Spazio okkupato
Tutti col cellulare al corteo funebre della regina. Testimoni, non spettatori
A Edimburgo la processione per Elisabetta II. Nessun applauso si sente per le strade della città, perché la maggior parte dei presenti è impegnata a registrare, per condividerlo, l'evento che accade davanti ai suoi occhi.
Per il matrimonio di Carlo d’Inghilterra e Diana Spencer, celebrato nella cattedrale di Saint Paul di Londra il 29 luglio 1981, i cavalli del corteo nuziale furono alimentati con un foraggio più chiaro in modo che la loro cacca fosse intonata al colore del Mall, la strada che conduce a Buckingham Palace. Non sarebbe stato elegante contaminare con fumiganti deiezioni equine la favola di Carlo e Diana, uno dei primi eventi trasmessi in mondovisione dalla televisione a colori. Umberto Eco scrisse allora che quel semplice accorgimento cromatico, dettato da antica pruderie vittoriana e genuina intuizione dei tempi in arrivo, rappresentava la definitiva vittoria della televisione sulla realtà. La sua presa di posizione riecheggiava, e in qualche misura legittimava, la battaglia contro la tv a colori condotta dal Pci di Enrico Berlinguer e dai repubblicani di Ugo La Malfa, che oggi appare anacronistica e di retroguardia, ma che qualcosa, forse, intuì dello sconquasso culturale e antropologico che il colore avrebbe comportato. Il matrimonio di Carlo e Diana fu, cioè, il momento in cui la storia cominciò a essere messa in scena a beneficio degli spettatori come un prodotto, uno spettacolo di fantasia, una rappresentazione. Fu l’evento grazie al quale le tecnologie di riproduzione della realtà cominciarono a influire direttamente su quello che dovevano rappresentare; e il giorno in cui gli esseri umani (e per la verità anche i cavalli, i cui zoccoli oggi, per Elisabetta, sono dipinti di nero in segno di lutto) iniziarono a mettersi in scena in massa davanti all’obiettivo.
Da allora il nostro modo di celebrare la storia mentre accade, trasformandola in evento e spettacolo, è cambiato, come dimostrano anche le prolungate esequie di Elizabeth Alexandra Mary Windsor, regina del Regno Unito e Irlanda del nord e degli altri reami del Commonwealth britannico dal 1952 al 2022. La prima notazione banale è che, almeno fino a oggi (i funerali ufficiali si svolgeranno lunedì 19 settembre), i cavalli e le carrozze sono scomparsi, evaporati in un puf come il cocchio di Cenerentola dopo il ballo, tracce di un secolo, l’Ottocento, per cui oggi non si trova più spazio. L’altra osservazione è economica e geopolitica: se il matrimonio di Lady Diana fu un affollarsi di Rolls Royce, Bentley e Jaguar, cioè di automobili inglesi (ma il regalo di nozze di Carlo alla sposa fu una Ford Escort Ghia gialla, macchina di rara bruttezza e per di più americana), il carro funebre che qualche giorno fa ha trasportato le spoglie della sovrana per le strade di Edimburgo è stato una teutonica Mercedes E-Class con logo in bella vista, un affronto alla nazione non giustificato dai ben noti imparentamenti dei Windsor, gli Hannover e i Saxe-Coburg und Gotha. Anche per questo, probabilmente, a Londra la Mercedes è stata sostituita con una Jaguar XF riadattata a carro funebre dalla Wilcox Limousine, cioè con la stessa auto utilizzata per i funerali della Regina Madre nel 2002.
Se i mezzi di trasporto qualcosa dicono della Brexit e del declino dell’industria automobilistica anglosassone, il cambiamento più clamoroso non riguarda i membri estinti o in salute della famiglia reale, ma il pubblico. Riguarda noi. A oggi il fatto più eclatante, ma non mi pare notato, è stato il silenzio: il carro è transitato lento per le strade di Edimburgo, davanti alla folla gremita dei sudditi, nella più assoluta e assordante mancanza di applausi. Nessuno al passaggio, per quanto commosso, ammirato e intristito, ha ritenuto di dover metter giù un attimo il maledetto telefonino per battere le mani in omaggio alle spoglie di Sua Maestà. Davanti al feretro che scorreva nero, ripreso dalle telecamere della Bbc si stagliava invece un muro di braccia tese e di mani intelefoninate, impegnate a riprendere qualcosa di quel momento fuggevole, per postarlo sui social e dimostrare al mondo di esserci stati, davvero, con il corpo, gli occhi e il telefono, davanti a quel feretro, per un istante, vicini a quel cadavere. Non volevano testimoniare la storia, ma il passaggio della storia davanti ai loro occhi, che si facesse spettacolo per loro. I telefoni non sono un fatto nuovo, ovviamente. Accostarli alla morte di Elisabetta – e misurarne l’invadenza sulla cacca mimetizzata dei cavalli – ha, però, mi pare, un valore simbolico. Ognuno dei presenti rinunciava individualmente a mettersi in scena come spettatore per rappresentarsi come testimone. E però, in quel bisogno singolo si avvertiva anche il disperato tentativo collettivo di neutralizzare la morte grazie alla perdurante ma inconsapevole potenza sacralizzante dell’immagine, così come facevano i fedeli nel Medioevo, quando cominciarono a diffondersi specchi di vetro foderati di metallo, che durante le processioni alzavano i loro specchietti per imprigionare un riflesso delle reliquie del santo.