Torre Annunziata, che pure vanterebbe un poeta: Aldo figlio del capostipite Valentino, al quale i versi sarebbero serviti anche per crittografare messaggi da inviare all’esterno del carcere prima di venire isolato al 41 bis.
I social del giovane boss Antonio De Martino: lusso ostentato e frasi sentenziose quali “l’arma più potente di un uomo è la sua mente”
“I camorristi attuali sono alfabetizzati al digitale, sicché hanno la sensazione di sapere. I loro aforismi li copiano dal web, addirittura risemantizzano frasi di Falcone e Borsellino dai significati che devono essere colti dagli specifici destinatari”, spiega Marcello Ravveduto, docente di Storia contemporanea all’Università di Salerno, dedito da anni a studiare l’immagine delle mafie. “L’alfabetizzazione digitale”, aggiunge, “costruisce nei criminali una presunzione molto più forte rispetto ai boss delle generazioni precedenti, i quali si sentivano deprivati per assenza di cultura e giustificavano con l’ignoranza e la povertà dell’ambiente d’origine la propria condotta. Al contrario, per le nuove generazioni sentirsi diversi è motivo d’orgoglio. E hanno un solo obiettivo: conseguire la ricchezza non per merito, ma attraverso la violenza”.
Prima dei social e delle serie tv, prima degli smartphone, tanti boss di camorra si rappresentavano scrivendo e si acculturavano da soli. Non è facile dire quanto loro prendessero dalla letteratura o quanto fosse il contrario. Nel 1982 il romanziere Attilio Veraldi descrive il passaggio dalla vecchia camorra dei contrabbandieri a quella più spietata della droga immaginando le vicende del killer “Naso di cane”, che dà il titolo al libro. Con frasi, tic e costumi riscontrabili nella vita reale dei malviventi: “L’identità di mafiosi e camorristi si struttura anche sull’immaginario del cinema e della letteratura”, ricorda Ravveduto, “e al momento della cattura molti boss latitanti sono stati trovati con libri che parlavano di mafia e di camorra”.
“L’alfabetizzazione digitale costruisce nei criminali una presunzione: i vecchi boss si sentivano deprivati per assenza di cultura”
Giacomo Cavalcanti, ex criminale di spicco della zona flegrea, per raccontare la sua vita scrisse diversi libri, pubblicati da Tullio Pironti, che gli guadagnarono il soprannome di ’o poeta: “Corro al buio lungo il fiume / Facendomi guidare dal rumore dell’acqua / Sento che non sarò più lo stesso / Ma non sarò dimenticato / Se tutto questo mi sopravvivrà”. Scrisse di sé anche il boss dei Quartieri Spagnoli Mario Savio, detto ’o bellillo, di cui Mondadori pubblicò nel 2007 “La mala vita”; scrisse e spese nobili parole da Maurizio Costanzo, ma le sue successive vicende dimostrarono che tra la carta e la strada, o tra la predica e la pratica, resta sovente una cospicua distanza.
