Cattivi scienziati

Ragioni per promuovere la comunicazione diretta tra scienza e cittadini

Enrico Bucci

Secondo alcune visioni, i ricercatori dovrebbero smettere di parlare e spiegare al pubblico nozioni ed evidenze, favorendo invece la costruzione di una fiducia generica, di una sorta di “delega a capire” agli scienziati. Non è così, per almeno tre ordini di motivazioni: linguistiche, etiche e politiche

Fra le tante discussioni che mi capita di intrattenere con i più vari interlocutori, a causa della mia attività di divulgazione scientifica, una occorsa negli ultimi giorni merita di essere esposta qui. Un collega, un biologo molecolare, ha ritenuto di sottolineare quella che a suo parere è l’impossibilità di una soluzione del dilemma comunicativo, quando si tratta di interagire con il pubblico da parte dei ricercatori: l’impossibilità di utilizzare un linguaggio sufficientemente preciso, da non generare malintesi o interpretazioni alternative di quanto si intenda comunicare.

 

La mancanza di accesso a una terminologia specialistica e non ambigua, che unita al corretto formalismo matematico riduce al minimo l’ambiguità, rende a giudizio del collega inutile lo sforzo da parte degli scienziati; ovviamente, aggiungo io, anche lo sforzo di comprensione da parte del pubblico, in una visione come questa, diventerebbe vano. Le semplificazioni divulgative, le metafore, l’approssimazione utilizzata, tutto concorrerebbe inoltre al rischio ancora peggiore del fraintendimento o della strumentalizzazione; ragion per cui, questa la conclusione del collega, la comunicazione diretta fra scienziati e pubblico dovrebbe essere abolita, in favore della costruzione di una fiducia generica, di una “delega a capire” agli scienziati, sulla scorta del funzionamento delle applicazioni della scienza – medicina, informatica, tecnologie varie eccetera – che sarebbero l’unico metro utile al pubblico a cogliere il valore sociale della ricerca scientifica.

Ho qualche seria obiezione al tipo di visione prospettata, che indubbiamente sarebbe molto comoda per tutti i ricercatori, a patto che il pubblico accettasse di finanziare una scatola nera, per trarne di tanto in tanto i frutti applicativi.

La prima obiezione, che forse devo alla natura dei miei studi scolastici, è contro l’assunzione di partenza, ovvero che la lingua corrente – ed in particolare l’italiano – non sia sufficientemente ricca ed accurata per poter comunicare ai non esperti qualunque contenuto scientifico di rilievo, almeno nei suoi tratti fondamentali. In realtà, ho spesso l’impressione che l’incomunicabilità fra pubblico e scienziati, quando si verifica, possa essere parte di un più generale problema, quello dell’impoverimento terminologico nella nostra comunicazione, a tutti i livelli. Mentre gli scienziati dispongono di quelle poche migliaia di termini specifici del loro campo di studi, il pubblico non vi ha accesso; questo non significa affatto, tuttavia, che non esistano alternative all’uso di quei termini, visto che, anche per gli scienziati, essi vanno quasi sempre definiti alla fine attraverso il linguaggio comune (eccetto quando ci si riferisce a concetti esclusivamente matematici). Forse è appena il caso di ricordare che sia più frequente il caso in cui un ricercatore non è in grado di formulare la definizione corretta, con un linguaggio piano ma accurato, dei termini e dei concetti che utilizza, piuttosto che il caso in cui un generico interlocutore, non esperto del campo, non sia in grado di afferrare tale formulazione se esposta utilizzando appropriatamente la lingua italiana.

 

Sto dicendo che vale almeno la pena di considerare la possibilità che sia la scarsa maestria linguistica di molti scienziati, e non l’impossibilità di una formulazione nel linguaggio comune, il maggiore ostacolo all’ingaggio diretto del pubblico nelle discussioni che riguardano la scienza. Per inciso, il semplice sospetto che questa circostanza sia vera, dovrebbe immediatamente far apprezzare lo studio delle materie umanistiche ed in particolare della lingua, la quale è il più importante mezzo non solo per veicolare i concetti alla base di ogni indagine scientifica, ma spesso può aiutare proprio a delineare meglio quei concetti, ad eliminare le ambiguità e pure a realizzarne la reale estensione più di quanto non sia possibile attraverso una pura formulazione matematica.

 

La seconda obiezione è di natura etica ed estetica. A mio modo di vedere, tutto sommato condiviso da una larga parte della comunità scientifica, dovere di ogni membro della comunità scientifica è giustificare con chiarezza la ragione dell’investimento sociale nella scienza: se questa giustificazione consistesse solo nell’ottenimento di utili applicazioni, la parte più interessante dell’edificio scientifico, ovvero l’indagine del mondo che ci circonda sulla base di assiomi logico-matematici e dell’analisi statistica della realtà, verrebbe sostanzialmente ad essere poco appetibile, riducendosi a mero gioco intellettuale in attesa che i veri risultati emergano sotto forma di nuove tecnologie più potenti delle precedenti. Perché lo sforzo di comprensione dell’universo sia giustificato, non è possibile fondarsi solo sulle aspettative in termini di ricadute: è necessario che il pubblico sia ingaggiato, che per quanto possibile, cioè, sia educato almeno ad intravedere la bellezza della spiegazione scientifica del mondo come valore in sé, perché possano tutti il più possibile godere il vero frutto degli investimenti sociali che la scienza comporta.

La terza e ultima obiezione è di natura politica. La comunicazione scientifica di ogni risultato meglio utile a comprendere il mondo è l’unico modo attraverso il quale tutti possano meglio abituarsi all’utilizzo del metodo scientifico di ragionamento. Comunicare i risultati, infatti, presuppone anche spiegare con qualche dettaglio i metodi attraverso i quali sono stati ottenuti; e questo forma i cittadini, tutti, a una forma di ragionamento potente, in grado di meglio garantire la nostra società e la nostra democrazia, rispetto al dilagare di infondate opinioni, utili a manipolare le masse.

Non dico che sia semplice, anzi spesso mi rendo conto che in molti falliamo; eppure, la scienza non è e non deve divenire patrimonio di una casta, se si vuole evitare il fondato sospetto che sia solo e sempre un mezzo di prevalenza sociale.

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