Spazio okkupato
L'Italia resta in coda alle classifiche globali per mobilità sociale. Qualche ricetta
Il nostro paese è immobile a partire dalla scuola, dove le possibilità di incontro tra ricchi e poveri sono ridotte sin dalla primaria. E quel tipo di socializzazione è l'inizio del miglioramento della propria condizione nella società
L’amicizia è lo strumento più efficace per accorciare le distanze economiche e rimettere in moto la mobilità sociale, il cui buon funzionamento non è soltanto un problema di ordine etico e di giustizia sociale, ma una componente essenziale allo sviluppo economico di un paese. Uno studio pubblicato da Nature e ripreso dal New York Times ha dimostrato e misurato una verità che il mondo ha sempre saputo e che le storie, da “Cenerentola” al “Principe e il povero”, da “Novecento” di Bertolucci a “Una poltrona per due” di John Landis, continuano a raccontare dalla notte dei secoli: per chi è povero il metodo più semplice per migliorare la propria condizione sociale è costruirsi amicizie o amori nel mondo dei ricchi. Lo studio, guidato dall’economista Raj Chetty dell’Università di Harvard e intitolato “Social capital 1: measurement and associations with economic mobility”, ha analizzato 21 miliardi di amicizie su Facebook tra americani dai 25 ai 44 anni sulla base dei loro codici postali, cioè delle zone di nascita e residenza. La conclusione è che i ragazzi e le ragazze povere cresciute in aree dove la connessione sociale è più alta, e cioè dove c’è probabilità di fare amicizie con i coetanei ricchi, da adulti avranno un reddito mediamente più alto del 20 per cento di chi questa possibilità non l’ha avuta perché è cresciuto in zone più segretate. E’ evidente che questa probabilità si fonda sull’infanzia, quindi in gran parte sulla possibilità di crescere insieme a scuola.
Nell’ultimo rapporto sulla mobilità sociale del World Economic Forum di Davos 2020 – non precisamente una ghenga di pericolosi bolscevichi – si legge che in tutto il mondo le possibilità di una persona di riuscire nella vita sono sempre più determinate dal punto di partenza. La nostra è la prima epoca che costruisce muri e confini, visibili e invisibili, per negare ai poveri quello che è stato un loro diritto dalle origini della storia: mettersi in viaggio per cercare fortuna. Lo studio ha esaminato ottantadue paesi sulla base del loro Global Social Mobility Index, misurato in base a cinque parametri: sanità, scuola, tecnologia, lavoro, istituzioni e protezione sociale. L’Italia è arrivata trentaquattresima, appena prima di Uruguay, Ungheria e Kazakistan, ma dopo Portogallo, Spagna, Germania, Regno Unito e Stati Uniti, Lettonia, Cipro o Polonia (ai primi posti, come sempre, ci sono i paesi scandinavi). L’Italia, cioè, è bloccata dall’immobilità sociale. Chi nasce povero morirà povero, a meno di non diventare un calciatore, un rapper o un ospite fisso di Maria De Filippi. E invece un aumento della mobilità del 10 per cento farebbe crescere il pil italiano del 5 per cento, cioè di circa 100 miliardi di euro, in dieci anni.
E’ un risultato francamente imbarazzante per un paese con una tradizione cattolica e socialista così forte come l’Italia. Anche perché gli indici per l’aspettativa di vita e l’accesso alla sanità sono buoni. Il disastro è determinato dalla scuola italiana che, secondo il rapporto, è fondata sulla “mancanza di diversità sociale”. Significa che la scuola pubblica lo è solo di nome: in un modo o nell’altro fin dalle elementari, che sia per bacini di utenza o per volontà manifesta, ma inconfessata, di dirigenti scolastici e genitori, i figli dei ricchi vanno a scuola con i figli dei ricchi e quelli dei poveri con i figli di altri poveri, in modo da ridurre al minimo le possibilità di incontro, quindi di amicizia e amore, come avveniva nel Medioevo.
La scuola italiana è esclusiva, perché esclude i bambini poveri dalla possibilità di provare a non esserlo. Ed è una divaricazione che cresce progressivamente dalle elementari alle superiori, quando diventa incolmabile. Pensare come restaurare il diritto universale a migliorare la propria condizione anche attraverso le amicizie che si possono fare a scuola, dovrebbe essere la priorità del fronte democratico e progressista. Basare la campagna elettorale sulla scuola è rischioso, anche se si vota il 25 settembre e le lezioni cominciano il 12. Ma la lotta alla diversità scolastica dovrebbe essere il primo dovere del Partito democratico, dei liberal socialisti di Azione! (perché l’unica giustificazione morale del capitalismo è che la gara sia possibile) e dovrebbe costituire l’identità stessa delle forze di sinistra, che però spesso appaiono più impegnate a difendere i diritti acquisiti dai vecchi che a conquistarne di nuovi per i giovani. Lo ius scholae dovrebbe fare parte di un programma più vasto che comprende la dote proposta da Letta per la metà dei diciottenni (con reddito più basso), la lotta alla dispersione e l’innalzamento dell’obbligo scolastico al centro del programma di Calenda e perfino la vecchia proposta di Matteo Renzi, l’Innominato, di istituire un servizio civile europeo dove incontrarsi non più sulla base del reddito delle famiglie d’origine e delle scuole frequentate, ma soltanto del luogo e della data di nascita.