Giuseppe Misso, che dominò il rione Sanità ed è lettore assiduo di Céline e Dostoevskij, nel romanzo autobiografico “I leoni di marmo” rievoca l’infanzia e la prima giovinezza trascorse con l’inseparabile Luigi Giuliano, il futuro “re” di Forcella di cui da grande sarebbe diventato acerrimo nemico. Nel 1970 vedono “Borsalino” al cinema e da allora si vestono in gessato e col cappello come i protagonisti del film. Quando Misso visita Giuliano a casa sua, anni dopo, lo trova intento a strimpellare la colonna sonora del “Padrino” sul pianoforte – che non sa suonare. La vocazione artistica di Luigi, detto Lovigino, è sempre stata quella del paroliere (ha composto testi per neomelodici rinomati, tra cui “Annarè” e “Cient’anne” di Gigi D’Alessio), ma infine ha ceduto anche lui alle tentazioni dell’autobiografia con il libro “Combattere o morire”, uscito su Amazon la scorsa primavera. Nel volume rivela, tra l’altro, l’esistenza di un vecchio piano per rubare l’inestimabile tesoro del patrono cittadino, che avrebbe trasfuso nella realtà la vicenda immaginata in un film di Dino Risi del ’66: “Operazione San Gennaro”, con Totò e Nino Manfredi. Lovigino, che come Misso è da molto tempo collaboratore di giustizia, si è diplomato alla scuola di Mogol e nel 2018 postò su YouTube una ballata cupa e perturbante: “Era di notte”, musicata da Ludovico Piccinini, rievocatrice di drammatici frangenti. Qualche passaggio:
“Una ragazza fu uccisa / da un proiettile vagante / io fui ferito / di striscio alla fronte. / Mi lasciai cadere al suolo / fingendo di esser morto / i killer fuggendo / calpestarono il mio corpo. / Per darmi il colpo di grazia / uno di essi si voltò / mi afferrò per i capelli / ma l’arma s’inceppò”… Nulla è frutto di pura invenzione, la poetica nasce dalla cronaca cruda: “Una banda rivale / entrò nel quartiere / mio fratello e i nostri soldati / sapevano cosa fare. / Gli ingressi della casbah / furono bloccati / alla morte i nemici / non sarebbero scampati”.
Luigi Giuliano, “re” di Forcella, da tempo collaboratore di giustizia, si è diplomato alla scuola di Mogol. Nel 2018 ha postato una cupa ballata
Non scampò alla morte nel 2005, per vendetta trasversale, il fratello maggiore di Luigi Giuliano: Nunzio, dissociato da tempo da ogni attività criminale, scriveva poesie e pensieri contro la camorra e li leggeva ai ragazzi nelle scuole. “Poesie e pensieri” scrisse, e così intitolò il suo primo libro, anche il boss di Ottaviano Raffaele Cutolo, ispiratore di una biografia a Joe Marrazzo e del primo film di Giuseppe Tornatore, “Il camorrista”. Certi versi parvero belli a Goffredo Parise, ma ignorava che don Rafele li aveva rubati al poeta e giornalista Ferdinando Russo. Vissuto tra Otto e Novecento ma attualissimo raccontatore della camorra, Russo trattò con empatia dell’infanzia abbandonata e coniò il vocabolo “scugnizzo”. La premessa a quei suoi sonetti resta valida oggi: “Scugnizzi in balìa del Caso fino a quindici o sedici anni, i miei piccoli eroi, fatti adulti, non possono altro diventare – meno qualche rara eccezione – che Gente ’e mala vita”. Ispirati all’epoca dalle storie dei paladini di Francia, che incantavano adulti e ragazzi nei teatrini dei pupi, gli scugnizzi credevano di replicarle nella società camorrista come i loro coetanei di cent’anni dopo hanno modellato la pettinatura e la barba sul modello dei jihadisti dell’Isis visti su Internet e in televisione: “Perché è gente che tiene le palle”.
“Il racconto della camorra si mescola con il racconto popolare che è nel codice genetico della cultura autoctona di Napoli”, osserva Ravveduto. “Ci sono momenti in cui è impossibile separare i due filoni, per esempio nelle canzoni neomelodiche e nella trap attuale. Manca nella storiografia una riflessione di lungo periodo sulla stratificazione dell’immaginario camorrista, che perdura e si rinnova nei secoli fino a giungere a TikTok, su cui s’inscena una sorta di reality show del vivere criminale su dimensione globale, a Napoli come nel Messico, dove gli affiliati al cartello di El Mencho esibiscono il proprio potere attraverso le piattaforme social”.
Su TikTok molte ragazze del centro storico doppiano le frasi di Mariarka Savarese, giovane vedova del baby boss Emanuele Sibillo alias ES17
Ha spopolato su TikTok nei mesi scorsi, come buffo tormentone di sottofondo a disparate situazioni, quel “Povero gabbiano” di Gianni Celeste, neomelodico siciliano che suscitò anni fa scalpore per avere interpretato la canzone di Tommy Riccio “’Nu latitante”, romantica visione di chi si nasconde alla legge (“’Nu latitante è ‘na foglia int’o viento / Nun po’ alluccà, nun po’ di’ so’ innocente”).
