(foto Unsplash)

È quella fuori dai social la vera esclusività

Gaia Manzini

Esclusivo è una parola abusata, spesso associata a un movimento di prevaricazione. Mentre è con la letteratura che ci rendiamo conto di quali sono davvero i bisogni esclusivi della nostra essenza umana

In comunicazione, se si usa l’aggettivo “esclusivo” si intende qualcosa che è stato creato in esemplari limitati e che è destinato a pochi: a persone che hanno il gusto necessario per capire quel prodotto e i mezzi sufficienti per poterselo permettere. Va da sé, che se si tratta di ambiente esclusivo si intende un ambiente destinato a una élite. Ambienti, oggetti esclusivi; collezioni, edizioni, iniziative, eventi… esclusivi: dunque – in teoria – speciali, come le persone che possono aderirvi.

La letteratura sembra ormai l’unico spazio dove a essere dichiarati esclusivi sono i sentimenti, le emozioni e dunque i rapporti umani. Quell’uomo schivo e timido che è stato Dino Buzzati dedica pagine bellissime al suo grande amico Arturo Brambilla detto “Illa”. I momenti trascorsi con Illa in adolescenza lasciano un’impronta incancellabile nella vita di Buzzati; condividere l’incanto della giovinezza con il suo amico equivaleva a vivere dentro una bolla di felicità. Avevano tredici anni e si scrivevano in continuazione, raccontandosi tutto e alimentando le passioni comuni: il pittore Rackham, Dostoevskij, le riviste liberty, gli acquarelli, la montagna, l’egittologia. Ordinarono per lettera la Storia d’arte egiziana di Maspero, e da lì presero ispirazione: si ribattezzarono Donubis e Artueris e inventarono un alfabeto geroglifico che solo loro potevano decifrare. Scoprirono il mondo insieme, costruendone uno privato; parlavano una lingua segreta e così scoprivano loro stessi.

 

In una rivista scientifica rivolta ai ragazzi ho trovato le lettere di alcune giovani lettrici. Una coppia di migliori amiche racconta di aver adottato, per comunicare in vacanza, un codice detto “nomificazione” per il quale ogni lettera corrisponde a un numero in base alla sua posizione nell’alfabeto. La lingua segreta tra due persone non è solo un modo per non farsi capire da tutti gli altri: è soprattutto un modo per sentirsi unici e speciali, perché riconosciuti nella propria specificità. E’ questo che rende un rapporto esclusivo (senza che diventi morboso): è uno sguardo verso l’interno, verso i componenti di quel rapporto; ha un ruolo nella costruzione della propria identità. Tutto il contrario di quello che accade in quell’idea di esclusività usata in comunicazione: idea che invece ci induce a proiettare lo sguardo verso l’esterno, cioè verso gli esclusi. Posso frequentare un ambiente esclusivo e gli altri no; posso permettermi un oggetto esclusivo e gli altri no. C’è un movimento di prevaricazione neanche troppo latente.

 

Il premio Nobel Olga Tokarczuk nei Vagabondi racconta, tra le tante storie, quella del contrabbandiere Eryk finito in prigione. Nella biblioteca della prigione Eryk riesce a rintracciare solo un vecchio libro: si tratta di Moby Dick. Non sapendo cosa fare la sera, prende a leggerlo ad alta voce ai suoi compagni di cella, contrabbandieri e marinai come lui, che presto cedono al fascino delle avventure dei cacciatori di balena. A furia di sentir parlare di Ismaele e Achab, i tre compagni di cella cominciano a parlare in un gergo tutto loro. Ogni nuovo prigioniero all’inizio capiva ben poco e quindi per qualche tempo rimaneva estraneo; dunque escluso da quella dinamica sociale. Quella di Eryk è una storia bellissima sulla capacità della letteratura di abbattere muri, ma anche sull’appartenenza e sul suo rovescio: l’estraneità, che rimane un incubo contemporaneo. 

 

Mia figlia, a cui vietiamo di avere Instagram, si sente esclusa da una serie di interazioni sociali. Instagram è l’ambiente esclusivo a cui vorrebbe avere accesso: vorrebbe essere accolta nel mondo dei ragazzi grandi e non appartenere più in alcun modo a quello dell’infanzia. C’è un nuovo nome per questo timore, si chiama F.O.M.O. (Fear Of Missing Out) la paura di essere tagliati fuori da qualcosa. Clubhouse è il nuovo social network che sa bene come sfruttarla: per accedervi si ha bisogno di un dispositivo Apple e lo si può fare solo su invito. L’evoluzione delle piattaforme va verso questa tendenza all’esclusività nella sua accezione più superficiale, con contenuti specifici pensati per ogni singolo utente e con cerchie ristrette di fruizione. C’è già Raya, il Tinder dei vip, con una lista d’attesa di centomila persone. Forse ha ragione il filosofo Èric Sadin, quando dice che i social rappresentano il rifiuto degli altri. La letteratura ci viene in aiuto per ricordarci come ogni cosa – compreso un aggettivo – possa avere tanti significati e tante letture; e soprattutto per mostrarci quali sono i bisogni davvero esclusivi della nostra essenza umana. Quelli più intimi e valoriali. Fuori dai social, fuori da qualsiasi confronto esibito col mondo. 

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