L'altra Venezia
Tra ex prostitute e drag queen, alla Biennale Cinema sfilano le ragazze di vita
Va in sala "Princess" di Roberto De Paolis, e la protagonista Glory Kevin prende meno riflettori di Miss Fame. Il tema della prostituzione, unica chance nella speranza di un riscatto, passa in secondo piano rispetto a una femminilità che nessuna donna di nascita possiede
Mercoledì 31 agosto 2022, ore 11 circa del mattino, sala Darsena della Biennale Cinema di Venezia. In attesa del lungometraggio “Princess”, con qualche amico osserviamo il pubblico che riempie nuovamente le file di poltroncine rosse dopo la presentazione piuttosto divisiva di “White Noise”, la satira socio-ambientale della classe intellettuale americana tratta dal romanzo anni Ottanta di Don De Lillo. Sono, siamo, quasi tutte donne: colleghe, produttrici, studentesse. Gli uomini che affollavano la prima visione del film di Noah Baumbach si sono dileguati, eppure, in quanto fruitori finali principali, quasi esclusivi, delle protagoniste del film, dovrebbero avere qualche interesse a trovarsi lì. Il film di Roberto De Paolis parla infatti di prostitute, di puttane nel senso proprio e originario del termine, giovani ragazze (dal latino puta, in dialetto veneto è ancora putea e non ha cambiato significato, cioè non è affatto un insulto), che si vendono per strada, anzi nei boschi che affiancano la strada da Roma per Ostia. La maggior parte delle interpreti ha frequentato quei non luoghi da racconto dei fratelli Grimm per davvero, a partire dalla protagonista, Glory Kevin, che per anni si è prostituita alla periferia di Roma. Ragazzina, in Nigeria sognava di diventare un’attrice della potente macchina cinematografica locale, Nollywood come venne ribattezzata ormai decenni fa, 500 milioni di dollari di giro d’affari secondo gli ultimi dati, che risalgono però ormai al 2015, quasi duemila pellicole a basso e medio costo prodotte all’anno: la sua strada ha incrociato quella di De Paolis all’inizio di un processo di riscatto che oggi l’ha portata sul red carpet di Venezia, accompagnata dalla figlia di poche settimane, Mary Jane, bella da morire e frignante come poche.
Glory Kevin in Nigeria sognava di diventare attrice. Per anni si è prostituita a Roma. Poi l’incontro con il regista Roberto De Paolis
Per Glory non c’è stata alcuna offerta di sponsorship, nessun vestito in prestito, gioielli neanche a parlarne, da parte dei brand della moda che da una settimana si contendono invece anche le mediocrissime, le influencer di terza fila, sconosciute ai più e che nessuno vedrà mai in sala neanche come spettatrici perché una volta compiuto il loro dovere di manichini a pagamento o anche gratuiti, verranno fatte uscire dallo stylist attraverso le porte laterali del palazzo del Cinema, pallidi simulacri commerciali di un divismo sul quale non possono accampare diritti. Glory è vestita come le è capitato, cioè malissimo, ed è truccata come la sua professione di un tempo le ha insegnato. Spiace averlo verificato in modo così brutale, ma è evidente che esista una scala di priorità e di precedenze anche in tema di inclusione, e sebbene il tema forte di questa Mostra sia la transessualità, che pure teorizza, anzi giustifica l’utilizzo del corpo a fini di sesso mercenario (leggere per info gli scritti fumosissimi della sacerdotessa delle battaglie trans, Judith Butler, e del suo omologo europeo per cui è legittimo l’uso della schwa, Paul-Beatriz Preciado), l’uso del corpo di Glory è stato in modo evidentemente troppo reale, troppo poco teorico. Troppo poco Ivy League, per dirla con De Lillo e Baumbach: ha subìto una percentuale eccessiva di sfruttamento senza gestire autonomamente il “lavoro sessuale” promosso dagli esegeti della gender theory al caldo delle loro aule universitarie.