E su TikTok molte ragazze napoletane tra i vicoli del centro storico doppiano le frasi di Mariarka Savarese, la giovane vedova del baby boss Emanuele Sibillo alias ES17, capo della “paranza dei bambini”, che per un breve periodo strappò agli adulti il dominio di Forcella e venne ucciso a 19 anni, nel luglio 2015, dagli affiliati di un clan rivale. La notte usciva armato di pistola per fare le “stese”, ma tornato a casa litigava con Mariarka perché, in un gioco infantile che li divertiva, lei gli nascondeva le Gocciole, i biscotti di cui andava ghiotto. Emanuele, cresciuto in una famiglia di camorra, barba jihadista e una certa istruzione, nel periodo trascorso in comunità per reati minorili coltivò anche l’aspirazione di diventare giornalista, sbriciolata col ritorno nel suo ambiente. E’ stato Roberto Saviano, con i romanzi “La paranza dei bambini” e “Bacio feroce”, a narrare l’epopea dei ragazzini che vogliono prendersi tutto e persino ci riescono: “Diventare feroci, solo così chi ancora incuteva timore e rispetto li avrebbe presi in considerazione. Bambini sì, ma con le palle. Creare scompiglio e regnare su quello: disordine e caos per un regno senza coordinate”. Ma in cosa consiste questo “tutto” ambìto da giovanissimi che non s’accontentano più di essere definiti muschilli (moscerini)? In estorsioni e piazze di spaccio. Obiettivo: “Il modello nobiliare dell’aristocrazia napoletana, che la camorra ha sempre cercato di imitare: disporre di denaro senza faticare. I giovani camorristi pretendono di appartenere a una élite e si sentono talentuosi, perciò se aspirano a un destino che non sia criminale guardano allo sport o alla musica, dove chi ha talento secondo loro emerge senza sforzo”, dice Ravveduto.
Sono i baby boss da social network a marcare un’ulteriore, fondamentale differenza tra la camorra e altri tipi di organizzazioni mafiose in cui la scalata è più lenta. Nota lo studioso di criminalità Isaia Sales nel recente saggio “Teneri assassini”: “A Napoli, nella terza città d’Italia, si può essere boss di camorra a diciotto-vent’anni, si partecipa a delitti efferati tra i quindici e i diciotto anni, a quattordici anni si è già nel giro della droga, facendo le sentinelle nelle piazze di spaccio, e si è pronti per essere assoldati dai clan, a tredici anni si ha come modello di vita il camorrista del quartiere, e tra l’adolescenza e la maggiore età si uccide e si viene uccisi per strada”. I “paranzini” non sono interessati all’ascesa sociale, non vogliono evadere dal proprio quartiere: “I soldi sono tutto, il resto”, afferma Sales, “non conta niente. Siamo di fronte a un’auto-apartheid dentro cui cresce un vero e proprio autismo criminale”. Significativo è l’atteggiamento delle ragazze nei quartieri di camorra: anche per loro “lo stile appare diverso da quello delle mafiose di altre regioni” osserva Sales. Valore condiviso con i coetanei maschi è il lusso: “Ostentano con l’abbigliamento, amano apparire, sono l’espressione vistosa della voglia di successo economico”. Un’estetica che oscilla dall’opulento kitsch di Kim Kardashian al grottesco stile della moglie del boss, Donna Maria, interpretata (alla grande) da Claudia Gerini nel film musicale “Ammore e malavita” dei Manetti Bros.
