Venezia 2022
I costi del red carpet. Da Zendaya e Chalamet agli influencer sconosciuti
Non si capisce bene a cosa serva la folla di aspiranti professionisti della promozione: è acclarato che non fanno vendere di più ai brand. Che però non hanno il coraggio di farne a meno. Così hanno invaso il tappeto rosso di Venezia
Gli anni dell’incompetenza devono essere finiti o almeno ben avviati sul viale del tramonto, perché – segnale debolissimo ma che vale la pena registrare – da qualche giorno a questa parte a chiunque sia stato alla Mostra del Cinema di Venezia vengono rivolte quasi esclusivamente due domande, e nessuna di queste riguarda i film, nemmeno il dibattuto “Blonde” che, a dispetto delle pretese di “femminismo” del regista Andrew Dominik, la platea femminile ha unanimemente definito volgare e sessista e la giuria ha ignorato. Le domande riguardano Timothée Chalamet con la schiena nuda (sottotitolo: ma è davvero sexy come si dice?) e soprattutto gli influencer di seconda o terza fila accreditati a frotte sul red carpet (sottotitolo: perché loro sì e io no, che dopotutto sono sconosciuto uguale). Sul “Muro libero”, il dazebao che Gianni Ippoliti e un Codacons inaspettatamente spiritoso offrono ogni anno agli accreditati e al pubblico lungo il vialetto che porta al Palazzo del Casino perché vi scrivano i propri pensieri sui film e il Festival (il giovedì pomeriggio prima della chiusura si tiene la cerimonia di consegna del relativo premio, “Ridateci i soldi”, quest’anno ha vinto un messaggio al direttore Alberto Barbera, preferivo quello sulla “fetta di culo di Chalamet” che tutti avrebbero assaggiato “pur non essendo cannibali”), è apparso addirittura un appello contro i poveretti rei di indossare bei vestiti gratis o anche dietro compenso: “Meno influencer, più artisti veri”.
La domenica successiva alla premiazione, s’è lamentato con me dell’andazzo di Venezia perfino il gestore del bar del golf di Stresa, che peraltro non si capisce come faccia a vedere sul web tutte quelle passerelle se è sempre lì a coordinare il servizio di caffè e panini. In ogni caso anche lui avrebbe voluto vedere sul tappeto rosso “solo quelli che hanno il diritto di starci”, cioè che hanno un film da presentare. Imbucati, vade retro. Questa improvvisa legittimazione popolare dell’ars dramatica e dei suoi migliori interpreti, che a una prima analisi dovrebbe far ben sperare per il futuro delle muse ma nella quale si mescolano in realtà molti sentimenti contrastanti, fra i quali l’invidia gioca come ovvio una parte rilevante, rischia però di rimanere lettera morta. Non serve certamente spiegare che le manifestazioni cinematografiche mondiali, e Venezia non fa eccezione nonostante i quattro quarti di nobiltà, le scelte stilistiche raffinate di Barbera e l’uso di mondo del presidente della Biennale Roberto Cicutto, vivono di sostegni istituzionali e di biglietteria almeno quanto necessitano di sponsor, con le loro esigenze di visibilità e di relazioni con i propri clienti e testimonial, certificate per contratto e da rispettare senza fallo, numero di passaggi sul red carpet compresi e a totale discrezione dello sponsor stesso, fosse pure per la “smutandata” del momento, massimo insulto social alle scalatrici di notorietà.
E’ apparso un appello contro i poveretti rei di indossare bei vestiti gratis o anche dietro compenso: “Meno influencer, più artisti veri”
Se però credete che gli sponsor a cui venga dato accesso alla passerella siano esclusivamente quelli della categoria “main” che compare sui cartelloni ufficiali e che fra logo e ospitalità spendono milioni di euro per garantirsi l’onore vi sbagliate. Scendendo di livello, di investimento e purtroppo, spesso, anche di gusto, compare infatti una lunga fila di partner tecnici, di parrucchieri, di amici degli stylist, di stylist “con le entrature” che dietro adeguato compenso permettono allo stilista senza accredito di far sfilare sul red carpet la protetta del momento alla proiezione della sera, l’appuntamento quotidiano ambito dagli scalatori ai quali in genere non importa un fico del film, per poi recuperarla una volta varcate le porte del Palazzo del Cinema e farla uscire dal retro prima che la proiezione inizi. Accanto a queste professioniste della promozione, che una volta percorsi i trenta metri di tappeto salgono sul motoscafo dall’imbarcadero un po’ nascosto del Casino e vengono scortate alla cena dello sponsor a Venezia, si mescolano infinite altre espressioni di rapporti istituzionali e politici, di cicisbei che accompagnano l’anziana imprenditrice, di connivenze e di convenienze private e tutte insieme, viste attraverso l’occhio deformante e la narrativa enfatica dei social, hanno trasformato il red carpet in un succedaneo brulicante di Babilonia. In apparenza.