E’ un problema di vestiario e di simbologia dell’abito (quasi trent’anni fa, nel suo “Ritratto a tinte forti”, Carla Corso raccontava come ogni tanto si divertisse ad aspettare sul ciglio della strada i clienti in tailleur scuro e la polizia immancabilmente si fermasse per chiedere se avesse avuto un guasto all’auto e come potessero aiutarla – per passare dalla parte delle signore, in fondo, basta una giacca di buon taglio), ma anche di linguaggio. Di gesti, di parole adatte: i romanzi che parlano di puttane sono perlopiù infarciti di termini pudichi che le puttane, probabilmente, non userebbero, e non perché molte di loro non conoscano il significato di “sodomia” o “fellatio”. Come parlano le puttane? Che linguaggio scelgono, quale lessico usano? Il pomeriggio precedente alla prima di “Princess” ho incontrato per caso De Paolis nel giardino dell’hotel di tradizione del mondo del cinema, il Quattro Fontane, mentre raccontava a un collega della Rai di aver tentato disperatamente di non “cadere nella trappola del giudizio” per indagare il quotidiano delle giovani nigeriane che arrivano in Italia da clandestine in cerca “di una vita migliore”. Usava a sua volta la pietosa locuzione che tutti, comprese le sue protagoniste davanti alle telecamere, utilizzano in questi giorni per descrivere il proprio percorso impastato di violenza e sopraffazione: il lungo viaggio attraverso l’Africa, le prigioni della Libia, il Mediterraneo stipate su un gommone, ben sapendo che senza documenti, senza conoscere l’idioma locale, senza una protezione se non quella della “madam” che devono ripagare per il viaggio e la traversata, non avranno altra chance se non quella di prostituirsi, un giorno dopo l’altro, di tentare di sfuggire alle retate, di continuare a sperare nel riscatto.
La fede superstiziosa è l’aspetto più riuscito di un film incerto fra il documentario e la fiction, illuminato dall’interpretazione della protagonista
Alla “Princess” del film, la madam ha raccontato di aver compiuto un rito juju affinché non soffra e non subisca conseguenze fisiche o psicologiche per gli abusi a cui verrà inevitabilmente sottoposta: un’altra donna in Nigeria invecchierà e si sciuperà al posto suo. Questo scudo magico, questa corazza di autosuggestione da cui la ragazzina si sente avvolta e che le permette di attraversare in apparenza indenne la lunga sequela di rapporti mercenari (“Dio, oggi dammi tanti buoni clienti” implora, con la fede superstiziosa che è tratto comune non solo in Africa) è l’aspetto più riuscito di un film strutturalmente incompiuto, incerto fra il documentario e la fiction, illuminato solo dall’interpretazione della protagonista e che confligge in modo perfino eccessivo con la recitazione scolastica degli altri.
Eppure, è proprio questa carenza di fluidità narrativa, questa difficoltà nella gestione dei piani semantici, a consentire la visione di un film che in mano a un regista diverso risulterebbe intollerabile. Dal minuto uno della pellicola temi fisicamente, di pancia, che a Glory succeda qualcosa di brutto, ne leggi quasi ogni giorno nelle pagine di cronaca, ipocritamente non vorresti vederlo in atto neppure dietro sceneggiatura; e nel frattempo, nei pochi minuti restanti fra un “bocca-f..a 30 euro” e un litigio con le compagne di s-ventura ti domandi se riuscirai a saperne qualcosa di più. E’ il motivo inconfessabile per cui le donne si trovano a centinaia in sala Darsena e gli uomini a decine, mediamente disinteressati, qualcuno dormiente. Perché loro, in quota non trascurabile, sanno quello che noi cis, madri, zie, nonne con un lavoro di cui andiamo orgogliose e una famiglia alle spalle a sostenerci non sappiamo: solo in Italia, tre milioni di uomini vanno a puttane, calcolo spannometrico trovato sul web dunque prendetelo per quello che è, neanche le associazioni impegnate contro la tratta delle schiave del sesso hanno dati precisi anche perché poco o nulla si sa delle puttane del lavoro autonomo, le presunte non vittime anzi le massime rappresentanti dell’affermazione femminile che, come scrive l’attivista Thierry Schaffauser in coppia con “Maitresse Nikita” nel libro-manifesto “Fières d’être putes”, dovrebbe “riappropriarsi dell’insulto puttana e usarlo come un vanto perché (…) provare piacere nel fingere di essere un oggetto sessuale agli occhi di alcuni uomini, fa parte del gioco erotico che noi prostitute padroneggiamo alla perfezione, ma che risulta inconcepibile per molti (…) rivendicando il nostro ruolo di attrici come in qualunque attività di servizio e di relazione”.
