Almanacco delle feste di Natale aziendali. Buona sopravvivenza a tutti
Il ghiaccio nella scollatura e le pareti colorate. Le feste natalizie mischiate al lavoro tirano fuori il peggio di noi
Congratulazioni, se leggete queste righe siete con ogni probabilità sopravvissuti a uno dei grandi flagelli del mondo del lavoro: le feste di Natale aziendali. I salari bassi (i più bassi d’Europa, ormai lo sappiamo, gli unici che diminuiscono invece di crescere), la mentalità preistorica di molte imprese, le partite Iva usate come forma di neo schiavitù, il gender pay gap e l’essere considerati dei ragazzini fino a 50 anni: tutte queste cose saranno ancora lì al vostro rientro a gennaio (be’ se avete la partita Iva non andrete davvero in vacanza: buon Natale a voi), ma almeno la festa, quella per un altro anno ve la siete tolta di torno.
Forse lavorate in una grande azienda, che si è limitata – bontà sua – a darvi un bonus monetario. Forse invece fate parte del 70 per cento dell’economia italiana: le Pmi, piccole medie imprese, quelle in cui il capo vi invita tutti a cena portandosi la moglie (ma non invitando la vostra, in fondo siete eterni figli della famiglia cattolica italiana, anche al lavoro).
Ma forse siete giovani, avete diciamo 35 anni, e siete manager di medio livello in un’agenzia di marketing digital: per tutto dicembre avete scambiato qualche messaggio equivoco con l’account carina (non dite così, nella vita reale) e siete arrivati alla location modaiola milanese in cui si teneva la festa, carichi a pallettoni. Avete visto la gonna di paillette da chica mala di lei, vi siete ubriacati e le avete lanciato cubetti di ghiaccio nella scollatura – in questo caso non preoccupatevi, niente intaccherà la vostra reputazione di serietà in ufficio, perché non lavorate in un ufficio, ma in una grande famiglia ammassata in un open space nei dintorni della stazione Centrale, e avete un frigorigero Smeg comunitario in cui tenete il latte di soia ad ammuffire. Quindi una reputazione di serietà non l’avete mai avuta: vi chiamano direttori creativi ma non siete altro che ragazzi. Nel vostro luogo di lavoro le pareti sono dipinte di strani colori, nelle sale riunioni ci sono i divani ma mai abbastanza sedie, e al compimento dei quarant’anni i dipendenti si autodistruggono: nessuno sa dove vanno, sicuramente a fare lavori più noiosi rispetto a voi che vi divertite tanto.
Ma forse non vi ho proprio capito: siete avvocati over 40 in un grande studio associato internazionale, e la festa di Natale si è svolta nella casa di 300 mq del socio fondatore con antenati giuristi. Sono apparsi i figli adolescenti e sono spariti altrettanto velocemente, come se avessero sentito odore di morte, e voi siete rimasti a mangiare prelibatezze di Peck e a parlare con le filantrope, quelle che hanno progetti ad Haiti ma anche un po’ alla Scala, intrattengono la vostra compagna mentre voi flirtate con l’amante a cui avete appena regalato un gioiello di Pomellato.
Ok, sono troppo dura: so che siete delle brave persone, è il Natale mischiato al lavoro che tira fuori il peggio di voi. Magari non avete nessuna amante (del resto se lavorate in uno di quei grandi studi legali potreste non averne il tempo), non tirate cubetti di ghiaccio alla gente e non chattate con le colleghe (questo francamente lo dubito).
È che io sono stata a tutte queste feste. O come accompagnatrice o come schiava (partita Iva), o come dipendente. Si posizionano tutte su un grafico di cui l’influencer Giorgia Fumo ha delimitato i contorni: la formalità dell’ambiente di lavoro, il rapporto coi colleghi. In base a dove vi trovate su questi assi cartesiani avrete un modo di vestirvi, una serie di obblighi, soprattutto se siete donne (immaginate essere una manager trentenne che deve stare simpatica sia ai capi che ai giovani Zoomer), ma anche una serie di piaceri. Perché diciamolo, la festa di Natale è anche un piacere. Perfetta rappresentazione delle apparenze che cerchiamo di tenere in piedi in un mondo del lavoro disastroso, un mondo in cui con un lavoro normale non riesci a comprare casa in una grande città. Ma anche simbolo della speranza che vogliamo conservare, credendoci un po’. Nell’importanza di quello che facciamo, nel nostro posto in un mondo, nel nostro sforzo, nonostante tutto, di fare e progettare. Per cambiare le cose bisogna prima di tutto starci dentro. Almeno per una sera.
generazione ansiosa