Non trovereste infatti traccia di questo genere di immagini sulle agenzie di stampa che di vendite campano (i fotografi freelance hanno imparato la lezione del selfie e non sprecano nemmeno uno scatto digitale per chi non ha mercato). Ne avete viste però moltissime sui social personali e le pagine mondane sponsorizzate di certi magazine: sono le foto scattate dai fotografi “al seguito”, come i biografi e le vivandiere sui campi di battaglia dei tempi antichi, scattate e pubblicate a fini di pubbliche relazioni. Neanche i red carpet sfuggono alla regola della distorsione mediatica, per cui i social dei brand e le riviste sotto contratto hanno semplicemente diffuso le immagini inviate da squadre di uffici stampa preposti alla glorificazione mediatica non solo dell’attore testimonial, ma anche della moglie dell’amministratore delegato dell’azienda sponsor, del direttore marketing della medesima, dell’amica del presidente e naturalmente dei cosiddetti “talent”, la mega categoria commerciale che, insieme con giovani talenti veri del cinema, del design e della moda, comprende gli influencer, cioè i tipi che la maggior parte della gente considera dei non-talenti assoluti, caso unico di merceologia in ossimoro. Il talent non ha in realtà un’età definita, e nemmeno una professione certa: serve però a rimpolpare le prime file delle sfilate che se fosse per i soli giornalisti e buyer invitati sarebbero di una noia mortale, arricchire i concorsi che i media organizzano per vendere un po’ di pubblicità (“ho un bel progetto con un po’ di talent dai 50 mila follower in su”), e come ovvio moltiplicare la notorietà del gentile ospite che ha pagato loro la trasferta, il pernottamento, i gadget e una cifra mai inferiore ai tremila euro, ma solitamente più vicina ai dieci e comunque misurabile al metro, cioè per numero di follower.
E’ acclarato che il tasso di conversione commerciale di queste presenze sia zero, ma le aziende non trovano il coraggio di farne a meno
Nonostante sia ormai acclarato che il tasso di conversione commerciale di queste presenze si avvicini allo zero, e a giudicare dal clamore negativo di quest’edizione della Mostra che sia addirittura un boomerang, nessuna grande azienda ha ancora trovato il coraggio di farne a meno, un po’ come il vecchio adagio di John Wanamaker per cui il cinquanta per cento della pubblicità è sprecato, se solo si sapesse di quale cinquanta per cento si tratta. Sarebbe però un grave errore liquidare la questione del “tappeto”, definizione in gergo, come un unicum, una “paesanata” globale e complessiva per dirla con l’amica che si occupa di orologi di lusso e che una volta dovette correre nella stanza dell’attrice di grande ignoranza e ottimo matrimonio per recuperarne un esemplare in prestito che era stato dato alla figlioletta per distrarla e nella convinzione che si trattasse di un regalo. Nel sistema red carpet, che credevo di conoscere abbastanza bene fino a quando ho interpellato un paio di stylist potenti che, in cambio dell’anonimato assoluto, mi hanno dimostrato come ne avessi scandagliato solo la superficie, esiste una gerarchia precisa che parte ovviamente dagli attori del momento e dalle glorie eterne per poi scendere fino a voi e a me che siamo finiti sul red carpet quasi per caso e gettando occhiatacce ai fotografi amici perché facessero scattare i dannati flash (nulla è più distruttivo per la propria autostima che trovarsi su quel tappeto e vedere una schiera di telecamere che si abbassano).