Grisélidis Réal sosteneva che la società rifiutasse le prostitute per via della conoscenza, l’essere “in the know” dei segreti maschili
E’ il punto centrale della questione, ed è anche quanto spiega alla giovane rumena Nadia il primo pappone della sua vita di schiava del sesso in “Vita ordinaria di una donna di strada” di Maria Pia Ammirati, scrittrice e non incidentalmente direttrice di Rai Fiction, uscito lo scorso anno per Mondadori, romanzo molto premiato di educazione sentimentale e percorso di coscienza che l’autrice ha costruito in anni di lavoro, incrociando in una sola figura le storie raccolte negli anni di frequentazione di case famiglia e centri anti-violenza. Il meretricio, come scriveva anche quell’impunito dell’Aretino cinquecento anni fa, è un mestiere che va appreso, e il genere di rapporto sessuale che gli uomini chiedono a una prostituta non è quello che si aspettano da una moglie, una fidanzata, nemmeno da un’amante. Non è nemmeno detto che debba essere un sesso violento, di “sfogo”, di sopraffazione, come spesso si immagina. Alle donne bennate resta sempre da capire quale sia, questo sesso professionale. Il simbolo della prostituzione militante dei Settanta, Grisélidis Réal, scrittrice di gran talento scomparsa nel 2009 e ora sepolta nel cimitero ginevrino riservato ai grandi accanto a Jorge Luis Borges, Jean Piaget e Frank Martin, sosteneva che la società rifiutasse le puttane innanzitutto per via della conoscenza, l’essere “in the know” dei segreti maschili: “Ci detestano a tal punto perché noi conosciamo gli uomini che vengono da noi meglio di chiunque altro, spesso meglio anche delle loro stesse mogli. Capiamo i loro desideri, le loro fantasie e in alcuni casi anche il disgusto che provano per la propria sessualità”.
Chi intervista con sussiego la piccola Glory persegue invece con l’umiltà dovuta ai grandi un abboccamento con Miss Fame
Scrivono di disgusto, infatti, in un thriller ambientato nel dating online che sta scalando Amazon, “Cosa cerchi qui?”, anche la sceneggiatrice Alessia Moretti della Abruzzo Film Commission e Giulia Vitti, pseudonimo di Giulia Cennamo, figlia di Tino, per lunghi anni ceo di Walt Disney Italia, Sony e di Rai Com. Giulia ha poco più di trent’anni, una carriera avviata nel marketing strategico digitale, un fidanzato adorante. L’ho incontrata la scorsa estate al mare, bellissima con i suoi riccioli scuri e le friulane di velluto delle milanesi perbene e le ho chiesto che cosa l’avesse spinta a scrivere quella storia con la sua amica Alessia che, non ci sono dubbi, intende trarne un film. Mi ha risposto che l’aveva colpita un fatto di cronaca e che il suo lavoro le ha permesso di entrare in contatto con il “giro” del dating romano, quello che tutti fingiamo di non vedere pur incrociandolo in pratica ogni sera e continuando a domandarci come funzioni. E’, ancora una volta, “l’indecente curiosità delle donne rispettabili per le loro sorelle perdute”, come postulava un romanzone d’appendice decenni fa, con la sua scrittura scarsa e il suo enorme intuito per il pop: lo lessi a tredici anni, mi è rimasto impresso, ne ritrovo la veridicità ovunque e anche la sua estensione semantica e psicologica, che oggi accoglie persino lo sfoggio di commiserazione fra chi intervista con sussiego la piccola Glory con le sue magliette troppo fine ma persegue invece con l’umiltà dovuta ai grandi un abboccamento con la splendida Miss Fame, nata Kurtis Dam-Mikkelsen, modello americano, truccatore, drag queen, concorrente della settima stagione di “RuPaul’s Drag Race”, che nello short movie di Gianluca Matarrese e Guillaume Thomas “Pinned into a dress” ripercorre la propria adolescenza queer in una famiglia disastrata, gli abusi, le violenze subite e la scoperta della bellezza come via di fuga.
Da qualche tempo, Miss Fame è invitato/a alle sfilate e alle serate più importanti: ha quel tipo di cura estrema del corpo, quella proiezione assoluta della femminilità che nessuna donna di nascita avrebbe mai. La persegue con dolore, fasciandosi, indossando guaine che gli provocano “dolore al cazzo”, come dice senza mezzi termini nelle battute finali. E’ l’alter ego di Princess, l’altra faccia di questa felicità perseguita nel patteggiamento con la propria sessualità e il proprio corpo diversamente violato. Ma solo per lui, esponente di “un genere evoluto”, come hanno dichiarato in sala i delegati del Sindacato Critici, c’è solo ammirazione. Non avevo mai ascoltato nulla di più volgare e umiliante per le donne in vita mia. Puttane o meno, trans o no. La classifica dei generi.
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