I “paranzini” non sono interessati a evadere dal proprio quartiere: “Siamo di fronte a un’auto-apartheid dentro cui cresce un vero autismo criminale”
La storia di Mariarka Savarese gira su TikTok perché vi s’immedesimano le ragazze della sua generazione. Dopo l’uccisione dell’incolpevole sedicenne Davide Bifolco al rione Traiano nel 2014, scambiato per un latitante da un carabiniere che gli spara durante un inseguimento notturno, il regista Agostino Ferrente affida uno smartphone a due ragazzi del quartiere con cui gira il documentario “Selfie”, che vince il David di Donatello 2020. Tra gli intervistati c’è Sara, coetanea di Bifolco, che già mette in conto un destino per sé: “Se un ragazzo che purtroppo fa una vita sbagliata però mi vuole bene, qual è il problema? Se mi tratta bene, non vedo il motivo per cui non dovrei fidanzarmi e fare i figli. E se poi va in galera, se la vede Dio”.
Nel caso di Emanuele Sibillo, tuttavia, la parabola termina presto con una pallottola nella schiena. E se Mariarka è un’eroina dei social, Emanuele alias ES17 è diventato un mito per tanti adolescenti tra i decumani. Soltanto ad aprile dell’anno scorso, su decreto della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, è stata rimossa la sontuosa cappella kitsch con le ceneri e il busto del capo della “paranza dei bambini”, collocata di prepotenza nel palazzo dove risiede la sua famiglia in via Santi Filippo e Giacomo. Quel sacrario era diventato luogo di culto per gli affiliati al clan e per i giovanissimi affascinati dalla storia di Emanuele che ancora ne rimbalzano l’effigie sui social; che ne emulano il look; che riguardano decine di volte lo scioccante film-inchiesta del 2018 “ES17 – Dio non manderà nessuno a salvarci”, scritto da Diana Ligorio e Conchita Sannino. “I fantasmi non se ne vanno mai”, commenta Ravveduto. Ma se nel caso della mafia sono quelli delle sue vittime, a Napoli sono i “santi di Gomorra” a occupare gli spazi della pubblica memoria. Protagonisti criminali celebrati nelle edicole votive o sulla pietra dei murales, quando la prefettura ne dispone la cancellazione persistono nello spazio immateriale del web, un palcoscenico che ha sostituito quello dell’opera dei pupi e dove anche per effetto di un algoritmo ti puoi imbattere nelle vanitose ostentazioni di Sabino ’o malese, ufficialmente commerciante di frutta che si fa filmare seduto a un tavolo sommerso di banconote, provento di truffe di cui lui stesso si vanta, e che viene arrestato proprio grazie alle spacconate su TikTok.
“I soldi, ’e femmene, il potere”. Tutto quanto si riduce a questo. Una distorta parvenza d’epica ancora l’avevano i camorristi del tempo che fu
“I soldi, ’e femmene, il potere”. Stringi stringi, adesso tutto quanto si riduce a questo. Una distorta parvenza d’epica ancora l’avevano i camorristi del tempo che fu: Ciccio Cappuccio, per il quale alla morte Ferdinando Russo compose una poesia pubblicata sul Mattino (non per esaltarlo, ma per raccontare un’emozione popolare che solo la pruderie borghese preferisce tacere). O Raffaele Cutolo, che come Pablo Escobar si richiamava al mito di Robin Hood. O i due bambini raccontati da Misso nell’autobiografia, che s’arrampicavano sui leoni di marmo posti all’ingresso del Duomo di Napoli: “A cavalcioni del leone mi avvinghiavo alla gelida criniera e chiudevo gli occhi. Volavo… Sognavo di liberare la mia regina dal drago cattivo, di spezzare con la mia spada magica le catene del disagio, della miseria. Di vincere ogni malefico sortilegio…”.
Alla camorra serve una scena, una sceneggiata, una sceneggiatura. E se non trova un autore, se la scrive da sé. I paladini di Francia non bevono più, come enfatizzava cantandoli Russo, “una botte di vino”, né i Rinaldo maneggiano ancora la spada Durlindana. Ora aspirano al Dom Pérignon e a una Glock. Ma non hanno rinnegato i fantasmi dei propri antenati.
“Non sono né felice né infelice.
Perciò non ce la faccio più”.
Mariarka Savarese
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio