Foto di Tino Romano, via Ansa 

discorso sul clima

Una nuova religiosità contro la crisi ecologica in cui l'azione umana è il peccato

Michele Silenzi

Da evento transitorio a permanente: l'ansia per il cambiamento climatico si è sparsa in tutto il mondo e l'agire umano è diventato quello che sporca e inquina

La crisi ecologica è divenuta ormai da anni la principale preoccupazione globale, solo in alcuni momenti superata, ma brevemente, dalla minaccia atomica. La recente Cop27, la conferenza sul clima, se mai ce ne fosse stato bisogno ce lo ha ulteriormente ricordato. La crisi ecologica tiene dentro tutto: il generico inquinamento, il cambiamento climatico, lo spreco di acqua e altre risorse, l’eccesso della plastica nella nostra vita, ecc… mescolando realtà e suggestioni.

 

Quello che invece appare certo è che questo concetto di crisi ecologica sia divenuto nel corso dei decenni il modo in cui spieghiamo a noi stessi di vivere nell’epoca della crisi permanente. Del resto, ecologia ha nella sua radice (oikos) il concetto di casa, di ambiente, di luogo in cui viviamo. Quindi la crisi ecologica è immagine della crisi del mondo. 

 
Il discorso sul clima, ormai fanatizzato, esula del tutto dalla preoccupazione ambientale specifica, da un ecologismo necessario e ragionato, dall’amore per il contatto con la natura, dal suo rispetto, dal piacere nell’antropizzarla: si pensi alle ville palladiane o ai viali di cipressi e alle vigne in Toscana, ma anche a meravigliose centrali idroelettriche o a stupefacenti e infernali miniere da cui viene cavato il rame utilizzato per le più diverse e indispensabili apparecchiature.

 

Naturalmente, tutto ciò che è in crisi cerca stabilizzazione, cerca l’uscita dalla crisi, chiede salvezza. E mai prima d’oggi questa volontà di salvezza aveva abbracciato, attraverso un’unica motivazione materiale, tutto il globo. Mai come adesso questa speranza di salvezza, che è tutta immanente, è stata tanto inquietante perché entra nella sfera del politico. Del teologico-politico. C’è un’ansia religiosa di essere salvati, di uscire dalla crisi, dalla crisi che appare essere il mondo stesso. E l’ossessione climatica è la plastica immagine di questa speranza angosciata di essere salvati. 

 

La crisi, concetto abissale che è con noi dall’alba del pensiero ed è tutt’uno con il pensare, ha smesso di essere evento radicale ma transitorio per divenire il tessuto stesso delle nostre esistenze, delle nostre relazioni, della nostra vita. La crisi è anche una categoria del conoscere, un modo in cui interpretiamo e comprendiamo gli eventi. Vediamo anche quanto vi è di più slegato dall’umano, ossia il cosmo senza vita, come un susseguirsi di crisi e catastrofi, ammassi di galassie che si scontrano, buchi neri che divorano materia. Ma tutta quella crisi è nell’occhio di chi osserva e fa parlare quel linguaggio a una materia altrimenti muta. È un modo propriamente umano di interpretare quegli eventi. 

 

La crisi è divenuta per noi tutt’uno con il mondo perché non esistono più fattori di stabilizzazione di lunga durata, di lunga credenza. Ecco perché non si riesce a uscire da crisi che si susseguono in un continuum che appare permanente. Ma questo è più che noto. Il paradosso, invece, è che il successo del nostro mondo, del nostro modello socio-economico, è in stretta relazione con la sua crisi permanente, con la sua instabilità innovatrice e appunto critica. In quest’ottica la crisi è anche, ovviamente, il sinonimo della vita, ossia che qualcosa si muove. Se qualcosa non si muovesse non potrebbe neppure entrare in crisi, vale tanto per gli individui quanto per le macrostrutture. E l’agire dell’uomo è in sé portatore di crisi, perché l’azione umana trasforma e rinnova l’ambiente in cui vive. Questo è ciò che è più proprio dell’uomo: agire, cambiare, modellare, modificare, rompere e ricostruire, fare entrare tutto in crisi e portarlo a un nuovo ordine. Poi ricominciare.

 

È chiaro che qui non interessa ciò che significa un grado in più o in meno di temperatura, o da quanti e quali tipi di fattori sia causata la crisi ecologica o il cambiamento climatico, interessa ciò che questo concetto maschera e porta con sé, visto che questo concetto è divenuto una categoria assoluta dell’interpretazione del reale e della conseguente azione politica. 

 
Quella del clima e dell’ambiente è, paradossalmente, un’emergenza metafisica e non di natura “fisica” e scientifica quindi affrontabile con razionalità e secondo precise linee d’intervento, ma che pretende un ripensamento totale del fenomeno umano. Ennesima occasione palingenetica ma in questo caso definitiva perché si vuole colpire quanto è più proprio dell’uomo, ossia la sua azione. 

 

Superare la crisi, ipostatizzata nella crisi ecologica come crisi di tutte le cose è volontà di superare quella mobilità che è la vita stessa, che è la stessa azione umana con la sua necessaria potenza critica e trasformativa. L’azione umana è infatti vista come il Male, come ciò che inquina, ciò che sporca, ciò che distrugge e non già sempre come ciò che crea. L’azione umana è quindi per questa aspirazione alla salvezza, per questa nuova religiosità, il peccato originale, quello da mondare assolutamente. Anche a costo di cancellare il volto dell’uomo, ossia ciò che più lo rappresenta: la sua libera azione.

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