Dive come Zendaya, Julianne Moore o Cate Blanchett devono solo esprimere l’idea di come vorrebbero vedersi e poi scegliere fra le offerte
Come ovvio Zendaya, come Julianne Moore o Cate Blanchett o Lady Gaga, non hanno bisogno di chiedere abiti in prestito, ma solo di scegliere o, per meglio dire, di esprimere un’idea di come vorrebbero vedersi abbigliate in quella certa occasione e poi scegliere fra le tante offerte. “Le celebrity e i KOL che vestiamo sui red carpet (KOL è acronimo di Key Opinion Leader, in caso), ci richiedono i look con molto anticipo: in quel caso possiamo crearli ad hoc”, mi scrive un nome importante del network tappeto rosso da Los Angeles, perché quelle strisce di moquette sono virtualmente infinite e c’è sempre un festival in corso da qualche parte, in questo caso gli Emmy: “Per le celebrity dell’ultimo minuto”, aggiunge, “abbiamo una show room temporanea, mentre in altri casi vestiamo attrici, cantanti o comunque personaggi noti con cui sviluppiamo dei progetti, e il carpet diventa parte del progetto stesso”. Alla categoria last second, quest’anno va iscritta di sicuro Sigourney Weaver, arrivata al Lido con un capo Valentino di qualche anno fa, dunque non ancora vintage, acchiappato senza dubbio dalla sua stylist un minuto prima di farla montare sul motoscafo, al contrario di Zendaya, testimonial maison, che è stata accompagnata agli Emmy dal direttore creativo Pierpaolo Piccioli e vestita con una rivisitazione strepitosa di un modello Valentino dell’inverno 1987-1988. Questi sono gli accordi e le intese che schiere di addetti celebrity, ben pagati e ricercatissimi, impiegano anni a costruire, siglati con le star che i gestori del ristorante del golf vogliono vedere e commentare. Quelli che sì, hanno un tasso di conversione importante sulle vendite o almeno sul posizionamento del brand.
Nessuno di questi nomi offre l’esclusiva totale, nemmeno Cate Blanchett che pure è volto dei profumi di Armani da un decennio e veste in prevalenza la linea Privé, o la stessa Zendaya che per i gioielli ha siglato un contratto con Bvlgari. Come piloti di Formula 1, l’attore che può permetterselo stringe partnership per categoria merceologica e parti anatomiche, borse e calzature comprese che peraltro sono ormai appannaggio quasi totale e sostanzialmente gratuito di Giuseppe Zanotti, grazie ad anni di frequentazione hollywoodiana. E in questi casi, tranne per qualche caduta di stile che attiene di solito alle amicizie personali e allo scambio di favori fra brand e stylist, la scelta è severissima da ambo le parti, perché riverbera bagliori positivi anche sull’attore o sulla celebrity, come un sigillo di autenticità. La vecchia storia per la quale le dive di un tempo ricevevano dagli studios un appannaggio per presentarsi in pubblico in abiti che il pubblico avrebbe voluto copiare non ha più senso; soprattutto è clamorosamente antieconomico, in anni social e di moltiplicazione esponenziale delle occasioni pubbliche e delle piattaforme di diffusione. Ma se nessuno ha guardaroba abbastanza capienti da potere o anche volere conservare tutti gli abiti che indossa, parimenti nessuno calca il tappeto rosso con un abito di Armani senza aver ricevuto l’approvazione dello stesso Giorgio Armani e in seconda battuta della sua più stretta collaboratrice nel settore pubbliche relazioni vip, Stella Giannetti, così come mai Prada vestirebbe l’attrice di un film inadeguato a essere trasmesso nella sala della Fondazione e Vuitton di una star meno internazionale di Cate Blanchett.
Nel rapporto con i brand, la scelta è severissima da ambo le parti, perché riverbera bagliori positivi anche sull’attore o sulla celebrity
Poi ci sono gli eccentrici, come Harry Styles che non lavora in esclusiva con Gucci ma con Alessandro Michele ha sviluppato una sua linea piuttosto divertente fin dal nome, Gucci HA HA HA e ovviamente indossa quella, che andrà in vendita fra un mese, e la stella più acclamata di questa Mostra, il cannibale del film di Luca Guadagnino vincitore del Leone d’Argento, insomma Timothée Chalamet, Timmy per gli intimi, che non ha uno stylist personale perché, possedendo un gran senso dello spettacolo e della contemporaneità, si diverte moltissimo a vestirsi da solo. Dice la narrativa degli sgomitatori da tappeto, i carpet crawler, che abbia creato quel completo pantaloni-top rosso con la schiena scoperta che ha fatto svenire le ragazzine insieme con l’amico designer Haider Ackermann senza chiedere il contributo di nessuno. “Lui è così: si sveglia la mattina e decide che cosa fare”, sospirano. E lo fa senza aiuti prezzolati, accidenti.
generazione ansiosa